La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 6 settembre 2015

Fotografare per testimoniare

di Antonio Politano
Una foto è un istante. Parla da sola, spesso. Le parole che pos­sono accom­pa­gnarla aiu­tano la com­pren­sione, mol­ti­pli­cano il senso. Il corpo di un bam­bino ridotto a fagot­tino appog­giato sulla sab­bia, riverso a fac­cia in giù, è al cen­tro dei nostri occhi da qual­che giorno.
Trovo legit­tima, dove­rosa, la scelta di pub­bli­care, pro­iet­tare in prima pagina quella foto. E di accom­pa­gnarla con due sem­plici parole, «Niente asilo», che descrivono-denunciano l’assenza di una poli­tica dell’accoglienza di fronte a migra­zioni epo­cali. E dicono che Aylan, pro­fugo siriano di tre anni, e altri bam­bini come lui non avranno un futuro oltre quella spiag­gia, di nor­ma­lità, scuola, gio­chi, amici.
Il dibat­tito corre, sem­bra quasi già supe­rato. Quando è arri­vata sui gior­nali, la foto cir­co­lava da tempo sui social net­work. Si discute dell’assuefazione a imma­gini estreme. Se l’immagine debba pro­vo­care disa­gio o colpa o sde­gno. Se sia oscena e inac­cet­ta­bile la foto o la realtà che ritrae. Se sia più etica una sequenza che rac­conta o lecita una sin­gola imma­gine che diventa icona. Abbon­dano le sen­tenze degli spe­cia­li­sti, si perde il senso del dramma dietro.

Non vedo desi­de­rio di spet­ta­co­la­riz­za­zione nell’immagine di Aylan, ma un’onesta volontà di cro­naca. Non è impor­tante che chi ha pro­dotto la foto sia un pro­fes­sio­ni­sta, un ope­ra­tore o un osser­va­tore di pas­sag­gio, qual­cuno che pos­sieda tec­ni­ca­lità spe­ci­fi­che. È impor­tante la testi­mo­nianza. L’autrice dello scatto stava in prima linea, sul posto.
Qual­che mat­tina fa Nilu­fer Demir, che lavora per l’agenzia turca Dogan News Agency, faceva un giro sulla spiag­gia di Bodrum da cui i migranti sal­pano per rag­giun­gere l’isola greca di Kos. E ha visto quel corpo. Da foto­re­por­ter ha informato.
Un cro­ni­sta testi­mo­nia (e certo evoca allo stesso tempo). Un gior­nale sce­glie e sente il dovere di pub­bli­care. Un lettore-fruitore guarda, legge, osserva. La con­di­vi­sione in rete ha spac­cato que­sto schema, che però in parte con­ti­nua a fun­zio­nare e far discu­tere. Resta la fun­zione civile di ope­rare una scelta e di ri-accendere un riflettore.
The Indi­pen­dent è stato tra i primi a dif­fon­dere quelle imma­gini sia su carta che nel web. Qual­che giorno prima della morte di Aylan, nel suo sito aveva pub­bli­cato un video di tre minuti dal titolo «Se il Sur­rey fosse la Siria», a sup­porto della cam­pa­gna Save Syrias Chil­dren di Save the Chil­dren. Girato con tele­ca­mere nasco­ste, per regi­strare la rea­zione spon­ta­nea della gente — tra incre­du­lità, spa­vento, rab­bia, ango­scia — davanti alle scuole chiuse, e cir­con­date da filo spi­nato, per­ché troppo peri­co­lose da fre­quen­tare a causa dell’azione di gruppi vio­lenti; den­tro super­mer­cati con scaf­fali semi­vuoti e beni di prima neces­sità (come pane e latte) razio­nati; di fronte a un’ambulanza bloc­cata per ordine pub­blico impos­si­bi­li­tata a rag­giun­gere l’ospedale. Il fil­mato si chiude con i numeri della tra­ge­dia siriana (undici milioni di per­sone in fuga), imma­gini di bam­bini che vagano tra le mace­rie e la scritta: «Il solo fatto che non stia acca­dendo qui non signi­fica che non stia accadendo».
Certo ci sono anche i video, le cor­ri­spon­denze, la tv, la let­te­ra­tura, a com­porre un qua­dro di infor­ma­zione. Le foto­gra­fie però fer­mano. Una por­zione di realtà, un fram­mento del qua­dro. E quella por­zione rimane. Anche nel cinema. Come la bam­bina dal cap­potto rosso in Schindler’s List, punto di colore che foca­lizza l’attenzione e rende rico­no­sci­bile, tra la massa indi­stinta, l’individualità.
Non è que­stione di pri­mati tra mezzi di espres­sione. Ma nell’epoca del web l’immediatezza e potenza del medium foto­gra­fico a volte si impone. E noi par­liamo di quella foto. E Aylan, la cro­naca di quel dolore, scorre. E si mescola nel flusso ad altro, magari a un annun­cio di mete eso­ti­che o a divi gla­mour ospiti in qual­che festi­val cinematografico.
Forse oggi, che le ondate di pro­fu­ghi e migranti sono giunte nel cuore d’Europa, le marce bibli­che su un’autostrada hanno più effetto dei cada­veri che pun­teg­giano il canale di Sici­lia, i treni e i fur­goni tra Buda­pest e l’Austria più dei bar­coni. I cosid­detti grandi ora dicono di capire, meglio tardi che mai, pro­ba­bil­mente per­ché le opi­nioni pub­bli­che sono toc­cate. E allora caval­cano invece di anti­ci­pare. Alcuni dichia­rano che quella foto ha cam­biato (cer­ta­mente ha smosso) la poli­tica. Il con­senso si orienta sulla difesa dei migranti invece che sul respingimento.
Mio figlio è venuto a dirmi: Papà, ma allora, se fos­simo in Sici­lia, non potremmo immer­gerci e fare le foto dei migranti che stanno sotto al mare per farle vedere?
Ci sono istanti (deci­sivi), punc­tum, che riman­gono nella memo­ria. Il viet­cong giu­sti­ziato, il mili­ziano di Capa, l’uomo davanti ai carri armati di Tie­nan­men. Senza voler fare clas­si­fi­che o pro­durre glo­rie, Aylan entrerà in que­sta gal­le­ria o sarà pre­sto dimen­ti­cato, sosti­tuito. Ma ha toc­cato coscienze, gene­rato compassione.
Chissà se muo­verà la poli­tica di chi decide. Se tutto que­sto ser­virà a cam­biare un titolo e a can­cel­lare quel niente.

Fonte: il manifesto

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