La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 24 ottobre 2015

Post digital: Internet nel tutto. L'arte e la globalizzazione

di Marotta e Russo
“La globalizzazione è un processo di interdipendenze economiche, sociali, culturali, politiche e tecnologiche i cui effetti positivi e negativi hanno una rilevanza planetaria, tendendo ad uniformare il commercio, le culture, i costumi e il pensiero”.
– Wikipedia –
Leggendo questa voce di Wikipedia abbiamo chiaramente avvertito il fatto che la globalizzazione stava così – in questo modo preciso ed apodittico – dichiarando se stessa. Si potrebbe infatti tranquillamente sostituire il soggetto della definizione, “globalizzazione”, con il termine “Internet”, di cui Wikipedia è un paradigma fenomenico culturalmente assai rilevante e proprio nei termini proposti dall’enunciato.
L’arte ai tempi della globalizzazione coincide perciò con l’arte ai tempi di Internet. Un’arte, le cui pratiche non possono prescindere dalla consapevolezza dell’esistenza – attiva, globale e costante – di Internet. Che non è più un’infrastruttura e non è più un media o un medium, ma un contesto: ormai diffuso, ormai onnipresente e quindi, nella pratica quotidiana, dato per acquisito e scontato. E che per questo origina una nuova condizione antropologica largamente condivisa nell’esperienza – ma non sempre criticamente percepita dai più – che nel dibattito internazionale viene definita culturalmente come Post Digital e artisticamente come Post Internet. Secondo la nostra equazione, allora, anche la globalizzazione, la portata culturale del nuovo contesto esteso da Internet, rappresenta un dato oramai “acquisito e scontato”. L’arte – una certa arte – si misura già da tempo con i mutamenti antropologici e sociali che ne hanno rinnovato senso e direzione, nonché i luoghi e modi di fruizione, di commercializzazione e di storicizzazione delle pratiche.
L’arte contemporanea coincide in larga parte con lo statuto dell’arte concettuale. Non con la sua ideologia storicamente determinata, bensì con le ricadute, gli usi e costumi da essa derivanti. Essa non afferma nulla di particolare, non determina nulla di certo, ma si concentra principalmente nella definizione di un contesto continuamente rinegoziato nella relazione con il suo – ristretto – pubblico. Ristretto, in quanto determinato da confini culturali presidiati e controllati dal Sistema dell’Arte, secondo statuti ora non più coerenti con la realtà estesa da Internet. Ed anzi, in piena contraddizione con le nuove logiche culturali indotte dal contesto del network globale che aggiunge e collega un nuovo pubblico, quantitativamente e qualitativamente smisurato, oggetto target e soggetto creatore di un nuovo immaginario esperienziale e concettuale.
Nuove platee potenziali e reali possono ora accedere ai luoghi dell’informazione culturale e del dibattito artistico ufficiale. Anche questi luoghi, infatti, nonostante i presupposti elitari, sono stati necessariamente acquisiti nelle logiche digitali e globali, perché ormai obbligati, per “essere”, ad “essere su Internet”. Giunge ad essi un nuovo pubblico che può partecipare, commentare, criticare apertamente. Oppure, semplicemente, questo nuovo pubblico non giunge affatto, andando oltre ed al di là: verso altri dibattiti, altre pratiche ed altri presupposti di suo interesse più stretto. Alla lunga, per il Sistema dell’Arte, per il suo potere di certificazione di ciò che è arte e di ciò che non lo è, questa contraddizione fra la chiusura elitaria dei suoi presupposti fondativi e la necessaria apertura verso questo pubblico imposta dal contesto attuale rappresenterà sempre di più un serio problema di credibilità prima, di senso poi e, infine, di “pubblica tenuta” dell’intera struttura concettuale che lo regge.
Di fatto, proprio l’ideologia concettuale aveva vinto nella sua capacità di rivendicare per sé – e probabilmente in maniera stabile – un concetto, appunto, assai ampio ed esteso di “campo d’azione”. Una condizione, questa, che ora ci suona sempre più familiare, sempre più autobiografica ed affine alla nostra percezione della realtà quotidiana. Una realtà che è costantemente estesa dall’attiva presenza del network ed espansa da una permanente immersione percettiva e linguistica nella nuova cultura mediale integrata, frammentata e globale che estende, appunto, radicalmente il nostro campo d’azione. Una cultura in parte consapevolmente progettata e proposta dall’industria culturale, ed in parte sviluppata dalla manipolazione, ibridazione, condivisione dal basso di quanto da essa originariamente prodotto. La condizione di globalizzazione, infatti, determina un incontrollabile moltiplicarsi e dilatarsi di oggetti culturali. Evidentemente facilitati nel propagarsi e nel disperdersi dalle capacità di integrazione ed emulazione della loro natura digitale, la cui caratteristica più peculiare e profonda è quella di operare a partire da uno status di smaterializzazione naturalmente predisposto ad esprimersi attraverso un’inesauribile potenzialità di istanze.
