La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 17 settembre 2015

I profughi e "la non esistenza della Norvegia"

di Slavoj Zizek
Il flusso di profughi dall’Africa e dal Medio Oriente ha provocato una serie di reazioni straordinariamente simili a quelle che manifestiamo nell’apprendere che abbiamo un male terminale, secondo lo schema in cinque fasi descritto da Elisabeth Kübler Ross nel suo classico studio La morte e il morire.
Negazione (si rifiuta semplicemente di accettare il fatto: “Questo non può accadere, non a me”); rabbia (che esplode quando non possiamo più negare il fatto: “Come può accadere a me?”); venire a patti (la speranza che in qualche modo siamo in grado di ritardare o ridurre la realtà: “Fatemi vivere il tempo di vedere i miei figli laureati”); depressione (disinvestimento libidico: “Sto per morire, quindi perché preoccuparsi di tutto questo?” ); accettazione (“Non posso combatterla, è meglio che mi prepari ad essa.”) In seguito, Kübler Ross ha applicato queste fasi a qualsiasi forma di perdita personale catastrofica (perdita del lavoro, la morte di una persona cara, il divorzio, la dipendenza dalla droga), sottolineando che non necessariamente avvengono sempre nello stesso ordine, e che non tutte le cinque fasi sono vissute da tutti i pazienti.
Non è forse la reazione dell’opinione pubblica e delle autorità in Europa occidentale all’afflusso di profughi provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente una simile combinazione di reazioni disparate?
Vi è (sempre meno) la negazione: “Non è così grave, ignoriamolo”. È la rabbia: “I rifugiati sono una minaccia al nostro stile di vita, tra loro si celano fondamentalisti musulmani. Devono essere fermati a tutti i costi!”. Poi il venire a patti: “OK, stabiliamo quote e allestiamo campi profughi nei loro paesi”. Ed ecco la depressione: “Siamo perduti, l’Europa sta diventando un’Europastan”. Ciò che manca è l’accettazione, che in questo caso significherebbe un piano coerente in tutta Europa per affrontare i rifugiati.
Quindi cosa fare con le centinaia di migliaia di disperati in attesa in Nord Africa, in fuga dalla guerra e dalla fame, nel tentativo di attraversare il mare per trovare rifugio in Europa? Ci sono due risposte principali. I liberal di sinistra esprimono sdegno per il fatto che l’Europa stia consentendo che migliaia di persone anneghino nel Mediterraneo. La loro idea è che l’Europa debba mostrare la sua solidarietà spalancando le porte. Al contrario, i populisti anti-immigrati sostengono che dobbiamo proteggere il nostro modo di vivere e lasciare che gli africani risolvano i propri problemi. Entrambe le soluzioni suonano male, ma che cosa è peggio? Per parafrasare Stalin, tutte e due sono peggiori. I più grandi ipocriti sono quelli che sostengono l’apertura delle frontiere: in segreto sanno molto bene che questo non accadrà mai, in quanto porterebbe a una rivolta populista istantanea in Europa. Anime belle che si sentono superiori al mondo corrotto mentre segretamente ne sono parte.
Il populista anti-immigrazione sa molto bene che, abbandonati a se stessi, i popoli dell’Africa e del Medio Oriente non saranno in grado di risolvere i loro problemi e di cambiare le loro società. Perché? Perché noi, gli europei occidentali, impediamo che lo facciano. È stato l’intervento europeo in Libia, che ha gettato il paese nel caos. È stato l’attacco degli Stati Uniti contro l’Iraq, che ha creato le condizioni per la nascita dello Stato Islamico (Isis). La guerra civile in corso nella Repubblica Centrafricana tra il sud cristiano e nord musulmano non è solo un’esplosione di odio etnico, è stata innescata dalla scoperta del petrolio nel nord: la Francia (collegata con i musulmani) e la Cina (legata ai cristiani) stanno combattendo per il controllo delle risorse petrolifere attraverso i loro rappresentanti.
