di Giacomo Rotoli
Analizzando il discorso di Elena Dalla Torre (Dominio femminile, oppressione maschile: un nuovo secondo sesso?) si trovano due argomenti fondamentali, il primo è una critica all’impostazione di Fabrizio Marchi su base ideologica che pur dandogli nella sostanza ragione su molti punti sottrae in qualche modo il femminismo, ed il femminismo separatista in particolare, dall’accusa di connivenza con il modello dominante capitalista affermando che l’impostazione separatista è comunque contro l’oppressione. Il secondo argomento è di carattere “trash” e consiste nell’accusa di trascurare fenomeni come il c.d. femminicidio.
Thomas Kuhn nel suo pregevole saggio sulle rivoluzioni scientifiche introdusse alcuni concetti generali che poi si sono trasfusi in molti campi grazie alla loro generalità. In particolare Kuhn sosteneva che due scuole di pensiero fossero in una certa misura incommensurabili e che il successo dell’una o dell’altra si potesse misurare solo ex-post perché l’incommensurabilità implicava l’impossibilità di comprendersi essendo i concetti e la stessa ontologia del tutto diversi. Era tuttavia possibile in alcuni casi, in cui la distanza non era troppo grande, una traduzione da un paradigma ad un’altro. Chi si autoesclude purtroppo si condanna all’incommensurabilità e all’assenza di una traduzione. Il che porta all’irrilevanza o nel caso peggiore ad una tendenza propria di tutti i gruppi chiusi che il progressivo instaurarsi, di una forma benigna nel caso migliore ma che può diventare maligna, di apartheid.
Il femminismo della differenza mi ha sempre incuriosito per le sue intrinseche contraddizioni. L’idea che il suo messaggio liberatorio dovesse passare attraverso un gruppo chiuso autoreferenziale è una prima palese contraddizione. Era, in piccolo, un modello di scuola di pensiero che si voleva per scelta sottrarsi al linguaggio dominante creandone uno nuovo che fosse incommensurabile con l’altro, cosa che lo poneva al di fuori della possibilità di essere criticato nell’ambito del linguaggio filosofico e/o politico fino a quel momento svolto (per lo più da uomini, osserverebbero le separatiste, si ma anche da molte donne e criticato da moltissime altre). D’altra parte l’ammettere il suo concentrarsi sull’oppressione dell’uomo sulla donna è sintomatico come è sintomatico che si debba ricorrere alla citazione di altre analisi della condizione maschile che guarda caso non vengono dalla tradizione occidentale ma da culture altre come quella afro-americana che hanno approfondito molto meglio il tema dell’oppressione razzista. Alla fine nella c.d. prassi della collocazione in effetti trovano posto solo alcune analisi, quelle fondate su base di genere, etniche, sessuali, e (forse) di classe ma senza sfiorare la questione maschile e credo senza tantomeno occuparsi del ruolo che anche le donne hanno nell’oppressione di altre donne. Peraltro tutto questo finisce per diventare un “focaultismo” manieristico di nessuna utilità sul piano pratico e che finisce per oscurare chi sono i veri “fallocrati” ovvero i detentori del potere effettivo . Mi si perdoni, ma io leggo Potere dove la Lonzi/Dalla Torre scrive Fallo. Quindi possiamo, sempre in un ottica kuhniana, tradurre in “fallocrati” come detentori del potere, per differenziarli dai semplici portatori del pene ovvero i sessuati come maschi. Nella terminologia dei primatologi alpha e beta potremmo dire. La terminologia “sessuata” della Lonzi è scenica, ma nulla ha a che fare con la sessualità: clitorideo, fallico, anale o altro; il sesso normalmente dispensa gioia non categorie politiche. La coincidenza di pene e Fallo è quasi incidentale, il Fallo è solo uno dei tanti simboli del potere, che detenuto per lo più da uomini, anche se non solo, ha finito per identificarsi con l’organo. D’altro canto il Potere/Fallo è da sempre il grande cruccio della Sinistra per cui ogni analisi è benvenuta a rigore, ma alla fine nessuna di queste, tantomeno la prassi, sono venute a capo del problema della sua gestione in modo non oppressivo. Il capitalismo e il neoliberismo, le cui ottiche ricordo sono solo e soltanto la massimizzazione del profitto (del fallo/pene il capitalismo non sa che farsene eccetto che come un modo per guadagnarci), hanno avuto buon gioco a sfruttare queste difficoltà proponendosi alfieri della democrazia rappresentativa e alimentando le loro false narrazioni. I rimedi escogitati fino a questo momento dalla Sinistra, e.g. “centofiori” o rivoluzioni “culturali”, hanno sempre fallito rivelandosi alla fine divisivi, settari e dannosi per la stessa lotta contro il neoliberismo, finendo o nel riflusso e quindi nell’accettazione del modello borghese di società (democrazia borghese = il meno peggio tra tutti i regimi) o nell’isolamento.
