La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 22 ottobre 2015

Tasi 'dolce' Tasi. Chi risparmia davvero sulla prima casa

di Roberta Carlini e Annalisa Rosselli
Sono solo politico-elettorali le ragioni per le quali il governo ha deciso di procedere alla abolizione della Tasi[1] sulla prima casa. La teoria economica insegna che una tassa è “buona” se ha due caratteristiche: primo, è facile da riscuotere e difficile da evadere; secondo, ha scarsi effetti distorsivi sull’attività economica, cioè modifica il meno possibile le scelte degli agenti economici. Da questo punto di vista le imposte sulla casa sono riconosciute come le migliori. Le case, a differenza dei soldi e delle persone, non possono andare all’estero e sono ampiamente visibili. Inoltre le case non smettono di esistere se sono tassate, mentre il lavoro e soprattutto l’attività imprenditoriale possono essere scoraggiati da un fisco troppo esigente.
Dunque, perché cominciare il percorso di riduzione della pressione fiscale, rispetto al quale il governo si è impegnato, proprio dalla Tasi? La domanda non è accademica: in tempi di risorse finanziarie scarse, nell’ambito di un impianto complessivo della manovra economica che cerca di essere espansivo affidando tale compito quasi interamente a un aumento del deficit faticosamente negoziato con Bruxelles, ogni milione di euro speso (o non incassato) deve essere adeguatamente giustificato, e non solo per la sua “bontà”, ma anche per la sua preferibilità rispetto a usi alternativi. 
In seguito alla misura che abolisce la Tasi sulla prima casa il governo incasserà 3,5 miliardi di euro in meno. Un taglio fiscale consistente, che riguarda circa 18 milioni di prime case i cui proprietari risparmieranno, in media, 204 euro all’anno ciascuno (fonte: Nomisma). Quante siano le famiglie che ne beneficeranno è più incerto. Secondo la Banca d’Italia sono 2 famiglie su 3; sono invece 3 su 4 secondo l’Agenzia delle Entrate che fa l’ipotesi che a ogni “prima casa” corrisponda una famiglia e quindi ignora le finte separazioni di coniugi e figli che fissano la residenza nelle seconde case per sottrarle al fisco. Comunque sia, i beneficiari sono in numero elevato e 200 euro (in media) è una bella somma risparmiata tutta in un colpo solo e che fa il suo effetto. Se lo stesso sgravio fiscale fosse stato applicato all’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), si sarebbe trattato di pochi euro al mese e nessuno se ne sarebbe accorto. 
Ma dentro le medie, si sa, si nascondono effetti distributivi assai diversi a seconda della situazione delle varie famiglie. È stato già sostenuto in varie analisi e articoli[2] che l’effetto redistributivo della abolizione della Tasi è regressivo. Cioè, premia di più chi ha maggior ricchezza e reddito. Premia i vecchi più dei giovani, i laureati più dei meno istruiti, i dirigenti più degli operai. Ecco una tabella che li riepiloga:

Famiglie proprietarie dell'abitazione di residenza, per età e per classe di reddito


Fonte: Banca d'Italia, I bilanci delle famiglie italiane nell'anno 2012 (gennaio 2014) - % di famiglie. Le caratteristiche individuali sono riferite al capofamiglia, inteso come il maggior percettore di reddito all'interno della famiglia

