La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 17 settembre 2015

Se la Rete si mangia il lavoro

di Jacopo Formaioni
Internet, ultima frontiera: sembra passare da qui la nuova rivoluzione industriale, il sogno per tornare a crescere e lavorare, sviluppando finalmente nuovi modelli economici. Di “Internet” si riempiono la bocca politicanti ed economisti per spiegare dove dobbiamo andare per risollevarci dalla crisi. La rete e le nuove tecnologie sembrano ormai la soluzione per tutto e in parte è vero: secondo uno studio del Boston Consulting Group, ad esempio, si stima che in Italia la rete abbia creato negli ultimi anni circa 700 mila posti lavoro, contribuendo ad oltre il 2 per cento del Pil, per un valore di circa 35 miliardi di euro. Dati ottimi, che certo fanno guardare al web con una certa speranza; secondo alcuni, tuttavia, Internet potrebbe produrre seri problemi all'economia, mascherando con belle parole e numeri interessanti una realtà ben più complessa e meno ottimista. 
In testa ai cosiddetti web scettici c'è uno dei guru dell'informatica, Jaron Lanier, che con il suo lavoro ha contribuito alla diffusione globale della rete e che in passato ne era tra i più ferventi sostenitori. Intendiamoci, non è che ora si sia convertito all'idea di un nuovo medioevo, ma certo vede la situazione da un altro punto di vista.
E a fargli cambiare idea è stata, tra le altre cose, l'implosione dell'industria musicale, la prima illustre vittima “caduta nella rete”. All'inizio l'idea della musica libera era fantastica, peccato solo che oggi questa industria valga un decimo di quanto valeva prima. A rimetterci, prima di tutto, lavoratori, tecnici e musicisti che prima riuscivano a vivere proprio con la musica, mentre oggi sono solo le star e poche band fortunate a fare della musica un vero e proprio lavoro.
Discografia e non solo. Anche l'industria fotografica, ad esempio, si trova oggi in gravi difficoltà. Al suo apice Kodak valeva 28 miliardi di dollari e impiegava 140 mila persone in tutto il mondo. Instagram, che risponde più o meno alla medesima esigenza, aveva appena 13 dipendenti quando è stata venduta per un miliardo. Il suo valore risiede nei milioni di utenti che contribuiscono al network senza essere pagati. Negli anni Ottanta General Motors impiegava 350 mila persone, oggi Facebook meno di 7.000, e così via. 
Le agenzie di viaggio vengono sostituite dai vari siti e app come Tripadvisor, Airbnb, Trivago, così come le piccole e grandi librerie stanno scomparendo, incapaci di competere con il gigante Amazon e gli altri servizi on-line dove acquistare, spesso a prezzi ridotti, i propri libri. Ma altre professioni sono minacciate da questa rivoluzione. Si assottigliano le prospettive lavorative dei traduttori, che dopo anni di studio e pratica si ritroveranno a dover competere con Google Translate che, a dispetto della scarsa efficienza attuale, migliora a vista d'occhio grazie al suo algoritmo che si ciba di traduzioni esistenti fornite dagli stessi utenti. 
Anche i professori universitari in un futuro prossimo potrebbero rischiarare, grazie a piattaforme come Coursera.Tramite Internet è già possibile seguire on-line le lezioni universitarie di professori distanti migliaia di chilometri. Ma se un singolo docente può servire una classe virtuale di diecimila studenti, cosa resterà da fare per i suoi colleghi meno richiesti? Per non parlare poi di Uber, forse il più discusso servizio di noleggio auto e autisti su cui son stati spesi fiumi d'inchiostro e mari di polemiche. Insomma: secondo uno studio di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, docenti a Oxford, il 47 per cento dei mestieri attuali è a rischio estinzione per l’informatizzazione. Niente di male, se non fosse che all'orizzonte non si vede ancora come potranno essere sostituiti: certo non tutti potranno diventare web designer o programmatori.
Internet è certo il motore di una rivoluzione del nostro modo di vivere e lavorare; ma a differenza delle precedenti, i posti di lavoro persi non stanno ancora trovando validi sostituti e soprattutto la classe media, cioè quella stragrande parte della popolazione che ha goduto di decenni di crescita e benessere, si sta erodendo. Dal dopoguerra al 2000 produttività e occupazione crescono di pari passo. Successivamente, la curva dell’occupazione si affloscia perché le macchine corrono troppo in fretta, hanno bisogno di meno uomini e questi non ce la fanno ad acquisire le competenze per star loro dietro. 
È il Grande Disaccoppiamento di cui parlano Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, due professori del Mit, in "The Second Machine Age". Il Pil complessivo cresce, il salario medio no. E a mancare è proprio uno dei pilastri del benessere occidentale, ovvero la distribuzione della ricchezza, che ha permesso alla maggior parte della popolazione di uscire da secoli di povertà. E il pericolo è quello di andare verso una società divisa tra una elité ricchissima e una massa di lavoratori ridimensionati verso il basso. Secondo Lanier il problema non è Internet in sé, ma la Rete 2.0, basata su big data e social network, come Facebook e Google, che si arricchiscono con i nostri contributi, rendendoci alla lunga più poveri. Ma da buon scienziato, non rinnega la tecnologia, anzi pensa che in essa si possa trovare la soluzione. Di proposte ce ne sono e già la presa di coscienza da parte di molti del problema è già un bel passo avanti. Resta da vedere dove ci porterà. 

Fonte: rassegna.it
Originale: 

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