Sul piano diacronico la storia dell’oppressione, ad ogni modo, non è una scoperta del femminismo della differenza. Nelle società preistoriche e storiche prima della modernità il potere si esercitava attraverso i simboli del sangue e del divino. Il compromesso tra i sessi, causato dalla differenza di forza fisica tra uomini e donne, era attuato attraverso dicotomie come casa/guerra caccia/raccolta, tuttavia uomini e donne avevano in tempo di pace anche la possibilità di condividere una vita in comune. La divisione del lavoro era relativa eccetto che per la guerra, ma data la necessità costante di difendere il gruppo l’uomo ha avuto sempre il privilegio e l’onere di essere dominante. Questo ha generato quelle strutture di lunga durata, che Bourdieu poneva alla base della sua disanima del “dominio maschile”. Questo è quello che storicamente possiamo chiamare “patriarcato” e che naturalmente non si identifica del tutto con il suo idealtipo femminista perché donne e uomini, con l’aumento della complessità sociale, erano altrettanto oppressi dai “fallocrati” che detenevano il potere politico, politico/religioso o politico/economico. All’uomo semplice restava solo la famiglia dove esercitare un residuo potere quando non era chiamato alle armi. Il tributo di sangue imposto dal potere agli uomini per le guerre non può essere cancellato affermando che l’oppressione ha un solo ed unico senso. Sarebbe anche curioso capire come il femminismo si pone rispetto alle numerose donne di potere della storia non ultime, Margaret Thatcher e Hilary Rodham Clinton. Hanno esse introiettato il maschile in se stesse o sono donne che hanno realizzato pienamente la parità, se non il dominio, sugli uomini?
Con la modernità l’ascesa del potere politico/economico ha trasformato questo modello in quello della fabbrica nella quale uomini e donne erano strappati via dalla vita rurale per costituire il proletariato industriale. Accusare Marx di sessismo fa sorridere visto che nell’ottocento la povertà e lo sfruttamento erano certamente tanto vistosi da porre la lotta di classe come il problema centrale. Peraltro oggi è ancora la lotta di classe che tende a ridiventare un elemento centrale a causa delle condizioni di alienazione che il capitalismo finanziario mondiale impone quasi ovunque. Questo non esclude certo che Marx e con lui Hegel debbano essere presi nel loro contesto storico e molte delle loro affermazioni devono viste in una luce critica, molta acqua è passata sotto i ponti e una rilettura non può non tenere conto dei contributi di molti altri e, soprattutto per Marx, dell’evoluzione del capitalismo, del problema del limite delle risorse e dei fattori che egli definiva sovra-strutturali ma che oggi sembrano in grado anche di influenzare ciò che egli definiva struttura.
