La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 15 agosto 2015

Senza insegne di partito e senza fretta

di Gianandrea Piccioli
Qual­che giorno fa, in un arti­colo sulla Ger­ma­nia, Marco Bascetta ha scritto che «il socia­li­smo euro­peo non è fal­lito per­ché si è con­ver­tito al neo­li­be­ri­smo, ma si è con­ver­tito al neo­li­be­ri­smo per­ché era fal­lito. Per­ché il modello di stato, di wel­fare, di lavoro, di iden­tità sin­go­lari e col­let­tive che esso pro­po­neva non cor­ri­spon­de­vano più alle aspi­ra­zioni di sog­get­ti­vità sociali pro­fon­da­mente tra­sfor­mate. Se non si parte da que­sto pre­sup­po­sto la par­tita con le pro­messe, sia pur disat­tese, del neo­li­be­ri­smo è irri­me­dia­bil­mente per­duta». L’Andersen de I vestiti nuovi dell’Imperatore non avrebbe potuto dir meglio.
A sini­stra, oggi, in Ita­lia e nel mondo, non c’è solo dello spa­zio, ci sono addi­rit­tura steppe a per­dita d’occhio. Ma occor­re­rebbe sapere come abi­tarle e col­ti­varle e non si può certo farlo inal­be­rando annunci tipo «Qui non si vende e non si beve Coca Cola», come si leg­geva su uno stri­scione a un recente festi­val di Rifon­da­zione a Savona… E nem­meno illu­den­dosi che sia pos­si­bile rifor­mare il sistema dall’interno, come avverte giu­sta­mente Ber­ti­notti, alam­bic­cando con vec­chie alchi­mie di scis­sione e ricom­po­si­zione delle resi­due forze esi­stenti. Né, come ha più volte riba­dito Marco Revelli, cer­cando di far nascere nuove strut­ture poli­ti­che ormai impos­si­bili nelle forme nove­cen­te­sche, che peral­tro sono ancora le sole che conosciamo.