Ma il caso più evidente della nostra colpa è il Congo che oggi emerge di nuovo come il “cuore di tenebra” dell’Africa. La storia di copertina della rivista Time, il 5 giugno 2006, s’intitolava “La guerra più letale al mondo“- un’inchiesta dettagliata su come qualcosa come quattro milioni di persone erano state uccisi in Congo a causa della violenza politica nell’ultimo decennio. Nessun clamore umanitario, questa volta, come se una sorta di meccanismo di filtraggio avesse impedito che questa notizia raggiungesse il massimo impatto. Per dirla cinicamente, il tempo aveva scelto la vittima sbagliata nella lotta per l’egemonia nella sofferenza – avrebbe dovuto restare nella la lista dei soliti sospetti: le donne musulmane e la loro difficile situazione, l’oppressione in Tibet… Perché quest’ignoranza?
Nel 2001, un’inchiesta delle Nazioni Unite sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali del Congo appurò che il conflitto nel paese era principalmente sull’accesso, il controllo e il commercio delle cinque risorse minerali fondamentali: columbo-tantalite (coltan), diamanti, rame, cobalto e oro. Dietro lo schermo della guerra etnica, scorgiamo il funzionamento del capitalismo globale. Il Congo non esiste più come stato unitario; vi è una molteplicità di territori governati da signori della guerra locali che controllano il loro pezzo di terra con un esercito che, di regola, include bambini drogati. Ognuno di questi signori della guerra ha legami commerciali con un’impresa straniera o una corporation che sfrutta la ricchezza mineraria della regione. L’ironia è che molti di questi minerali sono utilizzati in prodotti ad alta tecnologia, come computer portatili e telefoni cellulari.
Dimenticate il comportamento selvaggio della popolazione locale, togliete le imprese high-tech straniere dall’equazione e l’intero edificio della guerra alimentata da antiche passioni etniche si sfarinerà.
Da qui si dovrebbe cominciare se si vuole veramente aiutare gli africani e fermare il flusso di rifugiati. La prima cosa da ricordare è che la maggior parte dei rifugiati proviene da “stati falliti”, dove l’autorità pubblica è più o meno inefficace almeno nelle grandi aree (Siria, Libano, Iraq, Libia, Somalia, Congo…). La disintegrazione del potere dello Stato non è un fenomeno locale, ma conseguenza dell’economia e della politica internazionali, in alcuni casi, come la Libia e l’Iraq, il risultato diretto di un intervento occidentale. È chiaro che questo aumento di “stati falliti” non è una disgrazia non intenzionale, ma è anche conseguenza delle forme in cui le grandi potenze esercitano il loro colonialismo economico.
Andrebbe anche notato che le radici degli “stati falliti” in Medio Oriente affondano nei confini arbitrari disegnati dopo la prima guerra mondiale da parte del Regno Unito e della Francia, che crearono una serie di stati “artificiali”: l’Isis, riunendo i sunniti in Siria e in Iraq, in ultima analisi, unisce ciò che fu lacerato dai padroni coloniali.
Non possiamo non rilevare che alcuni paesi non proprio ricchi del Medio Oriente (Turchia, Egitto, Iran, ecc) sono molto più aperti ai rifugiati che quelli davvero ricchi (Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, in Qatar … ). Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non accolgono profughi, che pure sono prossimi all’area della crisi, sono ricchi e culturalmente molto più vicini ai profughi (che sono per lo più musulmani) di quanto non lo sia l’Europa.
L’Arabia Saudita ha anche rispedito indietro profughi musulmani provenienti dalla Somalia, tutto quel che ha fatto è offrire 280.000.000 dollari a sostegno dell’istruzione per i profughi. Questo perché l’Arabia Saudita è una teocrazia fondamentalista che non può tollerare alcun intruso straniero? Sì, ma dobbiamo anche tenere a mente che economicamente la stessa Arabia Saudita è completamente integrata con l’Occidente. Non sono forse l’Arabia Saudita e gli Emirati, da un punto di vista economico, avamposti del capitale occidentale, stati totalmente dipendenti dalle loro entrate petrolifere? La comunità internazionale dovrebbe esercitare pressioni sull’Arabia Saudita (e su Kuwait e Qatar, e …) perché compiano il loro dovere di accettare un grande contingente di rifugiati, soprattutto perché avendo sostenuto i ribelli anti-Assad, l’Arabia Saudita è in gran parte responsabile della situazione in Siria.