Il “patriarcato” nella società complessa attuale sopravvive in quella parti della società che è ancora legata ad aspetti rurali e di sussistenza. Tuttavia in quanto tale esso è in crisi già dall’inizio dell’era moderna. Consiglierei di guardare con attenzione il famoso quadro di van Eyck I coniugi Arnolfini, certo un femminismo superficiale potrebbe osservare come la donna appaia sottomessa all’uomo, il suo sguardo appare abbassato e indiretto a differenza di lui, il suo ruolo predestinato è quello di madre, ma nel 1434 nel mondo occidentale la coppia già si rappresenta con due figure uguali riccamente vestite entrambi con sfarzo e lusso preconizzando in modo emblematico l’ascesa del capitalismo come sistema economico dominante. D’altra parte oggigiorno il mondo arabo è stato spesso additato come esempio di società patriarcale, eppure anche qui esiste un compromesso che carica sull’uomo tutte le responsabilità della famiglia: non tutti gli uomini arabi sono felici “patriarchi” soddisfatti di questo stato. Non sono io ad affermarlo ma qualunque mediatore culturale con una certa esperienza, sebbene i fenomeni di discriminazione delle donne siano evidenti in quei paesi. Ma questa è anche conseguenza del nostro ignorare l’Islam “plurale” e della difficoltà di leggere attraverso stereotipi propagati dai media. Allo stesso modo dovremmo essere prudenti a entusiasmarci troppo per le femministe della Rojava ricordando il “Secondo Ritorno dalla Cina” di Claudie Broyelle.
Sulla base di queste premesse l’affermazione di Fabrizio Marchi sull’organicità del femminismo al modello neoliberale ha senso. La “rivolta” ha forse prodotto qualcosa di positivo per tutti? O si è stemperata in richieste “sindacali” di parte? (Come le “quote rosa” nel caso migliore o richiesta di “apartheid” come i luoghi riservati nei mezzi di trasporto o altrove alle donne di cui ogni tanto si sente parlare, sentimenti speculari a quelli che si possono riscontrare anche presso arabi emancipati che si trovano in difficoltà a lavorare con le donne in occidente). O peggio ancora ha solo prodotto divisione e sospetti nella lotta generale contro l’oppressione? Infine quante donne che si dicono “femministe”, ma che sono donne semplicemente emancipate, oggi conoscono il separatismo? A livello mediatico mi pare di poter dire che il paradigma femminista, forse l’ultima grande metanarrazione con i suoi racconti sul patriarcato e sull’ubiquità della violenza maschile, sia ormai sempre più una voce modesta del modello attuale dominato dal neoliberalismo attraverso quello che qualcuno ha definito “dirittoumanismo”. Ha rinunciato da tempo a condurre una forma di lotta universale ed è stato in qualche modo incorporato nel modello stesso, cosa peraltro accaduta anche a molti altri gruppi che si definivano “rivoltosi”. Si è accostato, è vero, alle lotte degli omosessuali per ottenere riconoscimento, ma in questo caso, specialmente il separatismo, ha dovuto venire a patti con il suo opposto, ovvero l’annullamento delle differenze tra i sessi.
Sulla base di queste premesse l’affermazione di Fabrizio Marchi sull’organicità del femminismo al modello neoliberale ha senso. La “rivolta” ha forse prodotto qualcosa di positivo per tutti? O si è stemperata in richieste “sindacali” di parte? (Come le “quote rosa” nel caso migliore o richiesta di “apartheid” come i luoghi riservati nei mezzi di trasporto o altrove alle donne di cui ogni tanto si sente parlare, sentimenti speculari a quelli che si possono riscontrare anche presso arabi emancipati che si trovano in difficoltà a lavorare con le donne in occidente). O peggio ancora ha solo prodotto divisione e sospetti nella lotta generale contro l’oppressione? Infine quante donne che si dicono “femministe”, ma che sono donne semplicemente emancipate, oggi conoscono il separatismo? A livello mediatico mi pare di poter dire che il paradigma femminista, forse l’ultima grande metanarrazione con i suoi racconti sul patriarcato e sull’ubiquità della violenza maschile, sia ormai sempre più una voce modesta del modello attuale dominato dal neoliberalismo attraverso quello che qualcuno ha definito “dirittoumanismo”. Ha rinunciato da tempo a condurre una forma di lotta universale ed è stato in qualche modo incorporato nel modello stesso, cosa peraltro accaduta anche a molti altri gruppi che si definivano “rivoltosi”. Si è accostato, è vero, alle lotte degli omosessuali per ottenere riconoscimento, ma in questo caso, specialmente il separatismo, ha dovuto venire a patti con il suo opposto, ovvero l’annullamento delle differenze tra i sessi.
