La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 22 ottobre 2015

Immagini politiche. Sull’ultimo libro di Carlo Ginzburg

di Luca Illetterati
Nel 1989 David Freedberg, già Direttore dell’Italian Academy di New York e da pochissimo del Warburg Institute a Londra, scrisse un libro poderoso intitolato The Power of Images (tradotto nel 1993 da Einaudi e poi ristampato nel 2009). In esso venivano studiati i caratteri delle nostre risposte emotive, e dunque insieme psicologiche e fisiologiche, a un certo tipo di immagini. In qualche modo l’idea di fondo del libro (che ha trovato poi significativi sviluppi nell’ambito della cosiddetta neuroestetica) è che le reazioni degli spettatori alle immagini non sia solo il frutto di fattori contestuali alla luce dei quali noi riusciamo a cogliere i significati che le rappresentazioni incarnano, ma siano sempre anche relative a una sorta di grammatica tipologica universale, per cui certe immagini producono quasi spontaneamente certe reazioni, certe emozioni, una risposta specifica nello spettatore che le osserva.
L’intento di Freedberg era insomma quello di mostrare che il potere delle immagini implica un riconoscimento dell’esistenza di forme di base della risposta umana, che hanno a che fare innanzitutto con l’architettura del cervello e con la specificità biologica. Questo non esclude affatto l’elemento storico, ovvero che questo potere sia andato formandosi secondo una dinamica storica di costruzione dei significati. Ma i significati possono venire costruiti, secondo Freedberg, solo a partire da uno sfondo di risposte reattive che non sono a loro volta costruite se non in termini evolutivi.
Viene in mente talora il lavoro di Freedberg leggendo i cinque notevolissimi saggi che compongono l’ultimo libro di Carlo Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, con il quale Adelphi inaugura una collana che si intitola, significativamente, Imago.
Il libro si presenta come una serie di percorsi che sono insieme filosofici, estetici e soprattutto storico-politici (il sottotitolo è infatti Cinque saggi di iconografia politica) ognuno intorno a un’immagine che fa da perno dell’analisi, la quale mira a far emergere quelle che Warburg chiamava le formule di pathos, ovvero le raffigurazioni nell’arte di determinati gesti che sono citabili appunto come formule e che veicolano determinate emozioni e determinate gerarchie. Secondo Warburg il Rinascimento, e dunque l’alba della modernità, è caratterizzato dal recupero di alcunigesti di emozione dal vocabolario iconografico antico cui viene non di rado attribuito un significato rovesciato, per cui, ad esempio, ricorda Ginzburg, la frenesia estatica delle baccanti viene utilizzata per esprimere la frenesia di dolore di Maria Maddalena.
Ciò che interessa soprattutto a Ginzburg – e per questo viene in mente, leggendolo, il lavoro di Freedberg a cui insieme si avvicina nella ricerca delle costanti iconografiche in grado di produrre emozione nell’osservatore, ma dal quale anche radicalmente si allontana mostrando come queste costanti possano assumere a seconda delle epoche e delle circostanze significati non solo diversi, ma talvolta anche opposti – ciò che interessa a Ginzburg, dicevamo, è essenzialmente l’intreccio fra queste formule di pathos, fra questo vocabolario in grado di attraversare contesti diversi e visioni del mondo apparentemente incommensurabili, e invece le contingenze storiche nelle quali solamente questa sintassi è in grado di assumere significato.
Il primo saggio è dedicato a una coppa d’argento dorato prodotta ad Anversa intorno al 1530, nelle cui decorazioni, che riprendono alcune raffigurazioni classiche dell’età dell’oro, Ginzburg legge con acutezza l’ambiguità del rapporto con cui si guardava all’inizio del ‘500 a quella che può essere considerata come una delle cesure più sconvolgenti con cui si apre l’età moderna, ovvero la scoperta del Mondo Nuovo. Il secondo saggio è dedicato alla famosa immagine, e alle modificazioni ad essa apportate, che si trova nel frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes. La rappresentazione del Leviatano e del peculiare rapporto di sottomissione dei sudditi diventa l’occasione per Ginzburg per incunearsi, soprattutto attraverso l’analisi dei precedenti classici e in primo luogo attraverso l’analisi della traduzione da parte di Hobbes della Guerra del Peloponneso di Tucidide, dentro le peculiarità di un termine chiave della concettualizzazione hobbesiana e conseguentemente di tutta la filosofia politica moderna, e cioè la parola inglese awe, in