La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 18 ottobre 2015

Canada al voto, ma sembra un referendum su sicurezza e immigrazione

di Guido Caldiron
L’uomo da bat­tere si chiama Ste­phen Har­per, ma non è detto che scon­fig­gerlo sia suf­fi­ciente per cam­biare di segno il clima poli­tico del paese e que­sto sia per la debo­lezza dei suoi avver­sari che per la deriva che sem­bra attra­ver­sare la società canadese.
Gli ultimi son­daggi nazio­nali in vista del voto di domani per il rin­novo del par­la­mento fede­rale indi­cano un pro­ba­bile testa a testa tra i con­ser­va­tori di Har­per, sti­mati intorno al 30% e i libe­rali gui­dati da Justin Tru­deau, dati al 29%.
Seguono il cen­tro­si­ni­stra del Nuovo par­tito demo­cra­tico di Tho­mas Mul­cair con il 26%, i Verdi e gli indi­pen­den­ti­sti del Bloc qué­bé­cois al 5%, anche se que­sti ultimi supe­rano il 20% nella pro­vin­cia a mag­gio­ranza francofona.
Molti osser­va­tori riten­gono però che già prima che si aprano le urne, un risul­tato que­sta cam­pa­gna elet­to­rale lar­ga­mente domi­nata dal tema della sicu­rezza e dell’immigrazione sem­bra averlo già otte­nuto, quello di met­tere in sof­fitta il mul­ti­cul­tu­ra­li­smo che ha carat­te­riz­zato il paese fin dal secondo dopoguerra.
Giunto al suo quarto man­dato con­se­cu­tivo in nove anni, Har­per ha infatti tra­sfor­mato le ele­zioni in una sorta di refe­ren­dum non solo sulla sua per­sona, ma anche sulla futura iden­tità del Canada, cer­cando di sfrut­tare l’onda lunga dell’emozione susci­tata nel paese dagli atten­tati ter­ro­ri­stici per­pe­trati lo scorso anno a Ottawa e nella città di Qué­bec da due aspi­ranti jiha­di­sti e costati la vita ad altret­tanti militari.
Con­vinto ammi­ra­tore di George W. Bush, Har­per si è speso nel corso dei suoi primi anni di governo per difen­dere ad ogni costo la libera impresa, spe­cie l’industria estrat­tiva dell’estremo nord del paese, oppo­nen­dosi fer­ma­mente al pro­to­collo di Kyoto, oltre a ridurre le tasse e tagliare il più pos­si­bile l’apparato statale.
Al punto che in vista del voto ben 150 tra per­so­na­lità, asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste e sin­da­cati, tra loro anche Naomi Klein, Leo­nard Cohen, Neil Young, Donald Suther­land, gli Arcade Fire e il filo­sofo Char­les Tay­lor, hanno fir­mato un mani­fe­sto in favore di «un Canada che difenda l’ambiente natu­rale e riduca le dispa­rità sociali».
Sbri­gati gli «affari», negli ultimi tempi il pre­mier si è con­cen­trato invece sui «valori», finendo per incar­nare appieno l’anima più rea­zio­na­ria della destra locale, quella che flirta con i movi­menti con­tro l’aborto e i matri­moni gay, che cerca di affer­mare l’identità cri­stiana del paese e, soprat­tutto, che vuole chiu­dere defi­ni­ti­va­mente le porte del Canada agli «stranieri».
Nep­pure la tra­ge­dia del pic­colo Aylan, la cui fami­glia voleva rag­giun­gere dei parenti che vivono a Van­cou­ver, ha smosso la fer­mezza di Har­per. Del resto, negli ultimi cin­que anni l’ingresso dei richie­denti asilo è stato vin­co­lato alla pre­senza di un pri­vato o di un’associazione che ne pren­desse in carico le spese, quella che il quo­ti­diano pro­gres­si­sta Toronto Star ha defi­nito come un’autentica «ester­na­liz­za­zione della soli­da­rietà». Men­tre per i lavo­ra­tori immi­grati è stato posto un tetto di un mas­simo di quat­tro anni di resi­denza nel paese.
In que­sto clima, solo pochi mesi fa, al momento del varo della nuova legi­sla­zione anti­ter­ro­ri­smo, un son­dag­gio ha rive­lato come due terzi dei cit­ta­dini cana­desi riten­gano che il loro paese sia «impe­gnato in una vera guerra». A dare defi­ni­ti­va­mente fuoco alle pol­veri è stata però la vicenda di Zunera Ishaq, una gio­vane inse­gnante di ori­gine paki­stana che al ter­mine di una lunga que­relle giu­di­zia­ria si è vista rico­no­scere due set­ti­mane fa, da parte della Corte d’appello fede­rale, la pos­si­bi­lità di par­te­ci­pare alla ceri­mo­nia di acqui­si­zione della cit­ta­di­nanza cana­dese indos­sando il velo «isla­mico» che lascia sco­perti solo gli occhi. L’«affare del Niqab» è diven­tato così il cuore della cam­pa­gna elet­to­rale, con i con­ser­va­tori che ne hanno denun­ciato l’uso come una minac­cia per il paese, ergen­dosi a «difen­sori dei valori cana­desi», men­tre i libe­rali e il cen­tro­si­ni­stra si sono divisi al pro­prio interno sull’argomento.
Nel frat­tempo, alcuni blog­ger hanno invi­tato gli elet­tori a recarsi alle urne con delle maschere sul volto per denun­ciare «la fine della demo­cra­zia nel paese».
Al di là del para­dosso, non si deve dimen­ti­care il con­te­sto in cui ha luogo una simile pole­mica, quello di un paese dove un abi­tante su cin­que è nato all’estero, la pro­por­zione più ele­vata di tutto il mondo occi­den­tale e dove lo spa­zio pub­blico si è costruito da oltre mezzo secolo nel segno dell’accoglienza e della tol­le­ranza, in nome di un mul­ti­cul­tu­ra­li­smo che l’ex colo­nia bri­tan­nica ha impor­tato più da Lon­dra che dagli Stati Uniti.
Nel Canada dove il diritto alla dif­fe­renza è stato fino ad oggi regola, ai migranti ma anche ai rifu­giati era chie­sto di par­te­ci­pare solo alla pro­spe­rità del paese, non ad un modello cul­tu­rale o tan­to­meno reli­gioso. Que­sto, almeno fino alle ele­zioni di domani.