Qual è allora il vero rapporto della donna e del femminile nel modello neoliberale? E’ una domanda da porsi, da porsi assolutamente in specie se dobbiamo chiederci contro cosa si deve lottare. Il discorso sarebbe molto lungo; mi limito qui ad analizzare il tema del lavoro con una breve appendice sul femminicidio. Il lavoro è a mio avviso centrale poiché è qui che è più vivo il contrasto tra lotta di classe e lotta di genere. Uno dei motivi cardine è il c.d. “gap salariale”, che si osserva anche nel “ritardo” di carriera delle donne e la loro scarsa presenza nelle posizioni apicali (glass ceiling). Discriminazione di genere? Numerose analisi hanno mostrato che Il cosiddetto gap nelle retribuzioni tra uomini e donne è dovuto in gran parte alla differenza di ore lavorate (non voglio citare qui una statistica in particolare, c’è ne sono a centinaia), in secondo luogo è dovuto al fattore maternità che rallenta la carriera delle donne facendo si che la loro progressione rispetto agli uomini sia più indietro, in terzo luogo sembra esistere una preferenza delle donne per certe professioni e non per altre (ci sono relativamente poche donne che fanno l’ingegnere rispetto a quelle che fanno l’insegnante e lo stesso vale per tutte le professioni c.d. STEM ). In Italia il gap salariale è minore, ma ciò è legato in parte all’elevata disoccupazione femminile nelle qualifiche più basse.
Ma quanto influisce Il modello neoliberista attuale in questa differenza? In primo luogo esso non permette politiche equilibrate riguardo alla maternità dato che questo si traduce in una perdita economica (anche laddove lo stato dovrebbe supplire nella retribuzione perché l’assumere un’altro lavoratore, nella maggioranza dei casi non formato, significa comunque un rallentamento della produzione). Soprattutto il modello neoliberista impone all’uomo una disponibilità totale ventiquattrore su ventiquattro se vuoi fare “carriera”, nella “mitologia del successo” del sistema, cosa che molte donne non accettano (in una recente inchiesta dell’Economist è proprio questa disponibilità maschile a causare le differenti progressioni di carriera nelle imprese e quindi anche la scarsa presenza di donne nei livelli più alti e nei ruoli apicali ). E’ anche vero però che non tutti gli uomini amano questa competizione sfrenata che li allontana dalle compagne e dai figli. Ad esempio in Svezia il 30% dei padri sceglie di prendere il congedo di paternità, permesso in quel paese, per 60 giorni. E’ evidente che l’uomo se si propone come lavoratore disponibile ad ogni vessazione, nel crepuscolo del sindacalismo novecentesco, resta la prima scelta per le imprese, rispetto alla donna che finisce per essere considerata una “riserva” data la sua tendenza ad essere meno disponibile e alle possibili maternità. Con loro sorpresa se ne sono accorte anche le lavoratrici dell’ex-Germania Est abituate ad un trattamento molto più paritario rispetto agli uomini e al contempo di reale protezione, trattamento che proveniva guarda caso da quella tradizione socialista sulla quale il separatismo femminista sembra ci “sputi” sopra.
