La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 13 agosto 2015

Partecipazione, una sfida cruciale per il lavoro

di Salvo Leonardi
Se mai vi è stata un’epoca in cui i temi della democrazia e della partecipazione sono apparsi quanto mai cruciali e ineludibili, ad ogni livello e ambito, questa è la nostra. E del resto, mai come oggi, la loro evocazione ha goduto di una fortuna apparentemente tanto universale. Ciò nondimeno, mai come da molto tempo a questa parte, il loro conseguimento sembra essere divenuto tanto arduo e sfuggente, esposto com’è al pericolo di derive oligarchiche e tecnocratiche.
Dal costituzionalismo sociale in poi, nel corso del Novecento, il nesso fra democrazia politica e democrazia economia si è spinto in Europa sino a prefigurare uno scenario in base al quale o la democrazia si evolveva e inverava anche nella sfera economica e industriale o tale non avrebbe potuto più pretendere di definirsi. La storia dello stato sociale di diritto è stata essenzialmente questo progetto: un cittadinanza non circoscritta alla sfera liberale, civile e politica, ma anche a quella industriale e sociale.
La sensazione diffusa è che si sia oggi in presenza di una pesante involuzione “post-democratica” che non risparmia certo i sistemi economici e delle relazioni industriali. Anzi, è proprio a partire da essi che, sia pure in misura non esclusiva, si producono alcune delle criticità che più negativamente si riverberano sulle istituzioni politiche e sociali della democrazia. 
Come già per la democrazia politica, anche per quella industriale ed economica dovremmo saper distinguere fra la loro dimensione ideale e quella reale (Sartori). Nel primo senso, il concetto di democrazia industriale riguarda le decisioni sulla produzione e sull’organizzazione del lavoro, laddove perdemocrazia economica si intende una certa distribuzione dei beni sociali; dei redditi, ma anche dei poteri e delle opportunità (Macpherson). Fra le forme della democrazia economica dovrebbero innanzitutto iscriversi, a) a livello macro, le politiche di programmazione e partecipazione pubblica, oggi sconsideratamente rimosse; b) a livello micro, la partecipazione dei lavoratori ai profitti, agli utili, alle azioni, oggi molto popolari nel mainstream narrativo delle nuove relazioni di lavoro.
Forme di azionariato dei dipendenti si sono via via diffuse in Europa (specie in Francia, in Irlanda, nel Regno Unito; raro in Italia), specie a seguito dei processi di privatizzazione. La loro finalità consiste nel favorire forme di ricapitalizzazione, accrescendo al contempo il vincolo di appartenenza dei dipendenti all’andamento dell’impresa. Un dato che ha sempre ingenerato una diffusa diffidenza nei movimenti sindacali, poiché il dipendente-azionista potrebbe essere indotto a modificare significativamente la sua auto-percezione, spingendosi a una crescente identificazione con l’obiettivo di massimizzare, a prescindere, il valore delle sue azioni. Ben diverso, per filosofia e strumentazione, un progetto di democrazia economica come quello adottato nella Svezia socialdemocratica degli anni settanta-ottanta (Piano Meidner), in cui il movimento operaio mise in agenda un inedito piano di graduale socializzazione del capitale attraverso il trasferimento di quote di super-profitto a fondi sindacali e per finalità eminentemente occupazionali e sociali. 
Fra le forme della democrazia industriale si considerano invece le diverse forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese tramite organismi e procedure che possono essere istituiti a livello dell’impresa societaria, o delle sue articolazioni organizzative, per imporre decisioni comuni su materie ricomprese nel potere di gestione dell’impresa, assegnando a tal fine una specifica rilevanza al punto di vista dei lavoratori (D’Antona). In un processo scalare di intensità e potere: informazione, consultazione, codeterminazione, cogestione. Le norme e la giurisprudenza europea, che riconoscono questi diritti come fundamental rights, hanno fornito riferimenti importanti, favorendo almeno su questi temi un qualche grado di convergenza europea.
