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di Adriano Prosperi
Nel caleidoscopio di culture e di religioni dell’Impero
Ottomano ve ne era una caratterizzata dalla sua antichissima
radice cristiana: quella armena. Era un popolo di contadini stretto
intorno ai suoi vescovi e di una élite cittadina abitante nelle
province orientali dell’impero. Alla fine dell’800 contava circa tre
milioni di abitanti. Ma proprio allora la crisi dell’Impero si rivelò
con caratteri che misero in pericolo l’esistenza stessa degli armeni
tutti. Tra il 1894 e il 1896, reagendo alle proteste contro la
pressione fiscale, una brutale azione militare portò a stragi
spaventose: si parla di circa duecentomila morti.
Ci fu chi intravide fin da allora una strategia dietro tanta
violenza: si volevano liberare in un modo o nell’altro le terre
orientali dell’Anatolia dalla presenza armena per fare posto ai
turchi cacciati dai territori ottomani resisi via via
indipendenti. Di fatto, il disegno di una brutale
semplificazione e modernizzazione forzata in senso occidentale
– uno Stato, una religione, un popolo – si dispiegò nel 1915 grazie
al contesto della guerra mondiale. Fu una vera «soluzione finale»
del problema armeno, progettata e mandata a effetto da una volontà
centrale unita a forme di tale selvaggia ferocia collettiva da
fissarsi come il modello storico dell’eliminazione violenta di un
intero gruppo umano – quello che fu poi chiamato «genocidio».
Per molto tempo la piena conoscenza dei fatti, circolante grazie
all’impegno di eredi e sopravvissuti, una conoscenza resa popolare
dal celebre romanzo di Franz Werfel, è stata ostacolata o negata da
parte della Turchia moderna e della sua storiografia. Ma le
relazioni ufficiali dell’epoca, come quella che il governo inglese
affidò a due suoi incaricati (uno era lo storico Arnold Toynbee), le
testimonianze dei sopravvissuti e gli atti del processo celebrato
dalle potenze vincitrici nel 1919 non lasciarono dubbi sulla
inaudita portata del crimine e sul suo volto insieme antico
e modernissimo: antico era il modello della costruzione dello stato
per via di eliminazioni e trasferimenti di popolazioni. Come la
cacciata degli ebrei nel 1492 aveva contribuito a creare l’unità
politica del popolo spagnolo, così la Turchia moderna con la strage
degli armeni si liberò del suo passato di impero multietnico.
Modernissimo fu invece il percorso progettato con gelida
determinazione e mandato a segno con inaudita ferocia.
Come mostra un importante libro di Marcello Flores, Il genocidio degli Armeni
(Il Mulino, pp. 348, euro 25,00), la guerra mondiale creò l’occasione
per mandare a effetto il disegno di «ripulire il paese dai suoi
nemici interni – i cristiani – senza dover fronteggiare l’intervento
diplomatico delle potenze straniere»: così si espresse il ministro
dell’interno Talât, uno dei principali artefici dell’operazione,
scrivendo al gran visir il 26 maggio 1915.
Cominciata in aprile con l’arresto dei membri della élite armena,
l’operazione proseguì con la deportazione e la strage sistematica
di quel popolo, accusato di essere una quinta colonna nemica, membro
di un «grande complotto» internazionale. Gli armeni furono privati
di tutti i loro beni, espulsi e avviati a un percorso di fame e di
morte. Le scene della eliminazione fisica di intere masse umane,
delle donne vendute e fatte schiave, arrivarono in Europa attraverso
le testimonianze di viaggiatori e le relazioni di inviati
diplomatici. Sconvolgente il materiale fotografico, di cui il
libro di Flores presenta una ragionata selezione. Così, tra il 1915
e il 1916 gran parte della popolazione armena della Cilicia
e dell’Anatolia fu massacrata. Fu un genocidio, il primo del mondo
contemporaneo, tutt’ora duramente negato dal governo turco. E si
è visto proprio quest’anno come sia bastata la commemorazione
ufficiale dell’evento e la sua definizione come «genocidio»
a suscitare violente reazioni da parte del premier Erdogan.
