La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 17 settembre 2015

Controeducazione. Scrivere, pensare, sentire altro

di Alberto Ghidini
«Controeducazione come tentativo di pensare, scrivere e sentire altro». Così Paolo Mottana in esordio al suo Piccolo manuale di controeducazione (Mimesis, 2012). Manuale, non perché racchiuda le istruzioni programmatiche per realizzare una rivoluzione tout court dell’educazione, quantomai fuori portata, dato il livello di integrazione (pressoché totale) di larga parte della cultura educativa occidentale, scolastica ed extrascolastica, nel quadro della scolarizzazione: un «rituale», denunciò Illich a suo tempo, sedimentato nella società e radicato profondamente nei nostri modi di vivere e di vedere, gravemente intaccati da una serie di convinzioni immutabili prodotte e alimentate dal «mito» originario che soggiace alla scuola e che prende il nome di «istruzione».
Del resto, lo stesso Mottana, in un saggio apparso più di dieci anni fa sotto il titolo Miti d’oggi nell’educazione, aveva rilevato come talune di queste credenze cieche e inconfutabili (la «crescita», la «valutazione», la «tecnologia», e via dicendo) assumano proprio nei territori dell’educazione, poi, le forme più perniciose e spregiudicate di ritualizzazione del progresso, rendendo necessario un lavoro di decostruzione critica delle pedagogie economicistiche e dei loro artifici mitici attraverso una «clinica della formazione» (con Massa) che apra spazi per «opportune contromisure».
Manuale, invece, perché «alla mano» e pronto a «farsi ascoltare» da «orecchie sensibili», spiega, Mottana. Concepito, lo si capisce leggendo, per uditi non ancora completamente assordati e assuefatti dalle gazzarre dello spettacolo e dei consumi, le cui fantasmagorie mascherano la durezza del bianco e nero poveristico di una realtà condizionante e standardizzante.
Così, con estrema manualità, descrivendo l’attuale stato di cose nel mondo e nel piccolo inframondo dell’educare Mottana si allontana radicalmente – come pochi, ma buoni, hanno fatto prima di lui – da promesse rivoluzionarie o da narrazioni apocalittiche. Ciò rende il suo discorso non smerciabile, in un tempo in cui, come ha scritto Gianni Celati, nemmeno un libro si distingue più da una saponetta o da qualunque altra merce preconfezionata. Di più e soprattutto, lo rende un discorso che non lascia inerme il lettore al momento di immaginare «altro», appunto, facendo ritorno alle regioni più in ombra dell’immaginario educativo.
Altro, anzitutto, da quei discorsi sull’educazione sempre più appestati da un certo pragmatismo che orienta la formazione alla spendibilità (leggasi alla miseria della precarietà o con Vaneigem, lapidariamente, alla «merda»), che censisce saperi e conoscenze utilizzando il criterio dell’utile, che avanza modelli educativi e formativi farciti d’ogni sorta di tecnicismo pedagogico.
«Da molto tempo – scrive Mottana – si vagheggia un’educazione tutta piegata sull’ideologia del fare, del produrre, dell’essere redditizi».
Un’educazione, cioè, allineata alle richieste di un potere economico e politico, di un capitalismo totale e totalizzante che impone l’utilitarismo e la strumentalità come i soli principi validi per pensarla. Difficile chiamarla ancora educazione.
Più corretto definirla, con Mottana, «servomeccanismo». Una macchina la cui messa in moto ha dato il via alle lunghe rincorse dei meritocrati (d’ogni parte) per proporre il merito come categoria ideologica mediante la quale decantare i meriti della meritocrazia e dei suoi efficientissimi ingranaggi meritocratico-documentali (verifiche, test, misurazioni, valutazioni…).
Ugualmente e in contemporanea, alla rincorsa di un esercito di esperti d’ogni tipo per avanzare nuove proposte formative in chiave utilitaristica, non da ultime le cosiddette educazioni, da affidare a professionisti – meglio se in campo psy – più o meno espressamente noleggiati per l’uso a seconda dell’ambito e del tipo di prevenzione più o meno morbida da istituire. Eccola, dunque, l’impresa sulla formazione e la formazione sull’impresa.
