La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 13 agosto 2015

Le elezioni sono un miraggio. Purtroppo

di Michele Prospero
Chi ha paura del voto anti­ci­pato? I luo­go­te­nenti di Renzi, che agi­tano le urne come spau­rac­chio, sanno bene di avere in mano una pistola sca­rica. Ven­dono fumo e cer­cano di spa­ven­tare i sena­tori più cre­du­loni con lo spet­tro di un ritorno a casa. Che non ci sarà, qua­lun­que sia l’esito delle sca­ra­mucce sul destino di palazzo Madama.
Eppure, affi­darsi alle schede sarebbe il rime­dio a una con­di­zione di palese ano­mia demo­cra­tica. Con un par­la­mento che non cor­ri­sponde agli orien­ta­menti elet­to­rali del 2013, il ricorso alle urne sarebbe un fisio­lo­gico momento di rica­rica del sistema. Ma in Ita­lia vige uno strano con­cetto di respon­sa­bi­lità: alla prima emer­genza, biso­gna sospen­dere la demo­cra­zia e pro­get­tare alchi­mie par­la­men­tari biz­zarre, che spez­zano equi­li­bri, rom­pono pro­ce­dure e garan­zie.
Insomma: la vera emer­genza, è l’invenzione di governi di emer­genza, che tra­vol­gono gli argini del regime par­la­men­tare, impon­gono degli strappi costi­tu­zio­nali costosi. La parola agli elet­tori sarebbe un segnale del risve­glio di una mini­male sen­si­bi­lità demo­cra­tica. Par­titi che non esi­stono più, for­ma­zioni nuove che non si sono mai cimen­tate con il con­senso, cam­bia­menti interni ai par­titi che hanno stra­volto il loro ori­gi­na­rio pro­gramma elet­to­rale, oltre 200 par­la­men­tari che hanno cam­biato gruppo: indi­ca­tori evi­denti che la durata arti­fi­ciale della legi­sla­tura è una sfida illo­gica rispetto alle esi­genze siste­mi­che di un ripri­stino della nor­ma­lità dell’indirizzo poli­tico.
Anche la dichia­rata ille­git­ti­mità della for­mula elet­to­rale, con la quale il par­la­mento è stato desi­gnato, avrebbe dovuto spin­gere la classe poli­tica al varo di una tec­nica com­pa­ti­bile con il dise­gno costi­tu­zio­nale, per andare pre­sto al voto. Nulla di que­sto è acca­duto. E la sola carta valida, per il soste­gno illi­mi­tato all’esecutivo, rimane la pro­messa della durata ad oltranza della legi­sla­tura. Accet­tano tutto i depu­tati, pur di resi­stere qual­che giorno in più nella fun­zione. In Ita­lia non c’è biso­gno della clau­sola costi­tu­zio­nale tede­sca della sfi­du­cia costrut­tiva per assi­cu­rare gover­na­bi­lità e durata alla legi­sla­tura: gli ele­vati emo­lu­menti ne sono un effi­cace sur­ro­gato.
Eppure, la pro­roga mec­ca­nica di una legi­sla­tura nata nel segno di un tri­po­la­ri­smo che con­dan­nava all’ingovernabilità, con quo­ti­diane solu­zioni di forza e ope­ra­zioni di abi­tuale tra­sfor­mi­smo, non fa bene al sistema poli­tico. In Alge­ria, quando vin­sero i movi­menti isla­mici radi­cali, si ritenne oppor­tuno sospen­dere l’esito del voto, con rimedi coer­ci­tivi che non hanno però sal­vato il regime. E hanno anzi ali­men­tato il ter­reno di col­tura del ter­ro­ri­smo in tutta l’area. Con­tro i vin­ci­tori del 2013, il M5S, sono state con­dotte pra­ti­che cie­che di con­te­ni­mento e immu­niz­za­zione che non hanno certo cica­triz­zato la piaga.
Che il secondo par­tito, il Pd, appro­fitti dei truf­fal­dini numeri a lui favo­re­voli in aula per scri­vere una legge elet­to­rale con­ve­niente al suo lea­der del momento, e per met­tere fuori gioco il primo par­tito, il M5S, signi­fica sol­tanto caval­care le stesse illu­sioni dei poli­tici alge­rini. Un sistema che si difende dai bar­bari con ritro­vati illi­be­rali, non è desti­nato a durare e a vin­cere la bat­ta­glia. Non esi­stono sur­ro­gati tec­nici alla poli­tica. E alla fine le ten­denze reali, che si inten­de­vano sof­fo­care con prove di forza, tro­ve­ranno i canali per riaf­fio­rare e far sal­tare il qua­dro.