Un discorso a parte poi meritano quelle situazioni di lavoro in cui siamo al confine tra legalità e illegalità. La piaga del “caporalato” nelle campagne che colpisce uomini e donne, stranieri e italiani è tornata alla ribalta quest’anno per alcune morti sul lavoro. La discriminazione contro le donne qui è presente poiché la raccolta si basa ancora sulla quantità, ma è solo una delle tante alle quali questi lavoratori e lavoratrici sono soggetti. Vi è discriminazione verso gli uomini quando invece si tratta di raccolte che richiedono maggiore cura (come ad esempio nella raccolta delle fragole). Come purtroppo sappiamo molto bene il neoliberismo implica anche la presenza di questi fenomeni al limite della legalità. Fuori dai confini d’Italia forse la massima espressione è nella “maquiladora”. Anche qui la maggior cura femminile è ragione della preferenza accordata alle donne insieme ad una maggiore sottomissione ad orari lunghi. In un contesto spogliato anche di ogni struttura tradizionale in cui masse di persone sono spostate a lavorare in fabbriche sorte alla frontiera per sfruttare il dumping salariale e l’assenza di sindacalizzazione fenomeni come la criminalità o la violenza diventano quotidiani. Incidentalmente fu proprio in questo contesto alterato anche rispetto al “patriarcato tradizionale” che in Messico si iniziò a parlare di “femminicidio”. Ma, chi sono i veri mandanti di quelle donne morte a Ciudad Juarez? Gli uomini o piuttosto le multinazionali?
Quindi vediamo che la discriminazione sul lavoro inevitabilmente finisce per essere un discorso asimmetrico riguardo alle classi che ha dei riflessi di genere non sempre a senso unico: all’uomo viene chiesta totale disponibilità, alla donna di essere “riserva”, ma la scala è graduata in funzione della classe: ai livelli alti se la donna lavora il gap è minore ed è funzione della scelta di lavorare più o meno ore o dedicarsi ai figli, l’uomo non ha questa possibilità di scelta in gran parte del mondo sviluppato se desidera una vita dignitosa. Ai livelli inferiori, il gap è maggiore ed è creato ancora dalla differenza di forza fisica e dalla possibilità per gli uomini di fare lavori più pericolosi ed usuranti (eccetto però quando la preferenza è accordata alle donne per la loro “cura” nello svolgere alcuni compiti). La genericità interclassista della denuncia del gap salariale non rende conto della complessità delle situazioni, della differenza tra chi può scegliere e chi è obbligato, delle preferenze a volte accordate all’uno o all’altro sesso, della concezione, avallata pure da certo femminismo, che i figli sono comunque “delle madri” e che pone le donne lavoratrici in una effettiva difficoltà (con buona pace della mitologia del “multitasking” femminile).
Resta da esaminare se il “femminicidio” abbia o no uno status ontologico nelle nostre società occidentali, tralasciando il caso molto specifico da cui il termine è nato. Nella sua accezione comune di “omicidio di donna in quanto donna” da parte di un partner maschile, che è quella che è usata nei media e in principio nei conteggi statistici, a mio avviso il suo status è quanto meno dubbio . Non vi è un aumento rilevante nel numero di donne uccise, vi sono peraltro fluttuazioni statistiche molto forti a causa del fatto che il numero è piuttosto piccolo, circa 150 casi all’anno in media sugli ultimi anni per quanto riguarda l’Italia che è uno dei paesi con il tasso minore in Europa. Peraltro sul lungo periodo si intravede anche un calo tendenziale. Ma di 150 casi all’anno quanti effettivamente possono essere considerati femminicidi? Se analizziamo i casi ed escludiamo omicidi dovuti a cause diverse come criminalità, omicidi eutanausici, uso di sostanze restano circa 70-80 casi l’anno fuori da queste categorie (va notato che essendo i numeri piccoli necessariamente finiamo per intercettare anche quel 2% di persone che hanno seri problemi mentali cosa che appare in molti delitti nella sostanza inspiegabili se non con una percezione della realtà alterata che comunque non impedisce di essere lucidi e coscienti di cosa si sta facendo). Se poi facciamo un’analisi più profonda, le stesse motivazioni appaiono le più diverse e difficilmente tutti gli schemi si incastrano nella tesi femminista della “frustrazione dell’uomo per l’autonomia della donna” o dell’”orco maschio”. Se è vero che la gelosia gioca un ruolo importante, ed anche questa è da comprendere se rientri o meno nello schema femminista, talvolta è il contrario, talvolta nei “fatti di sangue” entrano i figli, i parenti e le motivazioni più diverse come la stanchezza di un rapporto durato molti anni da cui si vorrebbe evadere, per cui il tema dell’ ”uccisione di donna in quanto donna” letteralmente evapora. Tutto questo senza considerare la reciprocità della violenza nella coppia, e altri fattori quali la provenienza e la classe sociale delle vittime e degli assassini (chi proviene da un paese ancora legato alle tradizioni rurali è notevolmente più a rischio , come il rischio è anche legato al possesso o meno di una educazione superiore). Da questo si evince che il c.d. “femminicidio” reale è null’altro che un fenomeno endemico nella violenza familiare o di coppia non legato a fattori di “genere” in cui il maggior numero di donne uccise rispetto agli uomini è, tra i vari fattori, dovuto probabilmente al più banale fatto oggettivo della debolezza fisica (esiste annualmente un cospicuo numero di “tentati omicidi” da parte di donne verso uomini). Non è in atto nessuna revanche degli uomini spossessati del loro ruolo “patriarcale” ne in termini di aumento dei casi ne in termini di analisi dettagliata del fenomeno che è statisticamente contenuto, almeno nel nostro paese.