Quanto alla redistribuzione per genere, i dati a livello nazionale non permettono di scendere nel dettaglio (l’Agenzia del Territorio fa sapere che nel prossimo rapporto ci sarà un’analisi approfondita) ma molti indizi portano a pensare che, in sé, non ci sia un effetto così netto come quello che si vede tra poveri e ricchi, e tra vecchi e giovani. Infatti nella proprietà immobiliare il gender gap è molto meno profondo che in tanti altri indicatori. Il numero totale di proprietari di abitazioni è pari a 12.904.632 uomini e 11.945.131 donne. Questo in generale. Se invece si va a vedere solo al titolo di godimento dell’abitazione in cui si vive (le prime case), si ha che sono proprietari il 68,9% dai capifamiglia maschi e il 64% dalle capofamiglia donne[3]. 
Più rilevante, per l’impatto di genere, è la risposta alla domanda: quale concezione economica e culturale del nostro assetto sociale, a partire dalla famiglia, c’è dietro questa ossessione per la tutela della proprietà dell’abitazione? 
La passione degli italiani per il “mattone” è ben nota e sono vani i tentativi di convincerli che l’acquisto di una casa, soprattutto se non viene destinata ad abitazione principale, può essere economicamente poco redditizio. Del resto questo atteggiamento è comprensibile, perché usi alternativi del risparmio sotto forma di accumulazione di ricchezza finanziaria sono stati scoraggiati non dal fisco, fino al governo Monti molto generoso da questo punto di vista, ma da chi si è approfittato della scarsa educazione finanziaria degli italiani per trattarli come polli da spennare. A questa propensione culturale si è aggiunto il fatto che la proprietà immobiliare è stata ampiamente incoraggiata con incentivi come la possibilità di detrarre gli interessi sul mutuo, un’imposta su successioni e donazioni quasi nulla, valori catastali spesso molto lontani da quelli effettivi di mercato, e la agognata riforma del catasto, da tempo invocata e preparata, è ancora ferma, bloccata da obiezioni tecniche che molto probabilmente nascondono una scarsa volontà politica di precedere a quella che sarebbe una vera riforma strutturale della fiscalità sugli immobili. Sono invece alti i costi di transazione, cioè le imposte che si devono pagare quando si compra una casa e che portano diversi miliardi ogni anno nelle casse dello Stato. Insomma, sembra che si voglia ancorare ogni famiglia a una sua casa, che è dovere trasmettere ai propri discendenti, ignorando le esigenze di mobilità che il mercato del lavoro oggi impone e che un numero crescente di giovani, alla ricerca di migliori opportunità, accetta. Forse anche per questo bisogno di mantenere l’integrità della casa - oltre che per le condizioni poco favorevoli fissate dalle banche senza alcun limite posto dalla normativa – ha poco successo in Italia il prestito vitalizio ipotecario sebbene i dati ci dicano che le donne hanno case leggermente di maggior valore di quelle degli uomini pur disponendo di un reddito imponibile annuo in media più basso di diecimila euro[4]. Ci sono quindi donne ultrasessantenni che fanno fatica a tirare avanti con la propria pensione, ma che non monetizzano il valore della casa in cui vivono e vogliono continuare a vivere.
La stessa visione della casa come regno indivisibile della famiglia (“ognuno padrone a casa sua” era uno slogan berlusconiano di successo) ha portato a costruire in Italia 6 milioni e mezzo di abitazioni“a disposizione”, cioè né utilizzate come prima casa né affittate. Anche supponendo che in molti casi le abitazioni “a disposizione” siano affittate al nero o servano per esigenze di lavoro, è un numero elevatissimo che non sorprende guardando al massacro delle nostre coste e dei nostri monti, ricoperti di case che restano vuote undici mesi all’anno. Peccato però che anche in questo regno ci sia chi deve cucinare e rifare i letti, gli unici lavori da cui sembra non si debba mai andare in vacanza. Forse gli italiani non sarebbero stati così ansiosi di avere una casa propria per la villeggiatura in cui riprodurre gli stessi schemi, se non ci fossero state donne disposte/rassegnate a non smettere mai di erogare lavoro domestico. Ai molti benefici che derivano da un’equa distribuzione del lavoro domestico tra maschi e femmine, pensandoci bene possiamo aggiungere anche il vantaggio che ne ricaverebbe il paesaggio italiano. 
Ci si deve chiedere non solo quanto questa visione “immobile” della casa piaccia, ma soprattutto quanto sia sostenibile in un mondo caratterizzato da mobilità e flessibilità. Così come ci si deve chiedere quanto sia finanziariamente sostenibile l’abolizione della Tasi sulla prima casa. La copertura finanziaria nella legge di stabilità è garantita solo per il primo anno, attraverso un aumento del deficit. E per gli anni successivi? Ricordiamo che la Tasi è un tributo sui servizi comunali indivisibili: chi pagherà per questi servizi? I comuni paventano un taglio di 300 milioni di euro, che andrebbe ad aggiungersi ai numerosi tagli già subìti negli ultimi anni. In assenza di un quadro chiaro sulle coperture, è difficile anche valutare gli effetti redistributivi complessivi, poiché le famiglie potrebbero essere chiamate a pagare in aumenti delle tariffe quel che risparmiano sulla Tasi. Ma è intuibile la direzione di un eventuale taglio dei servizi diretti, o di un rincaro delle loro tariffe: essendo spessoprestazioni che vanno a incidere sulle attività di cura e gestione familiare (dai nidi ai tempi lunghi delle scuole, dai trasporti all’assistenza agli anziani), e dunque le spese che più andrebbero tutelate, migliorate e rese maggiormente efficienti in un’ottica di incentivazione del lavoro femminile. 

NOTE

[1] La TASI è un tributo che va a pagare i servizi ‘indivisibili’ dei comuni, e ha preso il posto dell’Imu, la quale a sua volta è rimasta per le seconde case, per le aree fabbricabili e per altri cespiti: qui, a pagina 159, un utile riepilogo della rocambolesca evoluzione della nostra tassazione sugli immobili.


[3] Banca d’Italia, Indagine sui bilanci delle famiglie 2012

[4] Agenzia delle entrate, Gli immobili in Italia 2015, pag. 100

Fonte: inGenere.it

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