
di Simone Pieranni
La Cina ha svalutato la sua moneta, lo yuan (Rmb), all’interno di una misura della Banca centrale a suo modo storica. La svalutazione, la maggiore operazione degli ultimi vent’anni, porta la quotazione ufficiale della moneta nei confronti del dollaro a 6.2298 (-1,9%).
Pechino ha agito per aumentare le sue esportazioni, preoccupando non poco chi vedeva nella Cina una futura «domanda» nel mercato internazionale, anziché una nuova «offerta».
La strategia segnala anche un limite del «sogno cinese» lanciato nel 2012 da Xi Jinping e quel tentativo, quasi un’alchimia date le caratteristiche sociali e culturali del paese, di trasformare la Cina in una moderna economia basata sull’innovazione e trainata dal mercato interno, anziché dalle esportazioni.
Pur nell’ambito di una scelta che è da considerarsi di «svalutazione competitiva», date anche le recenti decisioni di altri paesi nella regione (Australia e Corea), l’atto della Banca centrale segnala una prima battuta d’arresto di quel passaggio epocale che doveva portare dal «Made in China» al «Designed in China».
Della decisione pechinese hanno sofferto in prima battuta le borse europee: le più preoccupate sono apparse le aziende francesi e tedesche, che temono una ripresa a loro scapito delle esportazioni di Pechino, mentre è arrivato anche il tonfo dei grandi marchi dei beni di lusso terrorizzati dal calo del potere d’acquisto dei cinesi.
La ragione principale della decisione della Banca centrale è quella di favorire le esportazioni cinesi a fronte del rallentamento economico (7%). Nelle scorse settimane sono stati pubblicati alcuni dati economici: Pechino ha dovuto fronteggiare un crollo dell’8.3% delle esportazioni nel mese di luglio, colpite dalla debole domanda proveniente da Europa, Stati uniti e Giappone, mentre i prezzi della produzione sono al quarto anno di deflazione.
Altro dato macro: la decisione delle autorità di Pechino è arrivata in un momento delicato nella regione, perché anche le monete di Australia, Corea del Sud e Singapore si sono deprezzate. Se nell’area dunque incombono problematiche legate alle contese territoriali, appare ormai chiaro (con il Tpp all’orizzonte) anche uno scontro monetario non da poco, nell’ambito di operazioni, come quella cinese, che potrebbero essere definitive di «svalutazione competitiva».
Ma la scelta della Banca centrale cinese potrebbe indicare anche un segnale politico: il «sogno cinese» del Presidente Xi Jinping, che voleva un modello trainato dal mercato interno, per ora stenta. E Pechino torna alle vecchie pratiche, per altro non nuove neanche per il mondo occidentale.
Le prime reazioni hanno una lettura comune: Pechino ha svalutato la propria moneta per due obiettivi primari. In primo luogo per favorire le sue esportazioni e recuperare il terreno perso negli ultimi anni a causa della crisi che ha colpito l’Occidente.
Si tratta quindi di ridare ossigeno alle tante aziende che producono il «made in China»; un passo indietro, un ritorno al sostegno alla «fabbrica del mondo». In secondo luogo la mossa sarebbe stata richiesta da un tentativo in corsa da tempo, ovvero includere lo yuan, come ha scritto Reuters «in un paniere di valute di riserva conosciuto come Diritti Speciali di Prelievo, che viene utilizzato dal Fondo Monetario Internazionale per prestare denaro ai mutuatari sovrani».
L’idea sarebbe quella di creare «una moneta più libera ed accessibile», prerequisiti per ottenere l’approvazione come valuta di riserva dal Fmi, che pure negli ultimi tempi ha frenato al riguardo (se ne parlerà nel 2016). Pechino si affida dunque al trucco cui sono ricorsi molti paesi occidentali, senza che nessuno abbia gridato allo scandalo. Ma naturalmente è interessante provare a capire che tipo di segnali manda, almeno internamente, una decisione del genere.
L’operazione oltre ad aver giocato un brutto tiro alle borse internazionali, potrebbe essere il sintomo di un problema politico e di giochi di potere in atto a Pechino.
Non a caso a perdere di più ieri sono stati i titoli del lusso. È evidente che dalla Cina oggi ci si aspetta domanda, non l’offerta. E se la svalutazione favorisce lo yuan, indebolisce la possibilità dei consumatori cinesi (oltre al rischio di un’ingente fuga di capitali).
Ma c’è il nodo politico.
La decisione della Banca centrale dimostra i limiti del «sogno cinese» di Xi Jinping. Il «sistema Cina» non sembra in grado — quanto meno fino ad ora — di produrre quei meccanismi di innovazione affinché si liberino le energie produttive che, pur controllate, potevano assicurare il salto di qualità al paese (desiderato dalla leadership). Il passaggio da un’economia del «Made in China» a una del «Designed in China», sembra rimandato, per ora.
Il sistema cinese, in cui la finanza e la politica vanno a braccetto e sono organizzate attraverso una struttura piramidale di rigido controllo da parte del Partito, dimostra tutti i suoi limiti nel muoversi all’interno di meccanismi di mercato. E il Partito comunista, che sperava di essere l’agente liberatore — seppure «controllore» — di queste energie, ora rischia chiaramente di fare da tappo.
Per ora agisce in difensiva, tornando, di fatto, a rinforzare le aziende che producono per l’esportazione e che da tempo erano entrate in una fase di sofferenza. I nodi della struttura economica cinese, quindi, sembrano venire al pettine, a seguito di rallentamento economico, sbornia da borsa e le tante temute bolle, che pur rimanendo sempre ad un livello di «quasi scoppio» segnano in modo determinante le sorti del paese.
Di toppa in toppa, bisognerà capire se davvero la Cina riuscirà a barcamenarsi nel tenere in mano un modello economico vario, per certi versi contraddittorio, ma che fino ad oggi aveva assicurato quanto di più importante per la leadership e la popolazione: la crescita e l’armonia sociale.
Fonte: il manifesto
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