La nuova schiavitù
Un’altra caratteristica comune di questi paesi ricchi è l’emergere di una nuova schiavitù. Il capitalismo si legittima come sistema economico che implica e promuove la libertà personale (condizione necessaria perché il mercato funzioni). Però genera schiavitù come parte della sua propria dinamica: la schiavitù era quasi estinta nel tardo Medio Evo, ma esplose nelle colonie dall’inizio della modernità fino alla guerra civile degli Stati Uniti. E si può azzardare l’ipotesi che oggi, con l’emergere del capitalismo globale, una nuova era di schiavitù stia emergendo. Anche se non esiste più la figura giuridica dello schiavo, la schiavitù acquisisce una moltitudine di nuove forme: milioni di lavoratori immigrati nella penisola arabica (EAU, Qatar, etc.) sono di fatto dei diritti e delle libertà civili elementari; altri milioni di lavoratori sono sfruttati in fabbriche asiatiche organizzate direttamente come campi di concentramento; in molti stati dell’Africa centrale (Congo, etc.) si ha un impiego massiccio di lavoro forzato per lo sfruttamento delle risorse naturali.
Ma non bisogna guardare così lontano. Il 1° dicembre 2013, almeno sette persone morirono in una fabbrica di abbigliamento a capitale cinese, nell’area industriale di Prato, a dieci chilometri dal centro di Firenze. Prese fuoco una domenica, uccidendo i lavoratori intrappolati in un improvvisato dormitorio di cartone messo su nel capannone. L’incidente avvenne nel distretto industriale di Macrolotto, in una città nota per il gran numero di fabbriche di abbigliamento. Roberto Pistonina, un sindacalista locale commentò: “Nessuno può fingere di sorprendersi, perché tutti sanno che da anni tra Firenze e Prato ci sono centinaia, se non migliaia, di persone che vivono e lavorano in condizioni praticamente di schiavitù”. Solo a Prato ci sono almeno 15.000 lavoratori legalmente registrati su una popolazione totale di meno di 200.000, con più di 4.000 aziende di proprietà cinese. Si ritiene che migliaia di immigrati cinesi vivano in città illegalmente, lavorando fino a 16 ore al giorno per una rete di grossisti e laboratori che producono vestiti a buon mercato.
Quindi non dobbiamo andare a cercare la vita miserabile dei nuovi schiavi tanto lontano, nella periferia di Shanghai (o a Dubai e in Qatar) e ipocritamente criticare la Cina – la schiavitù può essere qui in casa nostra, solo che non la vediamo (o meglio, facciamo finta di non vederla). Questo nuovo apartheid di fatto, questa esplosione sistematica nel numero di diverse forme di schiavitù di fatto, non è uno disgraziato incidente, ma una necessità strutturale del capitalismo globale di oggi. Questa è forse la ragione per cui i rifugiati non vogliono entrare in Arabia Saudita. Ma ai profughi che entrano in Europa è offerto di convertirsi in manodopera a basso costo, spesso a scapito dei lavoratori locali che reagiscono a questa minaccia unendosi ai populisti anti-immigrazione. Per la maggior parte dei profughi, convertirsi in manodopera europea a basso costo europea è un sogno che diventa realtà.
I profughi fuggono non solo dalle loro terre devastate dalla guerra, ma inseguono anche un sogno. Non facciamo che vedere sui nostri schermi profughi nel Sud Italia, che mettono in chiaro che non vogliono restare lì, e che la maggior parte vuol vivere nei paesi scandinavi. E che dire delle migliaia accampati a Calais che non sono soddisfatti della Francia, ma sono disposti a rischiare la vita per entrare nel Regno Unito? E che dire delle decine di migliaia di profughi nei paesi balcanici che desiderano raggiungere almeno la Germania? Dichiarano questo loro sogno come un loro diritto incondizionato, ed esigono dalle autorità europee non solo cibo adeguato e cure mediche, ma anche il trasporto fino al luogo di loro scelta.
C’è qualcosa di enigmaticamente utopico in questa richiesta impossibile: come se dovere dell’Europa fosse quello di realizzare il loro sogno, un sogno che, per inciso, è fuori dalla portata della maggior parte degli europei (quanti europei dell’Est e del Sud preferirebbero anch’essi vivere in Norvegia?). Si può vedere qui il paradosso dell’utopia: proprio quando le persone sono in condizioni di povertà, disagio e pericolo, e ci si aspetterebbe che siano soddisfatti con un minimo di sicurezza e benessere, s’afferma l’utopia assoluta. La lezione dura per i rifugiati è che “non c’è la Norvegia” neppure in Norvegia. Dovranno imparare a censurare i loro sogni invece di inseguirli, nella realtà, dovranno concentrarsi su come cambiarla, la realtà.
