La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 12 agosto 2015

Cina, la svalutazione e la fine del sogno

di Simone Pieranni
La Cina ha sva­lu­tato la sua moneta, lo yuan (Rmb), all’interno di una misura della Banca cen­trale a suo modo sto­rica. La sva­lu­ta­zione, la mag­giore ope­ra­zione degli ultimi vent’anni, porta la quo­ta­zione uffi­ciale della moneta nei con­fronti del dol­laro a 6.2298 (-1,9%).
Pechino ha agito per aumen­tare le sue espor­ta­zioni, pre­oc­cu­pando non poco chi vedeva nella Cina una futura «domanda» nel mer­cato inter­na­zio­nale, anzi­ché una nuova «offerta».
La stra­te­gia segnala anche un limite del «sogno cinese» lan­ciato nel 2012 da Xi Jin­ping e quel ten­ta­tivo, quasi un’alchimia date le carat­te­ri­sti­che sociali e cul­tu­rali del paese, di tra­sfor­mare la Cina in una moderna eco­no­mia basata sull’innovazione e trai­nata dal mer­cato interno, anzi­ché dalle esportazioni.
Pur nell’ambito di una scelta che è da con­si­de­rarsi di «sva­lu­ta­zione com­pe­ti­tiva», date anche le recenti deci­sioni di altri paesi nella regione (Austra­lia e Corea), l’atto della Banca cen­trale segnala una prima bat­tuta d’arresto di quel pas­sag­gio epo­cale che doveva por­tare dal «Made in China» al «Desi­gned in China».
Della deci­sione pechi­nese hanno sof­ferto in prima bat­tuta le borse euro­pee: le più pre­oc­cu­pate sono apparse le aziende fran­cesi e tede­sche, che temono una ripresa a loro sca­pito delle espor­ta­zioni di Pechino, men­tre è arri­vato anche il tonfo dei grandi mar­chi dei beni di lusso ter­ro­riz­zati dal calo del potere d’acquisto dei cinesi.
La ragione prin­ci­pale della deci­sione della Banca cen­trale è quella di favo­rire le espor­ta­zioni cinesi a fronte del ral­len­ta­mento eco­no­mico (7%). Nelle scorse set­ti­mane sono stati pub­bli­cati alcuni dati eco­no­mici: Pechino ha dovuto fron­teg­giare un crollo dell’8.3% delle espor­ta­zioni nel mese di luglio, col­pite dalla debole domanda pro­ve­niente da Europa, Stati uniti e Giap­pone, men­tre i prezzi della pro­du­zione sono al quarto anno di deflazione.
Altro dato macro: la deci­sione delle auto­rità di Pechino è arri­vata in un momento deli­cato nella regione, per­ché anche le monete di Austra­lia, Corea del Sud e Sin­ga­pore si sono deprez­zate. Se nell’area dun­que incom­bono pro­ble­ma­ti­che legate alle con­tese ter­ri­to­riali, appare ormai chiaro (con il Tpp all’orizzonte) anche uno scon­tro mone­ta­rio non da poco, nell’ambito di ope­ra­zioni, come quella cinese, che potreb­bero essere defi­ni­tive di «sva­lu­ta­zione competitiva».
Ma la scelta della Banca cen­trale cinese potrebbe indi­care anche un segnale poli­tico: il «sogno cinese» del Pre­si­dente Xi Jin­ping, che voleva un modello trai­nato dal mer­cato interno, per ora stenta. E Pechino torna alle vec­chie pra­ti­che, per altro non nuove nean­che per il mondo occidentale.
Le prime rea­zioni hanno una let­tura comune: Pechino ha sva­lu­tato la pro­pria moneta per due obiet­tivi pri­mari. In primo luogo per favo­rire le sue espor­ta­zioni e recu­pe­rare il ter­reno perso negli ultimi anni a causa della crisi che ha col­pito l’Occidente.
Si tratta quindi di ridare ossi­geno alle tante aziende che pro­du­cono il «made in China»; un passo indie­tro, un ritorno al soste­gno alla «fab­brica del mondo». In secondo luogo la mossa sarebbe stata richie­sta da un ten­ta­tivo in corsa da tempo, ovvero inclu­dere lo yuan, come ha scritto Reu­ters «in un paniere di valute di riserva cono­sciuto come Diritti Spe­ciali di Pre­lievo, che viene uti­liz­zato dal Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale per pre­stare denaro ai mutua­tari sovrani».
L’idea sarebbe quella di creare «una moneta più libera ed acces­si­bile», pre­re­qui­siti per otte­nere l’approvazione come valuta di riserva dal Fmi, che pure negli ultimi tempi ha fre­nato al riguardo (se ne par­lerà nel 2016). Pechino si affida dun­que al trucco cui sono ricorsi molti paesi occi­den­tali, senza che nes­suno abbia gri­dato allo scan­dalo. Ma natu­ral­mente è inte­res­sante pro­vare a capire che tipo di segnali manda, almeno inter­na­mente, una deci­sione del genere.
L’operazione oltre ad aver gio­cato un brutto tiro alle borse inter­na­zio­nali, potrebbe essere il sin­tomo di un pro­blema poli­tico e di gio­chi di potere in atto a Pechino.
Non a caso a per­dere di più ieri sono stati i titoli del lusso. È evi­dente che dalla Cina oggi ci si aspetta domanda, non l’offerta. E se la sva­lu­ta­zione favo­ri­sce lo yuan, inde­bo­li­sce la pos­si­bi­lità dei con­su­ma­tori cinesi (oltre al rischio di un’ingente fuga di capitali).
Ma c’è il nodo politico.
La deci­sione della Banca cen­trale dimo­stra i limiti del «sogno cinese» di Xi Jin­ping. Il «sistema Cina» non sem­bra in grado — quanto meno fino ad ora — di pro­durre quei mec­ca­ni­smi di inno­va­zione affin­ché si libe­rino le ener­gie pro­dut­tive che, pur con­trol­late, pote­vano assi­cu­rare il salto di qua­lità al paese (desi­de­rato dalla lea­der­ship). Il pas­sag­gio da un’economia del «Made in China» a una del «Desi­gned in China», sem­bra riman­dato, per ora.
Il sistema cinese, in cui la finanza e la poli­tica vanno a brac­cetto e sono orga­niz­zate attra­verso una strut­tura pira­mi­dale di rigido con­trollo da parte del Par­tito, dimo­stra tutti i suoi limiti nel muo­versi all’interno di mec­ca­ni­smi di mer­cato. E il Par­tito comu­ni­sta, che spe­rava di essere l’agente libe­ra­tore — sep­pure «con­trol­lore» — di que­ste ener­gie, ora rischia chia­ra­mente di fare da tappo.
Per ora agi­sce in difen­siva, tor­nando, di fatto, a rin­for­zare le aziende che pro­du­cono per l’esportazione e che da tempo erano entrate in una fase di sof­fe­renza. I nodi della strut­tura eco­no­mica cinese, quindi, sem­brano venire al pet­tine, a seguito di ral­len­ta­mento eco­no­mico, sbor­nia da borsa e le tante temute bolle, che pur rima­nendo sem­pre ad un livello di «quasi scop­pio» segnano in modo deter­mi­nante le sorti del paese.
Di toppa in toppa, biso­gnerà capire se dav­vero la Cina riu­scirà a bar­ca­me­narsi nel tenere in mano un modello eco­no­mico vario, per certi versi con­trad­dit­to­rio, ma che fino ad oggi aveva assi­cu­rato quanto di più impor­tante per la lea­der­ship e la popo­la­zione: la cre­scita e l’armonia sociale.

Fonte: il manifesto

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