L’avanguardia classica si percepiva come radicale perché evitava accuratamente ogni vocazione diretta alla comunicazione, di cui, al massimo, aspirava ad essere un’interferenza. Ma ciò risulta dannoso e controproducente per un’arte che oggi possa, voglia e debba misurarsi con i circuiti di distribuzione di massa, pena la sua morte per autoreferenzialità ed inconsistenza storica. Sarà perciò necessario ricomprendere in essa il concetto di comunicazione e, perciò, di senso e di progettualità. Quindi di responsabilità pubblica, in un’accezione tanto più ampia e rinnovata da poter originare anche esiti finali paradossali. Ci riferiamo ad un’arte capace di misurarsi in maniera attiva, orgogliosa e consapevole con i fenomeni della distribuzione della cultura popolare, dell’industria culturale e di tutte quelle espressioni un tempo definite come generiche (non specialistiche) e pop, che ora rappresentano il pervasivo tessuto connettivo che tiene assieme e collega le nostre esperienze, le nostre giornate ed il nostro immaginario. Un’arte che sia capace di esistere in un contesto di archivio dinamico e globale in cui quotidianamente operiamo, scavando e condividendo percorsi di senso, per poi condividerlo, potenzialmente, con tutti gli altri.
Si tende a diffidare – è un dato di fatto popolarmente acquisito e scontato – dell’archivio originato ed imposto dal Sistema dell’Arte e dal suo classico modo burocratico di procedere dall’alto nel definire un’opera attraverso il processo codificato della catalogazione, della verifica della provenienza e della certificazione dell’autenticità. Una tendenza burocratica ed una prassi oggi avvertite come culturalmente ed eticamente “opache” e che presuppongono un concetto di esclusività imperniato sulla materialità dell’oggetto artistico. Un presupposto già messo in parte in crisi da molte pratiche eversive proposte dai concettuali storici, poi riassorbite dal sistema trasferendo il valore economico dalla materialità dell’opera alla materialità della sua documentazione certificata. Una tendenza storicizzata, quella burocratica (da pochi a molti), che è messa in crisi dall’archivio popolare e globale che è Internet (da tutti a tutti). A cominciare dal processo di smaterializzazione che esso ha indotto: ciò che circola è digitalizzato, ciò che non è digitalizzato non circola – o rischia di non circolare – più: diviene culturalmente inerte perché non è – non è in grado di essere – parte del network globale.
Il modello culturale implicito e sempre più esplicitato di Internet, infatti, è molto più affine, in questo senso, ai modelli classici di diffusione e di penetrazione dell’arte e del dibattito su di essa basati sulla naturale e libera germinazione della diffusione e del confronto. Riannodando così le fila di un discorso improvvisamente interrotto dopo secoli e secoli con l’instaurarsi, a partire dalla metà dell’ʼ800 del sistema di trasmissione del sapere, della cultura e dell’arte introdotto dal sorgere dell’industria culturale. Una realtà che, con il suo potere di controllo e di certificazione ha mirato a determinare un modello culturale basato sul copyright, anche in una connotazione estesa oltre il concetto dei diritti economici, fino ad assumere quella di valore normativo di legittimità culturale. Secondo queste logiche, il dato di trasmissione del valore economico prevale sulle ragioni condivise e popolari che all’opera – qualunque connotazione essa possa oggi assumere nelle pratiche più contemporanee – chiedono invece un senso per se stessa e per se stessi. Un’opera, quindi, che è spontaneamente condivisa, trasmessa e partecipata solo quando viene avvertita come direttamente ricollegabile alle necessità della propria esperienza umana e storica.
Scrive a questo proposito l’artista Rafaël Rozendaal sul suo sito (newrafael.com/texts/page/2/): “Per lungo tempo gli artisti hanno spostato i confini di ciò che è considerato arte. È arte questa? E questa? O quest’altra? Dopotutto, è una domanda interessante… cos’è arte? Il problema è che questo ha dato origine ad un mucchio di noiosi scherzi da iniziati. È un gioco da ‘come puoi cavartela’, è un gioco da bulli che vogliono vedere fin dove possono spingersi, godendo ancora dello status. Io penso che la domanda più importante da porre sia ‘è interessante?’. Guarda il lavoro senza preoccuparti se sia arte o no.”
Un’arte davvero contemporanea deve perciò essere capace di misurarsi direttamente – fin dalla sua concezione – con questo spazio pubblico peer to peer, globale e naturalmente digitale, di archivi e di memorie. Esprimendosi, quindi, attraverso opere e pratiche in grado di assumere con piena e profonda consapevolezza il mutato contesto, che vede la sfera pubblica, il luogo tradizionale in cui operano la cultura e l’arte, oggi coincidere largamente con il network mediatico e globale. L’arte nell’epoca della globalizzazione è perciò l’arte che è capace di crearsi e conquistarsi direttamente un pubblico ed un senso pubblico: la ragione reale per essere.

Fonte: Scenari Mimesis

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