
di Claudio Dionesalvi
Quella volta trovammo la scuola devastata.
Erano entrati di notte. Avevano defecato sulle cattedre, divelto le
porte, scaricato gli estintori, allagato i corridoi. L’acqua arrivava
ben sopra le caviglie. I collaboratori ATA quasi piangevano dalla
rabbia. Sono loro, in questi casi, che devono rimettere tutto a posto.
Mi immedesimai. Il preside ci disse che dovevamo rimanere in servizio,
rispettare l’orario, nonostante i ragazzi non fossero entrati. Convocò
un collegio straordinario da tenersi nel pomeriggio. Mi rimboccai le
maniche, infagottai le scarpe, per tutta la mattinata aiutai i
collaboratori ATA a liberare i locali dall’acqua. Dopo mezzogiorno uscii
e andai in giro per il paese a cercare i ragazzi. Li affrontai a muso
duro. Spiegai loro che è da vigliacchi distruggere un edificio
scolastico, l’unico vero spazio pubblico disponibile e aperto a tutti.
E che quando commettono simili azioni, a pagarne le conseguenze sono solo i “fessi” come me, che vanno al di là del contratto di lavoro e mettono, in senso reale, le mani nella cacca. Prima del collegio il preside mi chiese di scrivere un comunicato contro gli atti vandalici. Lo avremmo firmato tutti e spedito ai media.
E che quando commettono simili azioni, a pagarne le conseguenze sono solo i “fessi” come me, che vanno al di là del contratto di lavoro e mettono, in senso reale, le mani nella cacca. Prima del collegio il preside mi chiese di scrivere un comunicato contro gli atti vandalici. Lo avremmo firmato tutti e spedito ai media.
Scrissi poche righe in cui
spiegavo che non di semplice vandalismo si era trattato, denunciavo la
presenza di una subcultura delinquenziale tra gli adolescenti, accusavo
il notabilato e la borghesia locale di esserne complice, sostenevo che a
lottare contro questa subcultura noi della scuola e quelli delle
parrocchie eravamo rimasti soli. Lessi il comunicato in collegio. La
maggior parte dei colleghi approvò. A qualcuno invece venne il “mal di
pancia”. Pochi giorni dopo, su un giornaletto locale, nell’individuare
le responsabilità morali dei vandalismi, un sedicente opinionista
pubblicò un articolo in cui puntava il dito accusatore contro
quell’insegnante “operatore dei fatti di Genova (G8) che gioca alla
guerriglia culturale anche a scuola”.
Sono stato fortunato. Tanti anni fa il provveditorato mi ha spedito a
lavorare in un paese meraviglioso da cui non mi sono più mosso. Dal
punto di vista umano e da quello professionale, questo del giornaletto
ostile è l’unico spiacevole episodio in cui qualcuno ha brandito la mia
storia personale e politica per farmi del male, strumentalizzando il
rapporto che ho costruito con i ragazzi. M’è capitato pure di essere
fermato e perquisito dai carabinieri in modo plateale, come un
criminale, dopo una giornata di lavoro, a poche centinaia di metri dalla
scuola. Ma per il resto ho raccolto solo affetto e fiducia. Gli alunni e
le alunne, i loro genitori, i colleghi e le colleghe, presidi e
collaboratori, nel porgermi qualche fraterno consiglio affinché non mi
mettessi nei guai per le mie idee, mi hanno sempre offerto stima e
solidarietà, addirittura protezione quando fui sospeso dal servizio
perché arrestato per cospirazione politica e associazione sovversiva.
Gli alunni scrissero una lettera aperta in cui mi difendevano e
chiedevano la mia immediata liberazione. Fu il collegio dei docenti,
all’unanimità, a deliberare il mio immediato reintegro all’indomani
della scarcerazione. Al mio ritorno in classe fui accolto da una festa
commovente. Il padre di un alunno, consigliere comunale di Alleanza
Nazionale, mi strinse la mano: “Al di là delle differenze politiche che
ci dividono, sono orgoglioso di avere un insegnante come lei per mio
figlio”.
Anche nel territorio in cui lavoro, la gente subisce il bombardamento
semiotico che diffonde ansia, paura del diverso, “moral panic”. Però
essendo abituata a confrontarsi pure con delinquenti infagottati in
abiti borghesi, gran parte della popolazione qui ha sviluppato degli
anticorpi. Riconosce le minacce, quando sono concrete. Dopo un primo
naturale approccio improntato alla diffidenza, da queste parti i
calabresi qualificano i propri interlocutori in base a quel che fanno e a
ciò che si portano dentro. Mi sono sempre chiesto: le cose sarebbero
andate così se avessi lavorato in un’altra zona d’Italia?
Qualche anno dopo, appena iniziò il procedimento in corte d’Assise,
di fronte a una nuova richiesta di sospensione avanzata dalla Digos, il
preside si assunse la responsabilità di mantenermi in cattedra. Fu un
atto coraggioso e lungimirante, il suo. È realistico affermare che il
piacere lo fece a me, ma anche allo Stato. Dopo aver ottenuto tre
sentenze di assoluzione piena, qualora fossi stato sospeso, oggi avrei
diritto alla restituzione del posto di lavoro e al pagamento di un
astronomico risarcimento danni per tutto il tempo perduto.
