di Barbara Poggio
In questi giorni stanno circolando (veicolate non solo dai media tradizionali, ma anche da catene di mail e attraverso i social network) una serie di informazioni apocalittiche rispetto alla diffusione di quella che viene impropriamente chiamata “teoria del gender” o “ideologia del gender”.
Dietro questa temibile ideologia – che si dice sia promossa dalle istituzioni europee, dal governo e finanche dalla nostra amministrazione provinciale - si celerebbe una forza occulta, le cui finalità ultime sarebbero la distruzione delle famiglie, il controllo demografico e l’estinzione dell’umanità.
Sotto accusa, perché considerati tra i principali strumenti di questa strategia, sono soprattutto i corsi sull’educazione di genere che da alcuni anni vengono realizzati nelle scuole, descritti come attività mirate a trasformare i bambini in esseri mutanti (“bisex omo lesbomisto chi più ne ha più ne metta… includendo anche il genere pedofilo afferma uno dei documenti diffusi), tramite l’iniziazione alla masturbazione e alla pornografia.
L’extrema ratio proposta per sottrarsi alle forze oscure è il ritiro dei bambini dalle scuole pubbliche e il ricorso all’educazione parentale (ovvero quella realizzata dai genitori, tenendo i bambini a casa).
A prima vista, la lettura di questi messaggi, così ossessivi e quasi surreali, potrebbe indurre a facili ironie, tuttavia sono sempre più convinta che quanto sta avvenendo vada letto con attenzione, perché le conseguenze possono invece essere molto serie.
Il primo elemento da considerare è la paura. Questi messaggi, anche quando invitano a informarsi, non sono in realtà pensati per produrre consapevolezza, ma costruiti ad arte per generare ansia e preoccupazione. Possono sembrare incredibili, certo, apparire morbosi e bigotti, è vero... però parlano dei nostri figli e delle nostre figlie, toccano corde sensibili (e se poi ci fosse un fondo di verità?). Parlano alle pance e non alle teste. Insinuano dubbi, generano insicurezza, producono sfiducia. E ci rendono così più manipolabili. Come hanno capito bene le forze politiche che li stanno cavalcando.
La seconda questione riguarda la visione dell’educazione scolastica che viene veicolata da questa campagna: una educazione ripiegata sui modelli e le culture interne alle famiglie e non aperta al mondo e al riconoscimento dell’altro; un processo mirato a trasferire contenuti e nozioni asettiche e non a sviluppare le molteplici potenzialità delle ragazze e dei ragazzi (secondo appunto la radice etimologica di educare: “e-ducere”, tirare fuori), e a stimolare la loro coscienza civica e sociale.
La scelta di riferirsi all’espressione “teoria del gender”, utilizzando una parola inglese, esprime efficacemente la paura nei confronti di ciò che viene da fuori, visto sempre come potenziale pericolo e mai come possibile risorsa.
Peraltro, sostenere che dimensioni come le relazioni affettive e la sessualità debbano restare all’interno delle mura domestiche (quelle stesse dove, peraltro, talvolta hanno luogo gravi episodi di violenza e sopraffazione sulle donne) e non possano essere oggetto di confronto e di dibattito in un’aula scolastica, significa anche limitare le occasioni per ragazze e ragazzi di sviluppare una coscienza critica e difendersi dalle banalizzazioni e dalle strumentalizzazioni mediatiche, così come per sviluppare anticorpi rispetto alle situazioni problematiche.
La terza conseguenza è il consolidamento degli squilibri di genere. Il principale nemico di queste campagne è infatti il concetto di “genere”. Ma cosa si intende quando si parla di genere? Perché questa parola fa così paura, tanto che ormai in molti suggeriscono che sia meglio non usarla? Gli studi di genere dicono semplicemente che buona parte delle differenze che caratterizzano l’esperienza di donne e uomini non è inscritta nei nostri geni, ma è prodotta dalla società. È forse scritto nel DNA delle donne che debbano subire passivamente violenza da parte degli uomini? È un destino biologico che debbano svolgere lavori meno prestigiosi degli uomini o essere pagate di meno, o che non possano affermarsi nei percorsi scientifici o nel mondo della politica? È naturale che le donne debbano indossare il burqua o viceversa esibire il proprio corpo sulle copertine dei giornali o sul web? O d’altra parte, è legge naturale che gli uomini non possano prendere il congedo per occuparsi dei figli o non siano in grado di occuparsi delle attività domestiche o della cucina (quando non è quella di Master Chef)? È forse parte del loro corredo biologico non trattenersi dal fare commenti volgari nei confronti delle donne che camminano per strada o dal praticare molestie nei confronti delle colleghe? Gli studi di genere ci parlando di questo. E la forza di questo discorso è dirompente. Perché nel momento in cui affermiamo che queste differenze (e le disuguaglianze che ne conseguono) non sono naturali, diciamo anche che è possibile cambiarle. Che è possibile pensare ad una società diversa, dove gli uomini e le donne non siano riconosciuti e valutati in base al loro corpo, ma piuttosto alle loro singole (e diverse) individualità. La campagna contro la “teoria del gender” è una battaglia contro la possibilità che il mondo cambi e diventi meno squilibrato, perché il superamento delle asimmetrie preoccupa chi di esse si nutre.
In tutto questo c’è però una buona notizia: queste crociate si scatenano di solito quando il cambiamento è ormai in corso. E, con buona pace delle milizie anti-gender, e del personale politico che insegue il consenso soffiando sul loro fuoco, non saranno le campagne di disinformazione, né gli allarmismi gratuiti, né i tentativi di censura a fermarlo.
Fonte: ingenere.it
(Questo articolo è stato pubblicato su “Trentino” e “Alto Adige”, sabato 12 settembre 2015)
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