
di Michele Giorgio
È facile incontrare casualmente Mordechai Vanunu per le
strade di Gerusalemme Est, la zona palestinese della città, dove
l’ex tecnico della centrale di Dimona vive da quando fu liberato nel
2004, dopo 18 anni trascorsi nella prigione di Shikma (11 dei quali in
isolamento totale), per aver rivelato nel 1986 i segreti
dell’atomica israeliana al giornale britannico Sunday Times.
L’ultima volta è stata il mese scorso, dalle parti di via Salah Edin.
«Hello» (Vanunu dal 1986 si esprime solo in inglese, non usa più
l’ebraico), qualche battuta veloce sulle cose che cerca di fare, sul
suo desiderio di abbandonare Israele, un sorriso sobrio a commento
del suo recente matrimonio con una docente universitaria
norvegese, Kristin Joachimsen, e un «goodbye». Tutto qui. In
pubblico si comporta così con tutti. Vanunu — che per i servizi
segreti israeliani resta detentore di importanti segreti di stato,
anche se vecchi di 30 anni — non può parlare ai cittadini
stranieri, in particolare ai giornalisti. È una delle tante
restrizioni stabilite dai giudici al momento della scarcerazione.
Non può riferire particolari, anche agli israeliani, del lavoro
che svolgeva Dimona. Violando queste disposizioni il tecnico
nucleare si espone all’arresto e alla detenzione, anche per mesi. Gli
stranieri invece all’espulsione immediata da Israele. Per questo
motivo ha fatto scalpore l’intervista con l’ex tecnico nucleare di
Dimona trasmessa venerdì in prima serata dalla rete televisiva
israeliana Canale 2.
È stato un evento eccezionale. Nonostante domande e risposte non
siano sempre andate sugli aspetti più interessanti delle
rivelazioni fatte 30 anni fa da Vanunu — le finalità della
produzione di plutonio per ordigni atomici nella centrale di
Dimona -, l’uomo che gran parte del Paese considera un “traditore”
ha potuto ugualmente parlare del programma atomico segreto
israeliano e condannarlo. Israele non ha firmato il Trattato di
non-proliferazione nucleare e non ha mai ammesso (e neanche smentito)
di possedere bombe atomiche (tra 100 e 200 secondo esperti
internazionali). Da decenni Israele mantiene la cosiddetta
«ambiguità nucleare». L’interrogativo perciò è d’obbligo. Perchè
i servizi segreti e il governo hanno dato il via libera all’intervista
in un momento delicato, in cui il premier Netanyahu è impegnato in
uno scontro accesso con gli alleati americani per il via libera che
è stato dato a Vienna al programma atomico dell’Iran? Il racconto di
Vanunu a Canale 2 in apparenza è controproducente per gli
interessi israeliani. Forse Netanyahu, lasciando parlare il
“traditore”, ha voluto mandare un messaggio all’esterno. Ad
esempio avvertire Tehran di non dimenticare che Israele le bombe le
possiede già e potrebbe usarle se necessario. Ma le spiegazioni
probabilmente sono più di una.
Vanunu venerdì sera ha raccontato il processo graduale che lo
portò nei nove anni di lavoro a Dimona alla decisione, anzi
«all’obbligo», come ama dire lui, di rivelare «ai cittadini di
Israele, del Medio Oriente e del mondo», la natura della «polveriera»
di Dimona. «Ho visto quello che stavano producendo e il suo
significato», ha detto. Ha aggiunto di aver portato nella struttura
una normale macchina fotografica, «una Pentax», e di aver scattato
segretamente 58 foto, nascondendola poi nel suo zaino che gli
uomini della sicurezza non controllavano più perchè la sua era una
presenza abituale. Ha negato di aver fatto le sue rivelazioni in
cambio di un compenso da parte del Sunday Times e ha
ripetuto più volte che il nucleare è un pericolo, un’arma terribile,
per tutti, anche per Israele e non soltanto per i suoi nemici. Ha
infine ribadito di voler andare via, per ricongiungersi a suo moglie.
Vanunu, 60 anni, membro di una famiglia religiosa ortodossa,
giunse dal Marocco quando era ancora bambino. Cominciò a formarsi una
coscienza politica soltanto all’inizio degli anni Ottanta. In
precedenza aveva svolto con diligenza il suo lavoro nella centrale
di Dimona, costruita ufficialmente per la produzione di energia
elettrica ma che il laburista Shimon Peres con l’aiuto del padre
della atomica francese Francis Perrin, trasformò in un centro
segreto. Vanunu cominciò a riflettere su ciò che avveniva a Dimona
quando fu trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani
sotterranei della centrale atomica dove venivano prodotti
annualmente una quarantina di kg di plutonio. Nel 1985 Vanunu venne
costretto a dimettersi per «instabilità psichica». Con uno zaino
pieno di informazioni partì per l’Australia dove si mise in contatto
con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si
recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti.
Il direttore del giornale però esitò a pubblicare il racconto.
Sospettava che Vanunu fosse un agente del Mossad che, per conto del
suo governo, intendeva far sapere ai paesi arabi che Israele è in
possesso di un arsenale nucleare in grado di incenerire l’intero
Medio Oriente. Il servizio giornalistico verrà pubblicato solo il
5 ottobre, quando si seppe della scomparsa dell’israeliano.
Vanunu cadde in una trappola preparata alla fine dell’estate da
una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, un’agente
del Mossad per la quale perse la testa. Il sequestro non avvenne
a Londra (i britannici non vollero) ma Roma (sempre disponibile)
dove Cindy lo attirò proponendogli un weekend romantico, come
Gregory Peck e Audrey Hepburn. Invece appena arrivato in Italia, gli
agenti del Mossad lo rapirono e lo portarono in un appartamento
nella periferia della capitale, poi lo trasferirono a La Spezia
e, imbarcandolo sul mercantile israeliano Tapuz, lo rispedirono
(in una cassa) in Israele. Vanunu si rivide in pubblico il 7 ottobre,
solo per qualche attimo, a Gerusalemme, durante il processo per
direttissima, quando con uno stratagemma — scrivendo sul palmo
della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula — fece sapere di
aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British
Airways e di essere stato rapito. L’altra sera ha ammesso di non aver
capito, anche dopo il rapimento, che Cindy era stata la
protagonista del piano del Mossad e di averlo compreso solo dopo
parecchi giorni mentre navigavano verso il porto di Haifa.
L’Italia, come fa spesso quando agisce il Mossad, finse di non
accorgersi della violazione della sua sovranità territoriale
e del rapimento a Roma. Le indagini avviate dal sostituto
procuratore Domenico Sica non portarono a nulla, nessuno aveva
visto e sentito. Vanunu per anni ha chiesto invano un intervento
delle autorità italiane su Israele. Roma non ha mai risposto ai suoi
appelli.
Fonte: il manifesto
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