Bisogna essere molto chiari qui: dovremmo abbandonare l’idea che la tutela di una specifica forma di vita, da parte delle popolazioni che ospitano, sia inerentemente una categoria proto-fascista o razzista. Se no, apriamo la strada all’onda anti-immigrazione che cresce in tutta Europa e il cui ultimo segnale è il fatto che, in Svezia, il Partito democratico anti-immigrati, per la prima volta, ha superato i socialdemocratici ed è diventato il partito più forte nel paese. La reazione tipica dei liberal di sinistra a questo è, naturalmente, un’esplosione di moralismo arrogante: nel momento in cui diamo credibilità al leit motiv della “tutela del nostro modo di vita”, compromettiamo già la nostra posizione, dato che proponiamo una versione più soft di quanto apertamente sostengono i populisti anti-immigrazione. Non è questa la storia degli ultimi decenni? Partiti centristi rifiutano il razzismo palese dei populisti anti-immigrazione, ma al tempo stesso dicono di “capire le preoccupazioni” della gente comune e promuovono una versione più “razionale” della stessa politica.
Ma anche se vi è un momento di verità in questa reazione dovrebbe comunque essere respinto l’atteggiamento umanitario liberal che domina a sinistra. I lai moralistici – il mantra dell’Europa che “ha perso l’empatia, è indifferente alla sofferenza degli altri”, ecc- non sono che il rovescio della brutalità nei confronti degli immigrati. Ne condividono il presupposto – di per sé nient’affatto evidente – secondo cui la difesa del proprio modo di vivere esclude l’ universalismo etico. Bisognerebbe dunque evitare di finire intrappolati nel dilemma liberal “quanta tolleranza possiamo permetterci?”. Dovremmo allora tollerare se impediscono ai loro figli di frequentare le scuole pubbliche, se costringono le loro donne a vestirsi e comportarsi in un certo modo, se combinano i matrimoni dei loro figli, se maltrattano i gay nei loro ambienti… A questo livello, naturalmente, non saremo mai abbastanza tolleranti, o lo saremo sempre troppo, trascurando i diritti delle donne, etc. L’unico modo per uscire da questa impasse è andare oltre la semplice tolleranza verso gli altri: non limitandoci a rispettare gli altri, ma proporre una lotta comune, dal momento che il nostro problema di oggi ci accomuna.
Altre forme di apartheid
Pertanto si deve ampliare la prospettiva: i profughi sono il prezzo dell’economia globale. Nel nostro mondo globale, i prodotti circolano liberamente, ma non le persone: stanno sorgendo nuove forme di apartheid. Il tema delle frontiere porose, della minaccia di essere sommersi dagli stranieri è strettamente immanente al capitalismo globale, è un segno della menzogna nel discorso della globalizzazione capitalista. È come se i profughi estendessero la libera circolazione globale delle materie prime anche alle persone. Mentre le grandi migrazioni sono una caratteristica costante nella storia dell’umanità, la loro causa principale nella storia moderna sono le espansioni coloniali: prima della colonizzazione, i paesi del Terzo Mondo consistevano fondamentalmente di comunità locali autosufficienti e relativamente isolate. Fu l’occupazione coloniale a far deragliare questo modo di vivere tradizionale portando a ondate di migrazioni su larga scala (anche attraverso la tratta degli schiavi).
L’attuale ondata migratoria in Europa non fa eccezione. In Sud Africa, più di un milione di profughi provenienti dallo Zimbabwe sono esposti ad attacchi da parte dei poveri locali perché gli tolgono il lavoro. E ce ne saranno di più, di ondate, non solo a causa di conflitti armati, ma di nuovi “stati canaglia”, e per via di crisi economiche, disastri naturali, cambiamenti climatici, ecc. È ormai noto, dopo il disastro nucleare di Fukushima, che le autorità giapponesi pensarono per un momento che l’intera area di Tokyo, venti milioni di persone, dovesse essere evacuata. In tal caso, dove sarebbero andati? A quali condizioni? Avrebbero dato loro un pezzo di terra in Giappone o sarebbero stati sparsi nel mondo? E se il nord della Siberia diventasse più abitabile e adatto all’agricoltura, mentre le grandi regioni subsahariane diventano troppo asciutte perché possa viverci una grande popolazione? Come sarebbe organizzato lo scambio di popolazione?
