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di Giovanni Vale
Nemmeno i militari ci credono davvero. Il capo chino, la
fronte attraversata da continue righe di sudore, passeggiano
controvoglia lungo la linea immaginaria sulla quale hanno ordine
di issare una palizzata. Un alto macchinario bianco, cingolato, li
segue tra i campi di girasole e granoturco, infilzando con
regolarità il terreno e lasciandovi cadere ogni quattro metri un
palo di acciaio alto altrettanti. Bisognerà poi srotolare la rete
zincata, mentre il filo spinato è già stato arricciato, come fosse
dello zucchero filato, in una nuvola soffice e appuntita. La si
sdraia per terra, nel mezzo del nulla.
Siamo a Kübekháza, il comune ungherese che confina al tempo stesso
con la Serbia e con la Romania e che ospita nientemeno che il punto
finale del «muro di Orban». L’ultimo pilone della barriera di 175
chilometri è già stato piantato e basta guardarlo per percepire
l’assurdità di tutte queste ore di lavoro. Alle sue spalle, si apre la
pianura pannonica con la sua sfacciata indifferenza. Il muro
finisce in un prato. E come se non bastasse, qualche metro più in là,
il monumento che celebrava il punto d’incontro dei tre paesi
è rimasto oltre la ringhiera, dall’altra parte del muro.
Geograficamente, l’Unione europea inizia qui. Ma moralmente
sembra finire.
Subotica
L’appuntamento è per mezzogiorno alla stazione degli autobus di
Subotica, una città dell’estremo Nord della Serbia, in cui passa sia
l’autostrada E5 diretta a Budapest, sia la ferrovia proveniente da
Belgrado. In programma c’è un viaggio dentro e fuori l’area
Schengen, nei pressi di una frontiera che negli ultimi sei mesi
è stata attraversata da oltre 100.000 rifugiati, provenienti
perlopiù dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan.
La prima tappa è la cosiddetta «giungla» di Subotica, un’ex fabbrica
di mattoni, dove chi risale la «rotta dei Balcani» si ferma per una
notte o due prima di ripartire a piedi per l’Ungheria. Quando
arriviamo, tra le strutture abbandonate e l’erba alta, se stanno
sdraiate poco più di cento persone, ma qualche settimana prima —
assicurano gli attivisti — ce n’erano almeno 400. Disseminata di
spazzatura e sotto un sole impietoso, la «giungla» emana un odore
pungente. «La discarica comunale dista solo un centinaio di metri
da qui: abbiamo paura che arrivino i ratti e che portino delle
malattie», afferma Dalibor Karada, un volontario dell’associazione
serba «Centro per l’integrazione e la tolleranza».
Altre Ong passano nel giro di poche ore, offrendo assistenza
sanitaria di base o portando qualche bene di prima necessità ai
rifugiati, altrimenti abbandonati a se stessi. «Avevamo chiesto al
comune di portare l’acqua potabile all’interno dell’ex fabbrica, ma
hanno deciso di sistemare delle docce oltre la strada», racconta
Dalibor. