La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 14 agosto 2015

Il dominio a tempo pieno

di Raúl Zibechi
In ogni tempo è stato importante conoscere i modi in cui le classi dominanti esercitano il dominio. Una buona parte del pensiero anti-sistemico, nei suoi più diversi versanti, si è occupata della comprensione di quei modi, soprattutto nei periodi di cambiamento e di svolta, quando los de arriba creano nuove forme di oppressione, alle volte brutali, il più delle volte sottili e invisibili.
Lo storico catalano Josep Fontana ha pubblicato alcune settimane fa un articolo inquietante intitolato “La logica del campo di concentramento” (“La lógica del campo de concentración“) (Sinpermiso, 19 luglio 2015). Sostiene che la Grecia si è trasformata in un campo di concentramento dove i lavoratori non hanno diritti e avranno pensioni miserabili, che è il modo per “eliminare quelli che non sono più produttivi“.
Fontana è uno dei più autorevoli storici viventi, con una vasta produzione e una solida formazione marxista. Non è una persona solita a creare agitazione senza fondamento. Nel suo breve articolo (che merita la più ampia diffusione) e sulla base dei più recenti studi sui campi [di concentramento, ndt], sostiene che essi non erano – solamente – luoghi di sterminio, bensì “organizzazioni industriali gestite con criteri economici peculiari ma molto razionali, al fine di ottenere i massimi benefici“.
Dice che perfino lo stesso annientamento degli Ebrei è stato pensato con criteri di redditività: i prigionieri erano costretti a lavorare fino allo sfinimento e alla morte nella costruzione di strade, nelle miniere di carbone, nelle aziende agricole e perfino nella fabbrica di gomma sintetica della IG Farben.
Per Fontana è importante “pensare alle analogie che ci sono tra la logica dei campi di concentramento e le politiche di austerità che ci impongono”. Perché i fondamenti sono gli stessi: ridurre al minimo i costi del lavoro ed eliminare quelli che non producono. Suona sconvolgente, tuttavia è un invito a riflettere sul mondo in cui viviamo, cosa che in America Latina ci risulta urgente.
Giorgio Agamben, in Homo Sacer, avverte: “Oggi il paradigma politico dell’Occidente è il campo di concentramento e non la città” (pag. 230). Dice ancora: “Dopo i campi di concentramento non c’è ritorno possibile alla politica classica” (pag. 238). Arriva a questa conclusione attraverso il concetto di “nuda vita”, priva di diritti reali, carne e nient’altro, “nessuna distinzione tra diritto e fatto, norma e vita biologica”.
Agamben ci dice che oggi la dominazione consiste nel fatto che le nostre vite sono state spogliate di ogni qualità umana, come se gli esseri umani fossero ridotti a vegetali o a carne animale.
Non si tratta di pensare il campo di concentramento come spazio circondato da filo spinato e torrette di guardia, bensì come meccanismo (alle volte) più sottile, che riduce le nostre vite a un mero andare e venire dal lavoro (quasi schiavo) al consumo (entrambi in spazi iper-vigilati con videocamere). Vita biologica, dove ai soggetti viene tolta ogni possibilità di regolare i propri tempi di lavoro e di riproduzione. Eteronomia allo stato puro, come già succede nelle maquilladoras ,ma in realtà in tutti gli spazi e i tempi della vita quotidiana. Dominazione a tempo pieno. Per questo Agamben sottolinea che la vita nuda, nata nei grandi stati totalitari del XX secolo, è oggi la vita “normale”.
Arrivati a questo punto, dobbiamo chiederci: come si fa politica in queste condizioni? Come si lavora per l’emancipazione? La risposta più corretta è che non lo sappiamo, che dobbiamo imparare, riflettere, provare. E dobbiamo diffidare di chi ha già la risposta pronta.
La domanda decisiva: quale sinistra, che tipo di movimenti, per una realtà di dominazione e controllo di questo tipo?
La recente esperienza della Grecia può essere un buon inizio. Dire che Tsipras è un “traditore” è il cammino peggiore, perchè suggerisce che tutto consiste nel mettere un altro al suo posto per risolvere il dilemma. Il problema è invece proprio che chiunque occupi quel posto non potrà fare altrimenti. Per dirla nei termini del campo [di concentramento, ndt], chi ricopre quegli incarichi non può svolgere altro ruolo che quello di un guardiano. Diversamente sarà annientato.
A partire da queste considerazioni, per quelli di noi che continuano a impegnarsi nella resistenza e nell’emancipazione, sembra necessario riflettere in due direzioni.
La prima è quella di poter discernere le distinte modalità che il paradigma del campo di concentramento va assumendo nelle nostre società: come si manifesta, quali sono le recinzioni immateriali che ci circondano, chi sono i guardiani, dove sono le baracche, e così via, fino a ottenere un quadro chiaro.
Questo è il compito centrale, che ci permetterà di orizzontarci su dove stiamo, di osservare quali sono le caratteristiche della dominazione, ma anche quali sono i suoi punti deboli. All’inizio, e salvo dimostrazione contraria, le istituzioni statali devono essere considerate parte del “dispositivo campo”.
La seconda è iniziare a costruire un tipo di organizzazione per operare all’interno del campo, con la prospettiva di uscirne ed eventualmente, in un certo momento, di distruggerlo. Fino ad ora, la maggior parte delle organizzazioni, dei partiti di sinistra e dei movimenti popolari, ha agito più da guardiano che da organizzatore di fughe, pur non essendone cosciente.
Saranno necessarie organizzazioni capaci di costruire spazi sicuri “fuori dal controllo dei potenti” (James Scott), dove sia possibile organizzare fughe ed altre azioni. Non siamo più nell’era industriale (disciplina negli spazi chiusi), quando l’oppressione si concentrava nella fabbrica, dove il controllo dei capireparto veniva deriso. La stessa cosa vale per le donne, che hanno sempre creato spazi di libertà all’interno [di situazioni di] oppressione. Scrive Agamben: “La biopolitica rende vano qualsiasi tentativo di fondare le libertà politiche sui diritti del cittadino“.
Non ci sono manuali per percorrere questo cammino. L’esperienza storica, quella degli schiavi e degli indios, ci può servire come fonte di ispirazione. La comunità e ilquilombo sembrano riferimenti ineludibili. Il resto dovrà essere improvvisato. Salvo l’etica e il desiderio di libertà.

Fonte: La Jornada 
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

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