“Professo’, quest’anno che classe vi hanno dato?”, mi chiede ogni anno la segretaria.
“Ancora la preside non me lo ha detto, signo’. Perché?”
“Perché le mamme vogliono a tutti i costi che i figli vengano con
voi. Minacciano di iscriverli da un’altra parte se non li assegniamo
alla vostra classe”.
Ogni volta che la signora mi pone il quesito, avverto un tremolio
alle gambe e a stento riesco a nascondere la commozione. Per un
insegnante non c’è soddisfazione più grande: sapere che i genitori dei
tuoi alunni ti danno fiducia e sono felici di affidarti i figli. Dentro
di me questo sentimento è rafforzato dai brutti ricordi. Difficile
cancellare dalla mente i difficili giorni della perdita del posto di
lavoro. Per me si trattò di una doppia ingiustizia. Non ero accusato
d’aver commesso reati contro la pubblica amministrazione, a danno di
minori, legati alla mafia o allo spaccio di sostanze psicotrope.
Soltanto per tali ipotesi di reato la giurisprudenza prevede la
sospensione dal servizio in attesa di giudizio. Eppure lo Stato diceva
che siccome forse avevo cospirato contro la sua personalità e ostacolato
le funzioni di governo, meritavo di essere buttato fuori dalla scuola
pubblica.
Ecco perché mi riempie di amarezza, ma non mi sorprende, la
vicenda di un collega e compagno docente in un liceo di Senigallia,
linciato mediaticamente perché militante dei centri sociali, nonché
partecipe di una recente contestazione a Matteo Salvini. Secondo alcune
famiglie degli alunni frequentanti quella scuola, il collega addirittura
potrebbe plagiare gli studenti. Qualcosa di analogo è accaduto pochi
mesi fa, quando Francesco Caruso è stato chiamato a insegnare
all’università di Catanzaro. Le corporazioni di polizia sono insorte
contro la sua cattedra, provando a scatenare la solita caccia alle
streghe. Hanno smesso di urlare “crocifiggi” soltanto quando Francesco è
stato accolto dall’applauso caloroso e sincero dei suoi studenti.
Il sistema d’istruzione italiano non è immune dall’ondata di odio
sociale che sta attraversando il Paese. Il tutto è reso più difficile
dal radicale cambiamento della forma mentis di gran parte della classe
docente. Fino alla metà degli anni ottanta, tra i banchi di scuola
abbiamo incontrato docenti liberali, fascisti, comunisti, cattolici,
socialisti. Discutibili le posizioni di ognuno, ma ciascuno aveva una
storia da raccontare ai ragazzi. Nei due decenni successivi, si è
diffusa la figura dell’insegnante zero: solo svolgimento dei programmi,
progetti, burocrazia, estraneità alla vita pubblica e nessun impegno nel
sociale. Non è questa la condizione di tutta la classe docente, però
gran parte incarna tale ruolo, per effetto dei mutamenti avvenuti nella
società.
Allora, tra ossessione securitaria e ignavia dilagante, è ovvio che
qualsiasi personalità riconoscibile rappresenti una minaccia. Le recenti
ondate di panico sulla questione dell’emendamento alla riforma della
scuola, che sarebbe stato ispirato alla presunta teoria del gender,
testimoniano il clima psicotico che serpeggia intorno agli edifici
scolastici. Eppure sono certo che a proteggere il collega di Senigallia,
e con lui la libertà d’insegnamento che oggi subisce attacchi
gravissimi, saranno sia la sua professionalità sia la sensibilità dei
ragazzi. Che quando ne conosceranno preparazione e capacità didattiche,
metteranno a tacere le allarmistiche sirene della nuova inquisizione.
“L’educazione è sempre un atto politico”, ribadisce spesso Francesco
Bossio, docente universitario di Pedagogia, cattolico, studioso dotato
di grande equilibrio. Bossio sostiene che nell’insegnamento, centrale è
la relazione che si istituisce tra docente e allievo. “Ciò che arriva al
ragazzo – spiega – è ciò che io sono”. Se un professore crede in un
ideale, i suoi alunni crederanno in qualcosa. Se un professore non crede
in nulla, quel nulla arriverà ai suoi allievi. È ovvio che non bisogna
plagiarli, ma non è possibile che un educatore si spersonalizzi al punto
da annullare se stesso.
I maestri buoni insegnano in paradiso. I cattivi maestri insegnano ai
figli della terra.
Dopo la gravissima intimidazione ai danni di Nicola Mancini, insegnante di Senigallia aggredito da un foglio locale per il suo impegno sociale e politico, abbiamo chiesto ad un altro docente noto per la sua attività di movimento un contributo. Lo abbiamo pubblicato come segnale di vicinanza a Nicola e come antidoto al clima d'odio e all'attacco al libero pensiero e al pluralismo che alcuni vorrebbero fomentare. Claudio Dionesalvi è attivista, giornalista e scrittore. Il suo blog si trova all'indirizzo www.inviatodanessuno.it, contiene l'archivio dei suoi lavori e altre riflessioni sulla scuola.
Fonte: dinamopress.it
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