
di Gianandrea Piccioli
Qualche giorno fa, in un articolo sulla
Germania, Marco Bascetta ha scritto che «il socialismo europeo non
è fallito perché si è convertito al neoliberismo, ma si
è convertito al neoliberismo perché era fallito. Perché il
modello di stato, di welfare, di lavoro, di identità singolari
e collettive che esso proponeva non corrispondevano più alle
aspirazioni di soggettività sociali profondamente trasformate.
Se non si parte da questo presupposto la partita con le promesse,
sia pur disattese, del neoliberismo è irrimediabilmente
perduta». L’Andersen de I vestiti nuovi dell’Imperatore non avrebbe
potuto dir meglio.
A sinistra, oggi, in Italia e nel mondo, non c’è solo dello
spazio, ci sono addirittura steppe a perdita d’occhio. Ma
occorrerebbe sapere come abitarle e coltivarle e non si può certo
farlo inalberando annunci tipo «Qui non si vende e non si beve Coca
Cola», come si leggeva su uno striscione a un recente festival di
Rifondazione a Savona… E nemmeno illudendosi che sia possibile
riformare il sistema dall’interno, come avverte giustamente
Bertinotti, alambiccando con vecchie alchimie di scissione
e ricomposizione delle residue forze esistenti. Né, come ha più
volte ribadito Marco Revelli, cercando di far nascere nuove strutture
politiche ormai impossibili nelle forme novecentesche, che
peraltro sono ancora le sole che conosciamo.
E d’altra parte, nonostante gli entusiasmi che tutti di volta in
volta proviamo, mi sembra dimostrata l’impossibilità di dare
consistenza e continuità all’effervescente volatilità dei
movimenti nati in rete: crescono, esplodono, galvanizzano, si
afflosciano (quasi sempre per esaurimento interno davanti al
logoramento cui sono sottoposti dal blocco compatto di
un’informazione orwelliana).
Alla fine della grande fabbrica, quindi dell’esperienza collettiva di lavoro e di organizzazione di resistenza, è seguito l’isolamento indotto dall’elettronica: i social network, spesso a un livello di comunicazione adolescenziale, sono una sagra delle frustrazioni e, ancor più, del narcisisimo di massa.
Alla fine della grande fabbrica, quindi dell’esperienza collettiva di lavoro e di organizzazione di resistenza, è seguito l’isolamento indotto dall’elettronica: i social network, spesso a un livello di comunicazione adolescenziale, sono una sagra delle frustrazioni e, ancor più, del narcisisimo di massa.
Non solo. Renzi è una macchietta vernacolare (ma nel vuoto
italico pericolosa) e strumento più o meno consapevole di forze
ben più grandi di lui. Però non è che la situazione generale del mondo
consenta grandi slanci.
Elenco alla rinfusa il panorama che si srotola quotidianamente davanti a noi e che del resto i lettori del manifesto conoscono meglio di me. Una crisi economica che sembra non finire mai. Migrazioni bibliche di popoli (e conseguenti reazioni razziste nei paesi di approdo, quelli che ci riescono). Rinascita dell’islamismo politico e bellico. Ristrutturazione geopolitica globale con diminuzione dell’egemonia degli Stati uniti. La Turchia, ormai esplicitamente antidemocratica, colonna della Nato (che era nata in funzione antisovietica e che avrebbe dovuto sciogliersi dopo il crollo dell’Urss). I paesi dell’area ex Unione Sovietica esplicitamente antidemocratici (Ungheria in primis), ma favoriti in Europa.
Elenco alla rinfusa il panorama che si srotola quotidianamente davanti a noi e che del resto i lettori del manifesto conoscono meglio di me. Una crisi economica che sembra non finire mai. Migrazioni bibliche di popoli (e conseguenti reazioni razziste nei paesi di approdo, quelli che ci riescono). Rinascita dell’islamismo politico e bellico. Ristrutturazione geopolitica globale con diminuzione dell’egemonia degli Stati uniti. La Turchia, ormai esplicitamente antidemocratica, colonna della Nato (che era nata in funzione antisovietica e che avrebbe dovuto sciogliersi dopo il crollo dell’Urss). I paesi dell’area ex Unione Sovietica esplicitamente antidemocratici (Ungheria in primis), ma favoriti in Europa.
Intanto Usa e Russia hanno quasi fermato il disarmo concordato
a suo tempo, e India, Pakistan e Cina accelerano le ricerche per la
bomba nucleare. Ue in crisi e apparentemente non in grado di
riformarsi. Gli stati nazionali esautorati con trasferimento di
sovranità a opachi centri di potere finanziario. Esplicite accuse
di “eccesso di democrazia” da parte di agenzie finanziarie
americane alle Costituzioni dei paesi europei mediterranei. Gli
stati dell’Ue, privati della sovranità monetaria, succubi della
Germania e degli stati suoi satelliti: Olanda, Belgio, paesi
nordici. E l’incombente catastrofe ecologica, forse, con quella
umanitaria, la più drammatica di tutte le cosiddette “emergenze”
(ma le emergenze non sono circostanze critiche improvvise
e accidentali? E che cosa c’è di improvviso e accidentale
nell’implosione dell’Africa subsahariana e del bacino
mediterraneo? E il Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di
Roma non è del 1972?).
Volendo, si potrebbe comunque continuare. Non credo che nella
storia del mondo si siano verificate spesso congiunture in cui una
sola mossa sbagliata di qualche statista sprovveduto (e oggi non
c’è che l’imbarazzo della scelta) potesse far saltare per aria il
pianeta.
Personalmente, quella che ferisce di più, e che più acutamente morde nell’impotente susseguirsi dei giorni, è la generale perdita di umanità.