cui confluiscono, ancora una volta ambiguamente e in modo trasfigurato rispetto alla classicità greca e romana, la reverenza e il terrore. Il terzo saggio (quello forse più straordinario per ampiezza e profondità di analisi) è dedicato al celebre Marat di Jacques-Louis David. Ginzburg mostra, con un incedere narrativo pulito e incalzante, come questo quadro, uno dei primi o forse addirittura il primo ad essere datato in base a un calendario privo di connotazioni classiche o cristiane (anno due dell’era repubblicana) e che non a caso secondo molti interpreti inaugura il modernismo in pittura, costituisca una sapiente rielaborazione di caratteri iconografici e rappresentazioni gestuali sia classici che cristiani. Il Marat di David non è dunque, secondo Ginzburg, semplicemente un quadro politico, bensì un atto politico, ovvero la costruzione sapiente di una legittimazione del potere repubblicano attraverso la posizione dell’eroe rivoluzionario nel luogo dell’eroe classico e del santo cristiano.
L’indagine di Ginzburg, però, non si rivolge solo ad oggetti artistici dei quali è lecito pensare che siano in se stessi un luogo di confronto con la tradizione da cui provengono. Il quarto saggio è infatti dedicato alla famosa immagine propagandistica del dito puntato con il quale la patria chiede l’arruolamento ai propri cittadini; immagine usata con questo intento per la prima volta da Lord Kitchener in nome del Regno Britannico nella Prima Guerra Mondiale e poi ripresa tanto nel famoso I Want You dello Zio Sam americano, quanto da tutte le propagande dei regimi totalitari nella prima metà del Novecento. Anche qui ciò che viene messo in evidenza, soprattutto a partire dallo sguardo di colui che chiama e che si rivolge all’osservatore da qualunque parte lo si guardi, è il carattere insieme classico e religioso che sta alle spalle dell’icona, la quale dunque si appropria, più o meno consapevolmente, di un vocabolario misticheggiante e apparentemente estraneo alla tipologia della comunicazione in gioco, che ad un tempo è ciò che, per quanto in modo subliminale e non esplicito, la rende efficace.
A chiudere il volume è un testo denso e articolato su quella che è forse l’icona più famosa dell’arte novecentesca, e cioè Guernica di Picasso. Anche in questo caso Ginzburg si sofferma sugli elementi di classicità che innervano la tormentata elaborazione di questo dipinto. Elementi classici che gettano luce sulla straordinaria ambiguità del quadro: Guernica è infatti l’icona dell’antifascismo, è cioè il quadro antifascista per antonomasia, e contemporaneamente in esso il fascismo è assente, non trova rappresentazione.
Le cinque immagini che vengono qui analizzate sono dunque tutte immagini moderne, cinque immagini rappresentative di quel processo storico non del tutto chiarito che va perlopiù sotto il nome di modernità. E in qualche modo ciò che questi percorsi tendono a problematizzare è proprio questa nozione, quella di modernità, ovvero la cesura che essa pretende rispetto all’orizzonte classico e all’orizzonte cristiano. In particolare notevoli sono i passi in cui Ginzburg mette in luce l’ambiguità del concetto di secolarizzazione. Quelle che vengono chiamate soprattutto sulla scorta di Weber le società secolarizzate, sembra dire Ginzburg, piuttosto che società che si sono lasciate alle spalle la sfera del sacro, piuttosto che segnate dal disincanto e dalla dissoluzione della religione, sono società che si fondano e si costituiscono occupando la sfera del sacro, invadendone lo spazio. Appropriandosi dell’aura della religione, piuttosto che annientandola. Le società secolarizzate, cioè, non si contrappongono in senso proprio alla religione, ma si sostituiscono ad essa su quello stesso terreno.
La secolarizzazione è questa contraddizione, dentro le quali le nostre società abitano.
In questo senso, cercando cioè di comprendere in profondità il nesso e la relazione tra le società caratterizzate da una forte istanza autoritativa di carattere religioso e le società secolari frutto di quel processo di emancipazione che la modernità pretende di incarnare, si apre come una breccia in grado di far luce sul nostro presente. Tanto che abbiamo come l’impressione di capire qualcosa di più del mondo post 11 settembre da queste analisi puntuali che guardano lontano nel tempo, rispetto a molte discussioni politologiche prigioniere di un presente che se lasciato a se stesso risulta muto o comunque afono.

Questo articolo è uscito su «Alias»
Fonte: Le parole e le cose

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