La codeterminazione costituisce il livello più avanzato. La sua formalizzazione tende a escludere, o a limitare temporaneamente, l'esercizio unilaterale dei poteri. Negli ordinamenti in cui vige questo sistema – Germania, Austria, Svezia – il diritto di sciopero risulta, conseguentemente, fortemente proceduralizzato. La cogestione sviluppa ulteriormente i tratti di questo scambio politico. La normativa comunitaria identifica la “partecipazione” soltanto con questa modalità, relegando al rango di “coinvolgimento” tutte le altre forme. Rispetto agli altri modelli, in cui la partecipazione rimane di norma esterna agli organi societari dell'impresa, la cogestione prevede la presenza interna dei rappresentanti dei lavoratori in seno agli organi decisionali dell'impresa. In essa rilevano molto: a) il modello di struttura della società di capitali: monistico(Italia) o duale (Germania), con gestione separata dalla vigilanza; b) la misura della partecipazione dei lavoratori rispetto agli azionisti: minoritaria senza diritto di voto; minoritaria con diritto di voto; quasi-paritetica; paritetica.
Forme di partecipazione societaria esistono in una ventina di Stati membri dell’UE su 28. L’Italia, a dispetto di un articolo della Costituzione che la prevede (art. 46) è fra quelli che, di fatto, non ce l’hanno. Il sistema più strutturato e noto è certamente quello tedesco della Mitbestimmung, dualistico, che ha assunto tre forme: cogestione paritetica per l’industria carbo-siderurgica (1951); quasi-paritetica nelle imprese con più di 2000 dipendenti (1976); nella misura di un terzo, nelle imprese con oltre 500 dipendenti (1952). La composizione della rappresentanza e il ruolo decisivo del presidente, in ultima istanza, hanno garantito anche formalmente il diritto costituzionale di proprietà.
L'efficacia di qualunque condizionamento procedurale imposto all'imprenditore dai diritti sindacali di partecipazione/codeterminazione dipenderà, oltre che dai rapporti di forza che si determinano fra le parti in una certa fase storica, dai seguenti ordini di fattori: a) le classi di decisioni (strategiche, gestionali, esecutive); b) il livello decisionale (reparto, azienda, società); c) la tempestività; d) il grado di formalizzazione (ex contractu; ex lege), con cui i diritti in questione saranno resi certi, regolari, preventivi, e giustiziabili (le sanzioni).
Ragionando per ideal-tipi, si ha un modello forte di partecipazione quando vengono stabiliti per legge diritti di codeterminazione o cogestione, in grado di incidere a livello societario e sulla classe decisionale strategica. Un modello debole, in caso di una partecipazione poco formalizzata ed esigibile, a livelli e su classi decisionali di rilevanza non strategica. Il modello nordico sarebbe da considerare un modello forte; quello italiano (o anche inglese) un modello debole. 
Oggi, come e più di ieri, l'impresa e il mercato costituiscono luoghi tendenzialmente inadeguati a garantire una reale, effettiva partecipazione dei lavoratori ai processi che governano la produzione e la distribuzione della ricchezza. Quello che dobbiamo chiederci è allora: cosa e quanto di questi antichi e nobili obiettivi della politica moderna sono ancora verosimilmente perseguibili e praticabili? Se, come annotava Norberto Bobbio in un suo celebre saggio, la democrazia politica contemporanea non ha saputo mantenere alcune delle sue storiche promesse, che cosa possiamo e dobbiamo dire riguardo alle promesse di cui per decenni si è ammantato il discorso pubblico e sindacale sui temi della democrazia economica e industriale? Consapevoli che la realtà non potrà mai corrispondere all’ideale, è possibile aspirare quanto meno ad una democrazia industriale decente?
Ora, se per coinvolgimento o partecipazione intendiamo ogni meccanismo grazie al quale i rappresentati dei lavoratori possono esercitare un’influenza sulle decisioni che li riguardano, allora questo potere di influenza conosce oggi – e specialmente in Italia – un grave indebolimento. Ciò per almeno quattro ordini di fattori: la globalizzazione, (delocalizzazioni, ruolo centrale delle multinazionali); lo shortermism del capitalismo finanziario; la crisi della rappresentanza politica e sociale (calo della sindacalizzazione e della contrattazione collettiva); la svalorizzazione del lavoro (precarietà, nuove disuguaglianze e povertà).