Fonte: il manifesto 
Approfondimento: Gli indiani potrebbero essere determinanti 
di Simone Pieranni 

Saranno gli eredi dei primi abi­tanti del paese a deci­dere l’esito delle ele­zioni cana­desi? «Que­sta volta il nostro voto potrà fare la dif­fe­renza», ha spie­gato alla vigi­lia dell’apertura delle urne Perry Bel­le­garde, lea­der dell’Assemblea della Nazioni Autoc­tone che riu­ni­sce oltre 900mila dei 2 milioni di «indiani» del Canada.
«Non diamo delle con­se­gne di voto, ma chie­diamo ai mem­bri del movi­mento di soste­nere solo quei can­di­dati che si impe­gnano sulle prio­rità della comu­nità: edu­ca­zione, alloggi, lotta alla povertà e con­di­zione delle donne».
Bel­le­garde non lo dice espli­ci­ta­mente, ma il nemico numero uno delle popo­la­zioni autoc­tone che vivono prin­ci­pal­mente in pic­coli cen­tri rurali o in riserve pove­ris­sime come quella di Neskan­taga, ancora priva di acqua cor­rente, è il pre­mier con­ser­va­tore Har­per, accu­sato di aver soste­nuto gli inte­ressi delle grandi indu­strie che sfrut­tano e inqui­nano le aree tri­bali e di non aver fatto niente per miglio­rare le con­di­zioni di vita di quelli che sono ancora oggi con­si­de­rati come cit­ta­dini di serie B.
Har­per si è anche rifiu­tato di isti­tuire una com­mis­sione d’inchiesta, come chie­de­vano i rap­pre­sen­tanti delle Nazioni Autoc­tone, per inda­gare sul gran numero di donne indiane che sono state rapite o uccise nel paese, oltre 1200 dal 1980, in quello che appare come un fem­mi­ni­ci­dio di massa para­go­na­bile a quanto avve­nuto a Ciu­dad Jua­rez, in Messico.
Dopo che tra il 2012 e il 2013 il movi­mento Idle Non More li aveva visti scen­dere in piazza per pro­te­stare con­tro i grandi pro­getti petro­li­feri che minac­cia­vano i loro ter­ri­tori, gli autoc­toni cana­desi hanno deciso ora di far sen­tire per la prima volta il loro peso anche sul piano elet­to­rale — in pas­sato solo il 40% degli abi­tanti delle riserve par­te­ci­pava al voto -, che potrebbe risul­tare deter­mi­nante in almeno una cin­quan­tina di col­legi di tutto il paese.

Fonte: il manifesto 

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