La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 22 ottobre 2015

L’Italia uniforme

di Eugenio Vendemiale
Si scherza fra amici: L’Italia delle diversità non è tema di dibattito ma colpo di fortuna, vuole dire tutto e niente, carta bianca, traccia libera. Ci insospettisce il ricorso all’accentata finale, che sa di acrobazia lessicale: abbiamo già le differenze, e un’ulteriore deviazione ci pare artificiale. Non diversi né differenti – piuttosto ignoranti e snob –, siamo impegnati a cogliere la presunta falla in qualunque idea ci venga proposta.
Se l’idea è valida non sarà valida la forma in cui è espressa, o non varrà chi la esprime, e così via, smontando ogni premessa di qualunque discussione, senza che occorra affrontarla: ci riteniamo migliori in ogni caso, e più interessanti; con un invito o un comunicato stampa in mano, senza gli oneri del relatore, chiunque si fermerebbe qui, senza porsi ulteriori domande, né seguirebbe la discussione – così come nessuno frequenterebbe le presentazioni di libri, salvo essere obbligato a presentare un libro.
In questo atteggiamento – diffuso fino a costituire regola, almeno fra chi è nato negli anni ottanta – c’è già del materiale interessante: la persuasione, indimostrata, di essere più interessante rispetto a ogni altra cosa attorno.
Ci tornerò alla fine, per ora vado a senso: se le differenze appaiono come un mero dato di fatto, nellediversità si intravede una sfumatura intenzionale, un qualche processo. Diversità è la condizione di chi si percepisce o è percepito come diverso: il discrimine è culturale; la parola non è bellissima, ma allude a condizioni esistenziali affascinanti. Allude al rifiuto e alla deviazione, o all’emarginazione, condizioni fra le poche su cui ritengo sia sensato scrivere. È concetto negativo, che presuppone un non-sono-così, un contrario, e mi chiedo come si rappresenti, a parole, il contrario della diversità. Se sia identità, come nelle logiche argomentazioni dei padri della Chiesa, o se risieda in termini che mi suonano spaventosi – conformità e uniformità, che evocano paranoiche ambizioni di normalità, indossare divise e livellarsi al basso (scarto immediatamente la somiglianza: la somiglianza è una sciocchezza che si risolve allo specchio).
Sull’identità rischiamo di scivolare per non alzarci più: identità è concordanza fra caratteristiche essenziali, è unione coerente e indivisibile di queste caratteristiche, è perfino radice del sentimento che avvicinerebbe il singolo a qualcosa di differente da sé, e più vasto. Proprio in questo senso, usiamo con disinvoltura il concetto di identità per appelli retorici: contrario virtuoso di diversità, l’identità sembra anche troppo virtuosa per appartenere a questa terra ed essere un concetto attendibile. Ho letto di recente un articolo, o una recensione – ma accade spesso – dove si rimpiangono i tempi in cui l’Italia ospitava ancora un popolo, e sarebbero stati i giorni della ricostruzione: immaginiamo giorni orgogliosi ed eroici, di identità nazionale.
Ma a quindici anni di distanza dal dopoguerra, andando avanti nel tempo, l’Italia è quella dei Mostri di Dino Risi. E sempre a quindici anni di distanza, ma andando indietro, si urla nelle piazze Alalà in risposta a Heya Heya. Le due circostanze hanno in sé la radice dell’identità italiana: ancora oggi è impossibile guardare il film di Risi senza riconoscersi in qualcuna delle sue mostruosità, ed è impossibile risalire l’albero genealogico senza trovare qualcuno, magari un prozio sbandato, che non si sia vantato di avere marciato su Roma, o nella piazza del paese. C’è stata, e ne sono certo, una breve fase di identità virtuosa, ma riguardava in fondo poca gente, e si trattava di reagire all’eccezionale, si trattava di combattere gli alieni: l’identità italiana resta una cosa sospetta, che riguarda un popolo di mostri.
Conformità o, peggio, uniformità. Per almeno vent’anni – perché di vent’anni ho avuto conoscenza diretta – ogni forza ci ha spinto in questa infernale direzione, per cerchi concentrici, dal tentativo più goffo e facile da disinnescare al vasto agire inafferrabile di potenze impersonali. Lo ha fatto la scuola, smantellata in poche facili mosse, che in gran parte ha alimentato se stessa e la propria azione con gente poco preparata, ma mirabilmente addestrata al conformismo – professori che hanno studiato male insegnano a studenti che studieranno peggio, fino al punto in cui nessuno insegnerà più nulla a nessuno, quando ci si limiterà a trasmettere un modo, una visione, l’ambizione alla normalità di inclinazioni e aspirazioni, in un circolo vizioso che oggi sembra impossibile spezzare.
Lo ha fatto la televisione all’americana, che in Italia si definisce commerciale, e non ho voglia di dire anche io in che modo lo abbia fatto e perché: la televisione è stata in Italia una tale cattiva maestra di conformismo e volgarità, un tale macroscopico mostro, così grande, dannoso e facile da additare, che parlarne male adesso sarebbe come sparare su una croce rossa malvagia – senza tra l’altro riuscire ad abbatterla: sembra impossibile abbattere la televisione all’americana, come sembra impossibile riformare la scuola.
