
di Marco Aime
«Chi parla male, pensa male», diceva Nanni Moretti nel celebre film Palombella rossa. E accade a volte che noi parliamo male, magari senza accorgercene. Parlare male non significa necessariamente esprimersi volgarmente, ma anche non rendere giustizia ai fatti o alle persone che stiamo descrivendo. Per esempio, continuiamo a chiamare “indiani” i veri americani. Colombo si era sbagliato, è vero, ma sono passati più di cinque secoli e di tempo ne avremmo avuto per correggerci! No, indiani. Non chiamiamo però “germani” i tedeschi, né “pannoni” gli ungheresi o “picti” gli inglesi come li avevano battezzati gli antichi romani. Ci sono rapporti di forza anche nel linguaggio comune.
Il politically correct è spesso un tentativo un po’ ipocrita di nascondere con parole diverse lo stesso pensiero. Pensiamo all’espressione “uomo di colore” o “donna di colore”, spesso usata per essere corretti e non dover usare l’aggettivo “nero”. Perché “di colore” sarebbe più neutrale? Perché il termine “negro” ha assunto storicamente un’accezione spregiativa e anche “nero” rimanda sempre a qualcosa di negativo, infatti noi associamo questo aggettivo per indicare la versione “illegale” di un’azione: mercato nero, lavoro nero, cambio nero, giornata nera, umore nero, ecc.
Così ci siamo inventati “di colore”, ma siamo sicuri della sua neutralità, della sua correttezza? Intanto questa espressione la usiamo solamente per chi ha la pelle nera. Non si dice “di colore” per indicare un asiatico, ma neppure un aborigeno australiano o un indiano (uno vero, dell’India), che in molti casi hanno la pelle scurissima. In realtà “di colore” sono gli africani o gli afroamericani. Definendo poi una persona in questo modo si parte da un presupposto: che noi, che usiamo questa espressione, siamo privi di colore. I bianchi si percepiscono dunque come incolori o trasparenti: a essere colorati sono solo gli altri.
Viene alla mente il celebre scambio di battute nel corso dell’interrogatorio di Steve Biko, noto attivista anti-apartheid ucciso dalla polizia sudafricana nel 1977. Quando il poliziotto, con tono provocatorio gli chiede: «Perché vi definite neri, quando invece siete marron?», Biko risponde: «E perché voi vi dite bianchi, mentre siete rosa?».
Questo atteggiamento da presunti incolori è in fondo un altro segno di un etnocentrismo figlio di quell’antico razzismo che classificava le persone sulla base del colore della pelle. Colorando gli altri, rendiamo noi stessi dei semplici osservatori che hanno la tinta “normale”, quella giusta, mentre gli altri hanno qualcosa di anomalo. Non di negativo, per carità, non sia mai, siamo corretti, semmai qualcosa di... diverso. Ecco sono diversi da noi.
E sarà forse un caso che quando il dj afroamericano Chuck Nice, volendo indicare il posto occupato nella scala sociale degli Stati Uniti ha detto: «gli italiani sono niggaz», la comunità italiana sì è indignata e ha minacciato querele. Non tanto per il fatto di essere indicati come poco considerati, no, perché noi non siamo “di colore”.
Fonte: Nigrizia
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.