Quando accadevano cose simili in passato, i cambiamenti sociali avvenivano in modo spontaneamente selvaggio, con la violenza e la distruzione – una tale prospettiva è catastrofica nelle attuali condizioni, con le armi di distruzione di massa a disposizione di tutti le nazioni.
Pertanto, la lezione principale da trarre è che l’umanità dovrebbe prepararsi a vivere in un modo più “plastico” e in forme più nomadi: cambiamenti locali o globali per l’ambiente possono imporre la necessità di trasformazioni sociali senza precedenti su vasta scala. Una cosa è chiara: la sovranità nazionale non potrà che essere ridefinita radicalmente e saranno inventati nuovi livelli di cooperazione globale. E che dire degli immensi cambiamenti nell’economia e nel consumo dovuti alle conseguenze dei cambiamenti climatici o alla scarsità delle fonti di acqua ed energia? Attraverso quali processi decisionali saranno decisi e attuati questi cambiamenti? Dovrà cadere un bel po’ di tabù e andrà attuata una serie di misure complesse.
In primo luogo, l’Europa dovrà ribadire il suo pieno impegno a fornire i mezzi per una sopravvivenza dignitosa dei rifugiati. Non dovrebbe esserci alcun compromesso, qui: le grandi migrazioni sono il nostro futuro, e l’unica alternativa a un simile impegno è una nuova barbarie (quella che alcuni chiamano “scontro di civiltà”).
In secondo luogo, come conseguenza necessaria di questo impegno, l’Europa dovrebbe organizzarsi e far rispettare norme e regolamenti chiari. Il controllo dello Stato del flusso dei rifugiati deve essere rafforzato mediante una rete amministrativa vasta che copra l’intero territorio dell’Unione Europea (per impedire barbarie come quelle delle autorità d’Ungheria e Slovacchia). I profughi devono essere rassicurati sulla loro sicurezza, ma deve anche essere chiaro che devono accettare il posto per vivere assegnato loro dalle autorità europee, e devono rispettare le leggi e le norme sociali degli Stati europei: nessuna tolleranza alla violenza religiosa, sessista o etnica, ovunque, nessun diritto di imporre ad altri il proprio modo di vita o religione, rispetto della libertà di ogni individuo ad abbandonare i propri costumi comunitari, etc. Se una donna sceglie di coprirsi il viso, la sua scelta va rispettata, ma se sceglie di non coprirsi, la sua libertà va garantita. Sì, un tale insieme di norme privilegia lo stile di vita dell’Europa occidentale, ma è il prezzo da pagare per l’ospitalità europea. Queste regole devono essere chiaramente espresse e applicate, se necessario attraverso misure repressive (contro fondamentalisti stranieri e contro i nostri stessa razzisti anti-immigrati).
In terzo luogo, occorre inventare un nuovo tipo di intervento internazionale: interventi militari ed economici che evitino trappole neocoloniali. Che dire di forze delle Nazioni Unite che garantiscano la pace in Libia, Siria o nel Congo? I casi di Iraq, Siria e Libia mostrano come il tipo sbagliato di intervento (in Iraq e Libia), e di non intervento (in Siria, dove, con il pretesto del non intervento, poteri esterni, Russia e Arabia Saudita, sono totalmente coinvolti) finiscono nello stesso punto morto.
In quarto luogo, il compito più difficile e importante è un cambiamento economico radicale che dovrebbe eliminare le condizioni che generano profughi. La causa ultima dell’arrivo di profughi è in sé l’attuale capitalismo globale con i suoi giochi geopolitici, e se non lo trasformiamo radicalmente, gli immigrati provenienti attraverso la Grecia e altri paesi europei presto s’uniranno ai profughi africani.
Quando ero giovane, il tentativo organizzato di regolamentare i beni comuni si chiamava comunismo. Andrebbe reinventato. Chissà, a lungo termine, è la nostra unica soluzione.
Un’utopia? Forse, ma se non lo faremo, saremo perduti.

Fonte: ytali.

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