Il timore del voto non fa che com­pri­mere un sistema che esplo­derà in forme ancora più viru­lente alla prima occa­sione. La scelta di bran­dire le urne, da parte di un governo abu­sivo per­ché frutto di numeri par­la­men­tari alte­rati, è di per sé poco cre­di­bile. E pur­troppo, nep­pure in caso di boc­cia­tura delle riforme costi­tu­zio­nali rela­tive al senato, si andrà il voto, per sanare un defi­cit di rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica dive­nuto inso­ste­ni­bile. Soprat­tutto in caso di sgon­fia­mento della grande riforma, le urne si allon­ta­nano. Il pre­mier non sa cosa sia il governo di una società com­plessa, annusa però che non gli con­viene andare al voto dopo lo schiaffo di una scon­fitta sulle riforme.
Alle urne si andrebbe con il mec­ca­ni­smo pro­por­zio­nale. E quindi per il Pd si pro­fila un disa­stro: circa 150 seggi in meno di quelli che rac­co­glie ora. E poi con il pastic­cio dell’Italicum impo­sto (con voto di fidu­cia e aule deserte) per la camera (mec­ca­ni­smo ultra­mag­gio­ri­ta­rio), e del Con­sul­tel­lum rima­sto per il senato (for­mula pro­por­zio­nale), il governo met­te­rebbe in serio imba­razzo il Colle per aver fir­mato una legge irra­zio­nale, sulla base di un (solo) ipo­te­tico supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio. Il voto a riforme incom­piute, lasce­rebbe «sco­perto» il Qui­ri­nale, che invece come potere neu­tro andrebbe pro­tetto dall’imputazione di respon­sa­bi­lità poli­tica.
I sena­tori ribelli non rischiano nulla. Il solo che vacilla è Renzi. La sua depo­si­zione, peral­tro, non sarebbe un danno in una demo­cra­zia ritro­vata: la sua con­dotta dilet­tan­te­sca stra­volge gli equi­li­bri isti­tu­zio­nali, la sua irri­me­dia­bile carenza di lea­der­ship lo costringe a infi­nite leggi delega e a stra­boc­che­voli voti di fidu­cia. Il lea­der tri­vel­la­tore non ha un’idea di svi­luppo e però ha un’inconfondibile anima sociale: che non è quella del lavoro, ma della finanza e del capi­tale.
I depu­tati non avranno mai la dignità di libe­rare le isti­tu­zioni da un inter­prete privo di auto­re­vo­lezza e di resti­tuire alla movida toscana un abile gio­ca­tore di cal­cio balilla. E quindi si andrà avanti ancora per un po’ nel gran ballo masche­rato della fin­zione. La mino­ranza Pd, con le bizze, con­qui­sta un po’ di visi­bi­lità, ma ha scelto una bat­ta­glia, quella sulla elet­ti­vità del senato, che non col­pi­sce il ber­sa­glio grosso delle riforme ren­ziane. Che è l’Italicum, auten­tica pro­vo­ca­zione in una demo­cra­zia d’occidente.
Un senato elet­tivo, ma senza potere di vita e di morte sui governi, non smonta i piani dell’esecutivo. Le riforme ave­vano un solo obiet­tivo: evi­tare l’incertezza del pas­sag­gio al senato per la fidu­cia. E que­sta sem­pli­fi­ca­zione, con la pre­vi­sione di un’investitura popo­lare diretta del capo della lista vin­cente, è stata incas­sata. I don Abbon­dio della mino­ranza non andranno fino in fondo nell’imboscata. E Renzi evi­terà lo scon­tro aperto per­ché l’elettività del senato non è per lui una que­stione diri­mente. Teme solo di per­dere tempo rispetto al calen­da­rio fis­sato.
Costruire un’alternativa a que­sta deca­denza del poli­tico che arranca nella palude di una legi­sla­tura che uccide ogni deci­sione e si tra­scina nella noia della comu­ni­ca­zione e di accordi con Ver­dini, è la sola cosa ragio­ne­vole. Se da sini­stra non si dise­gna un’opposizione effi­cace a Renzi, come sim­bolo estremo della dis­so­lu­zione della poli­tica in chiac­chiera che fa da schermo a inte­ressi forti, sarà una sol­le­va­zione di ete­ro­ge­nee for­ma­zioni anti­si­stema ad archi­viare un popu­li­smo mite con un incon­te­ni­bile popu­li­smo a tinta forte.

Fonte: il manifesto

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