E d’altra parte, nono­stante gli entu­sia­smi che tutti di volta in volta pro­viamo, mi sem­bra dimo­strata l’impossibilità di dare con­si­stenza e con­ti­nuità all’effervescente vola­ti­lità dei movi­menti nati in rete: cre­scono, esplo­dono, gal­va­niz­zano, si afflo­sciano (quasi sem­pre per esau­ri­mento interno davanti al logo­ra­mento cui sono sot­to­po­sti dal blocco com­patto di un’informazione orwel­liana).
Alla fine della grande fab­brica, quindi dell’esperienza col­let­tiva di lavoro e di orga­niz­za­zione di resi­stenza, è seguito l’isolamento indotto dall’elettronica: i social net­work, spesso a un livello di comu­ni­ca­zione ado­le­scen­ziale, sono una sagra delle fru­stra­zioni e, ancor più, del nar­ci­si­simo di massa.
Non solo. Renzi è una mac­chietta ver­na­co­lare (ma nel vuoto ita­lico peri­co­losa) e stru­mento più o meno con­sa­pe­vole di forze ben più grandi di lui. Però non è che la situa­zione gene­rale del mondo con­senta grandi slanci.
Elenco alla rin­fusa il pano­rama che si sro­tola quo­ti­dia­na­mente davanti a noi e che del resto i let­tori del mani­fe­sto cono­scono meglio di me. Una crisi eco­no­mica che sem­bra non finire mai. Migra­zioni bibli­che di popoli (e con­se­guenti rea­zioni raz­zi­ste nei paesi di approdo, quelli che ci rie­scono). Rina­scita dell’islamismo poli­tico e bel­lico. Ristrut­tu­ra­zione geo­po­li­tica glo­bale con dimi­nu­zione dell’egemonia degli Stati uniti. La Tur­chia, ormai espli­ci­ta­mente anti­de­mo­cra­tica, colonna della Nato (che era nata in fun­zione anti­so­vie­tica e che avrebbe dovuto scio­gliersi dopo il crollo dell’Urss). I paesi dell’area ex Unione Sovie­tica espli­ci­ta­mente anti­de­mo­cra­tici (Unghe­ria in pri­mis), ma favo­riti in Europa.
Intanto Usa e Rus­sia hanno quasi fer­mato il disarmo con­cor­dato a suo tempo, e India, Paki­stan e Cina acce­le­rano le ricer­che per la bomba nucleare. Ue in crisi e appa­ren­te­mente non in grado di rifor­marsi. Gli stati nazio­nali esau­to­rati con tra­sfe­ri­mento di sovra­nità a opa­chi cen­tri di potere finan­zia­rio. Espli­cite accuse di “eccesso di demo­cra­zia” da parte di agen­zie finan­zia­rie ame­ri­cane alle Costi­tu­zioni dei paesi euro­pei medi­ter­ra­nei. Gli stati dell’Ue, pri­vati della sovra­nità mone­ta­ria, suc­cubi della Ger­ma­nia e degli stati suoi satel­liti: Olanda, Bel­gio, paesi nor­dici. E l’incombente cata­strofe eco­lo­gica, forse, con quella uma­ni­ta­ria, la più dram­ma­tica di tutte le cosid­dette “emer­genze” (ma le emer­genze non sono cir­co­stanze cri­ti­che improv­vise e acci­den­tali? E che cosa c’è di improv­viso e acci­den­tale nell’implosione dell’Africa sub­sa­ha­riana e del bacino medi­ter­ra­neo? E il Rap­porto sui limiti dello svi­luppo del Club di Roma non è del 1972?).
Volendo, si potrebbe comun­que con­ti­nuare. Non credo che nella sto­ria del mondo si siano veri­fi­cate spesso con­giun­ture in cui una sola mossa sba­gliata di qual­che sta­ti­sta sprov­ve­duto (e oggi non c’è che l’imbarazzo della scelta) potesse far sal­tare per aria il pia­neta.
Per­so­nal­mente, quella che feri­sce di più, e che più acu­ta­mente morde nell’impotente sus­se­guirsi dei giorni, è la gene­rale per­dita di umanità.
Solo Ber­go­glio ce la ricorda, quo­ti­dia­na­mente, con voce sem­pre più sof­ferta e stanca (ma die­tro, nell’ombra, c’è sem­pre il favo­rito della Curia, il car­di­nal Scola, che si scalda i muscoli sul tapis rou­lant dell’ auspi­cata suc­ces­sione). Non si per­ce­pi­sce più la dimen­sione del tra­gico, non sen­tiamo più la sof­fe­renza degli altri come qual­cosa che ci riguarda per­ché abbiamo per­duto la capa­cità di imme­de­si­marci, di proiettarci-specchiarci nell’altro da sé. Si prova un po’ di pena, quando va bene, ma nulla ci coin­volge nel pro­fondo, nem­meno il pen­siero che quando man­giamo tonno e cipolla siamo can­ni­bali. Chi si ricorda più della giu­sti­zia per le vit­time inno­centi della sto­ria? Chi riper­corre lo sguardo dell’ Ange­lus Novus benjaminiano?
«Sono stato indotto a con­clu­dere che l’American way of life era il genere di vita pro­prio del mondo post-storico, dal momento che l’attuale pre­senza degli Stati Uniti nel Mondo pre­fi­gura il futuro ’eterno pre­sente’ dell’umanità tutta intera. Così il ritorno dell’Uomo all’animalità appa­riva non più come una pos­si­bi­lità ancora di là da venire, bensì come una cer­tezza già pre­sente». Così scri­veva, più di mezzo secolo fa, Ale­xan­dre Kojéve.
Ma se la poli­tica è prassi, vuol dire che è anche un modo di vivere. E qui, secondo me, sta il noc­ciolo duro del nostro pro­blema.
Ricordo uno slo­gan del Ses­san­totto, credo di ori­gine deleu­ziana o laca­niana: «Rivo­lu­zione non è la sod­di­sfa­zione dei biso­gni ma la sti­mo­la­zione del desi­de­rio». Al tempo sem­brava libe­ra­to­rio, anzi era una parola guida, ma poi, per la solita ete­ro­ge­nesi dei fini, si è rove­sciato nel suo con­tra­rio: da lì, per passi suc­ces­sivi, sca­val­lando droga e ter­ro­ri­smo (una gene­ra­zione per­duta), attra­verso gli anni da bere e il ber­lu­sco­ni­smo si arriva ai sel­fie di Renzi, alle coper­tine di made­moi­selle Boschi e alla stu­pe­fa­zione della mini­stra Madia.
In Ita­lia la scon­fitta della poli­tica comin­cia negli anni Set­tanta del secolo scorso, e la rivo­lu­zione del costume, che è quanto resta del Ses­san­totto, è diven­tata ben pre­sto fun­zio­nale al capi­ta­li­smo: Paso­lini l’aveva capito con gran­dis­simo anti­cipo. E pure Ale­xan­der Lan­ger. E su que­sti temi rin­vio a I destini gene­rali di Guido Maz­zoni: se ne è par­lato anche su que­sto gior­nale, forse un po’ troppo sbri­ga­ti­va­mente per i pro­blemi che il libro pone. Certo, sono pagine che si chiu­dono senza pro­spet­tive su un radioso futuro, ma, come dice Simon Crit­chley: «Keep your mind in hell and despair not».
A sini­stra c’è spa­zio, dicevo all’inizio. Può esserci anche vita, se non abbiamo fretta di riper­cor­rere strade senza uscita: e con i par­ti­tini vec­chi e nuovi si andrebbe certo poco lon­tano. Sui tempi brevi dovun­que si può, chiun­que è in grado, si metta sab­bia negli ingra­naggi, gufiamo rosi­chiamo boi­cot­tiamo intral­ciamo, sgam­bet­tiamo anche.
Sui tempi lun­ghi, senza pre­ten­dere di seguire le tracce della vec­chia talpa, cer­chiamo di aprire il più pos­si­bile nuovi spazi “pub­blici” nelle realtà locali, col­la­bo­ra­zioni di pubblico-privato su pro­getti ben defi­niti, senza inse­gne di par­tito, senza aggi­rarci in un gioco di spec­chi che riflet­tono sem­pre la nostra imma­gine. Iscri­viamo segnali di resi­stenza, soprat­tutto morale, nella trama del quo­ti­diano. Cer­chiamo di rico­sti­tuire e difen­dere un’immagine dell’uomo, ripri­sti­niamo il “noi” dell’azione, ripren­dia­moci il tempo ridando al tempo la sua tem­po­ra­lità, cioè un pas­sato e un futuro, non solo un immo­bile, tra­gico pre­sente. In fin dei conti nei tanti tempi bui dell’umanità son sem­pre stati i pic­coli gruppi – mino­ranze intel­let­tuali, monaci, folli, buca­nieri, anar­chici, tea­tranti – a lan­ciare segnali nell’oscurità.
Come diceva Gustav Mahler: «La tra­di­zione è custo­dire il fuoco, non ado­rare le ceneri».

Fonte: il manifesto

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.