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di Antonio Politano
Una foto è un istante. Parla da sola, spesso. Le parole che possono
accompagnarla aiutano la comprensione, moltiplicano il senso. Il
corpo di un bambino ridotto a fagottino appoggiato sulla sabbia,
riverso a faccia in giù, è al centro dei nostri occhi da qualche
giorno.
Trovo legittima, doverosa, la scelta di pubblicare, proiettare
in prima pagina quella foto. E di accompagnarla con due semplici
parole, «Niente asilo», che descrivono-denunciano l’assenza di una
politica dell’accoglienza di fronte a migrazioni epocali. E dicono
che Aylan, profugo siriano di tre anni, e altri bambini come lui non
avranno un futuro oltre quella spiaggia, di normalità, scuola,
giochi, amici.
Il dibattito corre, sembra quasi già superato. Quando è arrivata
sui giornali, la foto circolava da tempo sui social network. Si
discute dell’assuefazione a immagini estreme. Se l’immagine debba
provocare disagio o colpa o sdegno. Se sia oscena e inaccettabile
la foto o la realtà che ritrae. Se sia più etica una sequenza che
racconta o lecita una singola immagine che diventa icona. Abbondano
le sentenze degli specialisti, si perde il senso del dramma dietro.
Non vedo desiderio di spettacolarizzazione nell’immagine di
Aylan, ma un’onesta volontà di cronaca. Non è importante che chi ha
prodotto la foto sia un professionista, un operatore o un
osservatore di passaggio, qualcuno che possieda tecnicalità
specifiche. È importante la testimonianza. L’autrice dello scatto
stava in prima linea, sul posto.
Qualche mattina fa Nilufer Demir, che lavora per l’agenzia turca Dogan News Agency,
faceva un giro sulla spiaggia di Bodrum da cui i migranti salpano per
raggiungere l’isola greca di Kos. E ha visto quel corpo. Da
fotoreporter ha informato.
Un cronista testimonia (e certo evoca allo stesso tempo). Un
giornale sceglie e sente il dovere di pubblicare. Un
lettore-fruitore guarda, legge, osserva. La condivisione in rete ha
spaccato questo schema, che però in parte continua a funzionare
e far discutere. Resta la funzione civile di operare una scelta e di
ri-accendere un riflettore.
The Indipendent è stato tra i primi a diffondere quelle
immagini sia su carta che nel web. Qualche giorno prima della morte di
Aylan, nel suo sito aveva pubblicato un video di tre minuti dal
titolo «Se il Surrey fosse la Siria», a supporto della campagna Save Syrias Children
di Save the Children. Girato con telecamere nascoste, per
registrare la reazione spontanea della gente — tra incredulità,
spavento, rabbia, angoscia — davanti alle scuole chiuse,
e circondate da filo spinato, perché troppo pericolose da
frequentare a causa dell’azione di gruppi violenti; dentro
supermercati con scaffali semivuoti e beni di prima necessità (come
pane e latte) razionati; di fronte a un’ambulanza bloccata per ordine
pubblico impossibilitata a raggiungere l’ospedale. Il filmato
si chiude con i numeri della tragedia siriana (undici milioni di
persone in fuga), immagini di bambini che vagano tra le macerie e la
scritta: «Il solo fatto che non stia accadendo qui non significa che
non stia accadendo».
Certo ci sono anche i video, le corrispondenze, la tv, la
letteratura, a comporre un quadro di informazione. Le
fotografie però fermano. Una porzione di realtà, un frammento del
quadro. E quella porzione rimane. Anche nel cinema. Come la bambina
dal cappotto rosso in Schindler’s List, punto di colore che focalizza
l’attenzione e rende riconoscibile, tra la massa indistinta,
l’individualità.
Non è questione di primati tra mezzi di espressione. Ma nell’epoca
del web l’immediatezza e potenza del medium fotografico a volte si
impone. E noi parliamo di quella foto. E Aylan, la cronaca di quel
dolore, scorre. E si mescola nel flusso ad altro, magari a un annuncio
di mete esotiche o a divi glamour ospiti in qualche festival
cinematografico.
Forse oggi, che le ondate di profughi e migranti sono giunte nel
cuore d’Europa, le marce bibliche su un’autostrada hanno più effetto
dei cadaveri che punteggiano il canale di Sicilia, i treni e i
furgoni tra Budapest e l’Austria più dei barconi. I cosiddetti
grandi ora dicono di capire, meglio tardi che mai, probabilmente
perché le opinioni pubbliche sono toccate. E allora cavalcano
invece di anticipare. Alcuni dichiarano che quella foto ha cambiato
(certamente ha smosso) la politica. Il consenso si orienta sulla
difesa dei migranti invece che sul respingimento.
Mio figlio è venuto a dirmi: Papà, ma allora, se fossimo in
Sicilia, non potremmo immergerci e fare le foto dei migranti che
stanno sotto al mare per farle vedere?
Ci sono istanti (decisivi), punctum, che rimangono nella
memoria. Il vietcong giustiziato, il miliziano di Capa, l’uomo
davanti ai carri armati di Tienanmen. Senza voler fare classifiche
o produrre glorie, Aylan entrerà in questa galleria o sarà presto
dimenticato, sostituito. Ma ha toccato coscienze, generato
compassione.
Chissà se muoverà la politica di chi decide. Se tutto questo servirà a cambiare un titolo e a cancellare quel niente.
Fonte: il manifesto
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