Personalmente, quella che ferisce di più, e che più acutamente morde nell’impotente susseguirsi dei giorni, è la generale perdita di umanità.
Solo Bergoglio ce la ricorda, quotidianamente, con voce sempre
più sofferta e stanca (ma dietro, nell’ombra, c’è sempre il
favorito della Curia, il cardinal Scola, che si scalda i muscoli sul
tapis roulant dell’ auspicata successione). Non si percepisce più
la dimensione del tragico, non sentiamo più la sofferenza degli
altri come qualcosa che ci riguarda perché abbiamo perduto la
capacità di immedesimarci, di proiettarci-specchiarci nell’altro da
sé. Si prova un po’ di pena, quando va bene, ma nulla ci coinvolge nel
profondo, nemmeno il pensiero che quando mangiamo tonno e cipolla
siamo cannibali. Chi si ricorda più della giustizia per le vittime
innocenti della storia? Chi ripercorre lo sguardo dell’ Angelus
Novus benjaminiano?
«Sono stato indotto a concludere che l’American way of life era il
genere di vita proprio del mondo post-storico, dal momento che
l’attuale presenza degli Stati Uniti nel Mondo prefigura il futuro
’eterno presente’ dell’umanità tutta intera. Così il ritorno dell’Uomo
all’animalità appariva non più come una possibilità ancora di là da
venire, bensì come una certezza già presente». Così scriveva, più di
mezzo secolo fa, Alexandre Kojéve.
Ma se la politica è prassi, vuol dire che è anche un modo di vivere.
E qui, secondo me, sta il nocciolo duro del nostro problema.
Ricordo uno slogan del Sessantotto, credo di origine deleuziana o lacaniana: «Rivoluzione non è la soddisfazione dei bisogni ma la stimolazione del desiderio». Al tempo sembrava liberatorio, anzi era una parola guida, ma poi, per la solita eterogenesi dei fini, si è rovesciato nel suo contrario: da lì, per passi successivi, scavallando droga e terrorismo (una generazione perduta), attraverso gli anni da bere e il berlusconismo si arriva ai selfie di Renzi, alle copertine di mademoiselle Boschi e alla stupefazione della ministra Madia.
Ricordo uno slogan del Sessantotto, credo di origine deleuziana o lacaniana: «Rivoluzione non è la soddisfazione dei bisogni ma la stimolazione del desiderio». Al tempo sembrava liberatorio, anzi era una parola guida, ma poi, per la solita eterogenesi dei fini, si è rovesciato nel suo contrario: da lì, per passi successivi, scavallando droga e terrorismo (una generazione perduta), attraverso gli anni da bere e il berlusconismo si arriva ai selfie di Renzi, alle copertine di mademoiselle Boschi e alla stupefazione della ministra Madia.
In Italia la sconfitta della politica comincia negli anni
Settanta del secolo scorso, e la rivoluzione del costume, che
è quanto resta del Sessantotto, è diventata ben presto funzionale
al capitalismo: Pasolini l’aveva capito con grandissimo anticipo.
E pure Alexander Langer. E su questi temi rinvio a I destini
generali di Guido Mazzoni: se ne è parlato anche su questo
giornale, forse un po’ troppo sbrigativamente per i problemi che
il libro pone. Certo, sono pagine che si chiudono senza prospettive
su un radioso futuro, ma, come dice Simon Critchley: «Keep your mind in
hell and despair not».
A sinistra c’è spazio, dicevo all’inizio. Può esserci anche vita,
se non abbiamo fretta di ripercorrere strade senza uscita: e con
i partitini vecchi e nuovi si andrebbe certo poco lontano. Sui tempi
brevi dovunque si può, chiunque è in grado, si metta sabbia negli
ingranaggi, gufiamo rosichiamo boicottiamo intralciamo,
sgambettiamo anche.
Sui tempi lunghi, senza pretendere di seguire le tracce della vecchia talpa, cerchiamo di aprire il più possibile nuovi spazi “pubblici” nelle realtà locali, collaborazioni di pubblico-privato su progetti ben definiti, senza insegne di partito, senza aggirarci in un gioco di specchi che riflettono sempre la nostra immagine. Iscriviamo segnali di resistenza, soprattutto morale, nella trama del quotidiano. Cerchiamo di ricostituire e difendere un’immagine dell’uomo, ripristiniamo il “noi” dell’azione, riprendiamoci il tempo ridando al tempo la sua temporalità, cioè un passato e un futuro, non solo un immobile, tragico presente. In fin dei conti nei tanti tempi bui dell’umanità son sempre stati i piccoli gruppi – minoranze intellettuali, monaci, folli, bucanieri, anarchici, teatranti – a lanciare segnali nell’oscurità.
Come diceva Gustav Mahler: «La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri».
Sui tempi lunghi, senza pretendere di seguire le tracce della vecchia talpa, cerchiamo di aprire il più possibile nuovi spazi “pubblici” nelle realtà locali, collaborazioni di pubblico-privato su progetti ben definiti, senza insegne di partito, senza aggirarci in un gioco di specchi che riflettono sempre la nostra immagine. Iscriviamo segnali di resistenza, soprattutto morale, nella trama del quotidiano. Cerchiamo di ricostituire e difendere un’immagine dell’uomo, ripristiniamo il “noi” dell’azione, riprendiamoci il tempo ridando al tempo la sua temporalità, cioè un passato e un futuro, non solo un immobile, tragico presente. In fin dei conti nei tanti tempi bui dell’umanità son sempre stati i piccoli gruppi – minoranze intellettuali, monaci, folli, bucanieri, anarchici, teatranti – a lanciare segnali nell’oscurità.
Come diceva Gustav Mahler: «La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri».
Fonte: il manifesto
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