Per quel che riguarda la scuola, l’evoluzione in questo senso è fin troppo manifesta. Se negli anni Dieci del secolo scorso un giovane Walter Benjamin denunciava come il «segreto dominio dell’idea di professione» andasse a colpire il «cuore della vita creativa» degli studenti, oggi i principi dell’occupabilità e dell’inserimento lavorativo vengono sbandierati alla luce del sole come le uniche opzioni auspicabili per il cosiddetto «accesso professionale», ancora assurdamente spacciato da molti come «futuro».
Ad aggravare la situazione, annota Mottana, «l’emarginazione sistematica e perversa delle facoltà intuitive e immaginative, della curiosità, della potenza espressiva e creatrice del corpo e delle emozioni, della pregnanza insostituibile dell’esercizio di pratiche concrete e reali», lasciata peraltro irrisolta dall’introduzione della didattica per competenze e dalla retorica di un «apprendimento orientato all’agire» che, di nuovo con l’autore, «continuerà a piegare la scuola sotto il giogo delle attese industriali».
Detta altrimenti, sotto il disegno di una «pedagogia coloniale», con un’azzeccatissima definizione impiegata da Benjamin stesso in una recensione del 1930 a un testo di Jalkotzy e utilizzata dal filosofo tedesco per nominare polemicamente quella «scienza riformista» congegnata per rendere l’educazione una «colonia» dove orientare attivisticamente (in maniera più stringente, sottilmente ideologica, panottica) le disparate «individualità» al mito della «neutralità dei contenuti formativi», propinato ancora oggi e con maggiore forza non solo a scuola: si pensi alla formazione permanente, divenuta uno degli «interni» più subdoli del controllo all’aria aperta, come anticipava un profetico Deleuze già all’inizio degli anni Novanta).
«Una controeducazione che voglia rimettere la realtà nelle sue radici – e non in un’ideologia aberrante – deve abolire questa scuola e sostituirla con una cosa ricca d’anima, affondata nella terra reale, tutta rovesciata sull’esterno e profondamente irrigata nella differenza». Solo nella differenza, infatti, faceva presente Gregory Bateson, ma lo hanno ricordato in molti, tra cui Schérer, tra i principali ispiratori di Mottana, possono prendere forma pensieri, immaginari, conoscenze: la differenza produce novità, movimento, «altra differenza».
Balza all’attenzione la prosa radicale, poetante, di Mottana, introvabile nella pedagogia contemporanea, riversata essa stessa entro la terra, sulla scia di Zanzotto (altro personaggio caro all’autore).
Non un semplice stile di scrittura: decisamente più uno stile di vita, che – a differenza di tanta pedagogia accademica – restituisce possibilità e brulichii vitali all’oggetto di cui tratta, l’educazione, senza impadronirsene, dispiegandone tutto il campo delle possibilità. Mondi possibili, «occasioni di sapere ancora vive, palpitanti», infestanti, volendo, che prima di essere viste andrebbero sentite attraverso uno sguardo «contemplativo», alla Panikkar o entro una «visione immaginale» che configura un rivolgimento verso l’esterno.
In definitiva, questo libro può essere letto in molti modi. Come manifesto culturale e politico da cui trarre spunti, idee, illuminazioni, primi elementi per inaugurare una controeducazione che risvegli i corpi, la natura, gli oggetti, ciò che si pensa, dalla presa del potere, decolonizzante.
Un potere da intendersi, alla Pasolini, come un «sistema di educazione» che, di educazione in educazione (di dispositivo in dispositivo, «ci forma tutti», ma che altresì, dietro di sé, tra le rovine, lascia scarti animati ed energie vitali residue.
Oppure, in pieno clima di smanie educative, nel proliferare di manifesti educativi presi dall’ansia di essere al passo col tempo e con i suoi spettri, come proposta per un manifesto o una pratica educativa di meno. In ogni caso, il lettore che cerchi formule pedagogiche rimarrà deluso: d’altronde, però, la pedagogia, quella vera, è forse quel gioco speciale e misterioso – come quello della controeducazione – la cui posta, alla fine, è la scomparsa della pedagogia stessa.

[articolo apparso su il manifesto, 2 marzo 2012]

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