Il termine genocidio fu coniato dall’ebreo polacco Raphael Lemkin
nel 1944, nel corso di una analisi del regime giuridico imposto dai
nazisti nei territori occupati, redatta per conto
dell’amministrazione americana. Nel momento in cui il mondo intero
prendeva coscienza di quel che era accaduto nei campi di sterminio
nazista, per Lemkin tornava attuale il caso armeno nella
definizione della nuova figura di reato.
Un estratto di un suo dossier sull’eliminazione in massa degli
armeni si legge nel volume di testimonianze che la benemerita
Giuntina ha pubblicato alla vigilia del centenario, Pro
Armenia.Voci ebraiche sul genocidio armeno (a cura di Fulvio
Cortese e Francesco Berti, con la prefazione di Antonia Arslan).
Di particolare interesse, il memorandum che l’agente segreto Aaron
Aaronsohn inviò allora al governo inglese per accusare
l’indifferenza, se non la collaborazione, dei funzionari tedeschi
presenti come alleati nell’Impero ottomano.
La proposta di Lemkin divenne norma del diritto internazionale con
la convenzione approvata dalle Nazioni Unite nel 1948 sulla
«prevenzione e punizione del crimine di genocidio». In quest’anno
centenario, si è visto come intorno alla parola «genocidio» si apra
ancora un fossato che divide la moderna Turchia dall’Europa. Perché
la parola sia impronunciabile, almeno dal premier Erdogan e dalla
memoria ufficiale della Turchia moderna, è molto ben spiegato da
Marcello Flores nella sua ampia e analitica esposizione, che non
si limita al puntuale racconto delle stragi degli armeni, tra
i massacri «hamidiani» del 1894–96 e il grande sterminio del 1915,
ma si pone un problema più ampio: quello del rapporto tra la politica
attuale del governo turco, attestata sul più rigido negazionismo,
e la maturazione di una coscienza della verità storica e di una
conoscenza approfondita della realtà dei fatti, che non lascia alibi
ai tentativi di sfumarli nell’indistinto di una apparentemente
equanime divisione delle colpe tra vittime e assassini.
Il dato fondamentale è che nella Turchia moderna, nata dal
tracollo dell’Impero Ottomano, esiste una verità storica di Stato:
quella di un’identità nazionale dotata di specifici caratteri. È uno
dei tanti casi di sciagurata fortuna del fantasma dell’«identità»:
dando corpo al fantasma sovrastorico dell’identità collettiva, il
potere politico si legittima come suo interprete e tutore.
In Turchia chi critica o mette in discussione l’identità nazionale
si rende colpevole di un crimine a norma dell’art. 301 del codice
penale. Negli anni della guerra fredda un capostipite della
storiografia accademica sulla Turchia, Lewis V. Thomas,
riassumeva la «verità» di stato sostenendo la necessità storica
della turchizzazione e dell’islamizzazione accelerate «con l’uso
della forza» e l’aggressione contro gli armeni. Il presente
legittimava il passato, secondo Thomas: perché la nascita di «una
Repubblica turca che deve la propria forza e stabilità
…all’omogeneità della sua popolazione» era meritevole di avere
creato «un valido alleato degli Stati Uniti» inserito nel campo
occidentale e nella Nato.
Come mostra Marcello Flores, tesi come queste sono servite fin
dall’epoca dei fatti per celare i caratteri reali della strage
sistematica del popolo armeno; e ancora oggi, mentre la cultura
turca sarebbe ormai pronta a fare i conti col suo passato, il regime
attuale si attesta sulla difesa dell’identità islamica e turca
sostenuto dalle ragioni strategiche e dal contesto medio-orientale
che lo rendono un alleato indispensabile all’interno della Nato.
Fonte: il manifesto
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