di Faber Fabbris
In queste ultime settimane si è intensificata la campagna di critiche a Tsipras. Da eroe mondiale, il primo ministro greco è passato a «yesman» delle consorterie liberali. Tutto questo nel giro di quarantotto ore (12–13 luglio).
La lista è lunga: persino (l’ottimo) Canfora ha definito da queste colonne Syriza «ex-sinistra», decisa (non meno che il Pds-Ds-Pd) a «puntare, con qualunque alleato, ad andare al governo a qualunque costo per fare una qualunque politica» (sic). Tanto che Tsipras ha scelto di dimettersi per la rottura della sua maggioranza politica piuttosto che cercare di raggranellare qualche fuoriuscito.
Mi pare che i neocritici di Tsipras procedano secondo un approccio da concilio medievale, nel quale sia necessario decidere, nel chiuso di una stanza, se lo spirito santo procede dal padre e dal figlio o dal padre unicamente. Ragionano, cioè, come se il compito della politica fosse quello di definire il miglior esito astrattamente concepibile (platonicamente), piuttosto che mettere in opera ciò che sia agibile nelle condizioni storicamente date (come invece raccomanda Aristotele).
E le condizioni date, qui ed ora, sono lo specchio feroce dei rapporti di forza, non tanto tra Grecia e Germania ma fra chi difende gli interessi del capitale e chi cerca di fare scudo a quelli del lavoro. Che la battaglia per la rimessa in discussione delle politiche economiche liberiste fosse una battaglia «di vita o di morte» è stato chiaro fin dall’inizio della trattativa. Gli interessi convergenti della finanza e del conservatorismo sono stati difesi con i denti e con le unghie, con metodi ai limiti del gangsterismo (il taglio delle liquidità, già dal 4 febbraio).
Tsipras ha combattuto con lucidità questa battaglia, ben cosciente di questo scenario, esplorando tutto il margine dell’azione consentita dagli eventi.
Sapendo che un’azione di questo tipo si inserisce in un processo storico, e non è certo un derby calcistico o una partita a scacchi. Dove ciò che conta è un’inflessione di lungo periodo degli eventi, che operi sulle contraddizioni del fronte avverso, che rimoduli progressivamente il senso comune, che apra un nuovo ciclo. E non certo la «sortita» abile e risolutiva, che porta al trionfo.
Insomma, come indicava Gramsci, piuttosto che la guerra «di movimento», si impone quella «di posizione, di assedio», che è «compressa, difficile, in cui si domandano qualità eccezionali, di pazienza e di spirito inventivo. Nella politica l’assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze, e il solo fatto che il dominante debba far sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell’avversario» (Quaderno VI).
Chiedere a Tsipras di supplire alle deficienze storiche, politiche, intellettuali della vera «ex-sinistra» (Hollande, D’Alema, Gabriel, per intenderci) mi pare insopportabile.
Fonte: il manifesto
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