Non solo le singole imprese, ma anche gli Stati nazionali si trovano oggi a operare in contesti di interdipendenza in cui è precluso un esercizio autonomo della sovranità e del potere politico rispetto ai mercati. La possibilità di fare oggi delle leggi nazionali dotate di una significativa capacità di incidere sulle scelte strategiche delle imprese sconta un’asimmetria di poteri fra capitale e lavoro senza precedenti, a sfavore del secondo. Riforme e progetti radicali come quelli varati negli anni settanta sarebbero inconcepibili nel contesto attuale della competizione globale. Quelle riforme furono il riflesso del clima storico e politico in cui furono varate. Dei rapporti di potere, allora molto più bilanciati, fra capitale e lavoro.
In tutti questi casi, il padronato non accettò mai volontariamente queste riforme. Le subì e cercò sempre di osteggiarle, boicottarle, sabotarle. La codeterminazione paritetica del 1951, in Germania, fu imposta dalle truppe di occupazione britannica, laddove la legge del ’76 fu il frutto di una stagione che ovunque, in Occidente, registrava il punto più alto del potere sindacale fino ad allora mai raggiunto. La stessa cosa si può dire per la legge svedese sulla codeterminazione, del ’77, o quella sui fondi sindacali di investimento. Anche la legislazione francese su questi temi porta date analoghe e ugualmente sintomatiche: il 1982, in concomitanza della prima vittoria elettorale social-comunista del dopoguerra, sulla base di un vasto programma di nazionalizzazioni e democratizzazione delle relazioni industriali.
Chi, per un motivo o un altro, non fece leggi così in quelle stagioni, ben difficilmente potrebbe riuscirvi oggi. L’Italia, per esempio, privilegiò un canale conflittuale e contrattuale che per un paio di decenni offrì esiti non troppo dissimili – nella sostanza – da quelli raggiunti nei sistemi della codeterminazione. Oggi però il nostro volontarismo, divenuto pressoché unico nel suo genere, mostra la corda e non vi è dubbio che nella crisi di questi anni, i nostri lavoratori e sindacati si siano trovati più sguarniti dei loro colleghi nord-europei.
Esiste un modo per arrestare e, meglio ancora, rovesciare questa tendenza alla marginalizzazione reale, se non formale, del potere sindacale? Il problema è italiano, certo, ma non solo. La legislazione europea da un lato e la comparazione normativa dall’altra possono indurre a un vero mutamento di clima, a cui concorrono anche i mutamenti del paradigma socio-tecnico, molto più attento che un tempo al coinvolgimento dei lavoratori. I nuovi imperativi della qualità e del Wcm dischiudono nuove opportunità partecipative, se non sul terreno delle grandi scelte strategiche, di certo su quelle, anch’esse importanti, della qualità e dell’organizzazione del lavoro. Le aziende, fermamente contrarie a qualunque intervento legislativo su queste materie, tendono a privilegiare forme di coinvolgimento informale, usandole non di rado in chiave antisindacale. 
Il fatto che i lavoratori siano considerati una risorsa, e non un mero vincolo per le aziende, offre al sindacato una grande occasione per rinegoziare i termini individuali e collettivi del rapporto di lavoro. Alcuni recenti progetti normativi (Treu-Nerozzi; Rusciano-Zoppoli) paiono andare in questa direzione – e la Costituzione ci dà più di una sponda – ma occorrerebbe una forte determinazione politica di cui al momento non cogliamo i segni. In ogni caso, è da qui che si può riaprire il gioco delle relazioni industriali, restituendo al sindacato un ruolo in grado di ridurre, quanto meno parzialmente, il divario di potere che, a suo danno, si è prodotto in questi anni.

Fonte: rassegna.it

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