Concludendo io credo che donne e uomini indipendentemente dalla loro scelta sessuale dovrebbero battersi insieme contro il sistema attualmente dominante del capitalismo finanziario estrattivo e le manifestazioni imperialistiche che esso attraverso le potenze statali genera per l’egemonia globale. A livello pratico lottare contro la discriminazione significa chiedere maggiore equilibrio nei ruoli: non discriminare ne le donne ne gli uomini che vogliono ad esempio avere un figlio: non considerare lei una “riserva” nè lui uno “schiavo” disponibile a qualunque ora. Per le classi più sfruttate sarebbe ora di tornare all’istituzione di reti di difesa forti come era un tempo il sindacato, solo così si possono battere i fenomeni come il “caporalato”, ma questo passa anche attraverso una volontà politica che purtroppo al momento attuale manca anche a causa del tragicomica romanzo della sinistra italiana. A quelle donne che raccolgono fragole e quegli uomini che raccolgono pomodori nelle nostre campagne per una miseria andrebbe data una speranza prescindendo dal sesso o dal genere piuttosto che separarli con delle analisi di “genere”.
Note
Note
1 http://www.lavoroculturale.org/wp-content/uploads/2015/04/Si-può-criticare-Foucault.pdf
2 Secondo ritorno dalla Cina : l’altra metà del cielo rivisitata – Claudie Broyelle, Jacques Broyelle, Evelyne Tschirhart. Milano : Bompiani, 1978
3 Mi limito a citare questo caso (in generale comunque questo terzo fattore è oggetto di accanite discussioni tra psicologi evoluzionisti e sociologi sul fatto se sia un elemento oggettivo o legato a elementi non strutturali della nostra società e quindi mutabili col tempo).
http://www.npr.org/sections/money/2013/09/11/220748057/why-women-like-me-choose-lower-paying-jobs
4 http://readmore.economist.com/?a=21645759&cid=real
5 http://www.libreriadelledonne.it/il-grande-passo-indietro-delle-donne-dellest/
6 Esiste un’altra definizione di carattere sociologico tra le quali quella che intende il femminicidio come una sorta di condizione di minorità della donna che può evolvere in violenza o omicidio, ma che non ha un ruolo nei media ben definito sebbene questo sia il termine corretto per “femminicidio” traduzione di “femicidio”. Il termine criminologico corretto italiano invece dovrebbe essere “femmicidio”.
7 Purtroppo è un dato di fatto statistico che si può facilmente ricavare. Personalmente mi sono occupato di analizzare approfonditamente 50 casi di “femminicidio” (ricerca non pubblicata). In questa analisi circa 1/3 delle coppie aveva un partner straniero o erano entrambi stranieri. Su 50 casi solo 2 degli aggressori erano laureati, la maggior parte delle qualifiche erano a livello di “operaio”.
8 Altrove, nei paesi in cui l’economia di sussistenza è ancora fortemente presente, il discorso è diverso per lo stesso motivo per cui i fattori di rischio sono più alti per gli immigrati da quei paesi.
Fonte: l'interferenza
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