Il fascismo gentile non ha idee da imporre e non somministra slogan, perché imposizioni e semplificazioni non appartengono alla sua natura prevaricatrice, fatta piuttosto di numeri e movimenti di denaro. Questo dolce e gentile fascismo, che coincide sempre più con il mondo stesso, sogna e invoca una sola grande classe, media, unica, uniforme. Più che idee vuole sentimenti, seppure interrotti e mobili: brevi sentimenti psicotici in balia del momento – sostanzialmente, vuole desideri indotti. Il grande mercato, innervato di denaro, senza grandi manovratori o complotti, che si muove ormai da solo e che da tempo ha divorato e risputato i propri agenti, si sovrappone a questa uguaglianza senza testa – mercato è sinonimo dell’ambiente su cui verranno vendute le merci, quindi questa grande classe uniforme e acefala è il mercato stesso; i sudditi non hanno alcuna possibilità o voglia di rovesciare il sovrano, perché ne fanno parte. Quanti più desideri indotti coincidono, tanto più si è uguali l’uno all’altro, e tanto meno si ha voglia di reagire a un ordine che garantisce soddisfazione, e non purghe, manganelli, confino o sterminio. In questo, l’Italia è conforme a un occidente, a un emisfero nord, che ormai tende a coincidere con il mondo intero. Conformità e uniformità sono le grandi mani che ci prendono dalla collottola – uno a uno, o a branchi – per posarci davanti al registratore di cassa, in una fila al supermercato.
E la diversità – in forma di rifiuto, o di emarginazione, o di pura e semplice estraneità, o stranezza – sarebbe l’antidoto. Sarebbe antidoto la critica puramente personale, sarebbe resistenza elevare se stessi a giudice inappellabile, coltivare se stessi e le proprie idee in modo che sfuggano a ogni somiglianza, e fare in modo che i criteri della propria critica non siano attaccabili, in primo luogo perché non condivisi né condivisibili. La vanità di un’autobiografia perenne, in cui nulla è conforme a parametri validi in assoluto, ma tutto è accettabile, perché frutto di un’individualità irriducibile. Fa venire in mente qualcosa, immagino: un miliardo di persone accende ogni giorno il computer, per avere accesso a una piattaforma che consente di esercitare – davanti a una platea di simili – questo tipo di diversità.
Purtroppo, la forza che ci vuole uniformi è stata capace di assimilare in fretta ribellioni, attuate in nome dell’individualità, ben più pericolose e radicali. Penso alla droga, e mi rendo conto di come tutto, da trent’anni, non faccia che ricadere in nuove divise conformi, in differenti schemi di consumo: la massa si muove uguale a se stessa, alla ricerca della propria merce, ma – per chi avesse orrore della massa – abbiamo una merce di natura differente. La grande illusione che ci vuole irripetibili, non paragonabili l’uno all’altro, è da tempo alla base della tecnica con cui ci fanno comperare sciocchezze, e il risultato non è mai, ovviamente, una maggiore diversità: il risultato è l’Italia uniforme.
È paradossale, ma è così: come un eccesso di informazioni fa – per così dire – il giro, e giunge al grado zero dell’informazione, così la moltiplicazione delle diversità, quando è calcolata su un rapporto di tutti a ciascuno, diviene la forma ultima e invincibile della conformità: un folle niente, un vuoto di idee e manifestazioni reali in cui valga tutto, dove tutto sia pari perché nulla si corrisponda, e dove sia possibile orientarsi solo al lume delle mere, accidentali differenze, delle mere somiglianze. Dove nessuno conti niente, ma ciascuno abbia diritto di percepirsi unico. In nome di questa costruzione folle, che prevede un mondo indipendente per ogni testa che sia possibile contare, nessuno dice sul serio nulla a nessuno e, per esempio, io e i miei amici snobbiamo qualunque tavola rotonda e qualunque appuntamento culturale – a cui tra l’altro c’è il rischio che la cultura non si presenti – perché siamo più interessanti noi, e nessuno potrà mai dimostrarci il contrario (proprio come noi non potremo mai dimostrare di essere per davvero eccezionali). Di questi tempi, insomma, l’uniformità è un male osceno, ma la diversità non è che una malattia appena meno deturpante; parafrasando Allen, è diventata come tutte le cose che facevano bene un tempo: come il latte, la carne, l’università.

È iniziata giovedì a Roma la settima edizione del Salone dell’editoria sociale intitolata quest’anno “Gioventù bruciata. Tra crisi e riscatto”. Anticipiamo di seguito una parte dell’intervento che Eugenio Vendemiale, autore di La festa è finita (Caratteri mobili 2015), terrà la sera di sabato all’interno del dibattito “L’Italia delle diversità”, a cui parteciperanno Nicola Lagioia, Christian Raimo e Carola Susani e che sarà moderato da Nicola Villa.

Fonte: minimaetmoralia.it 

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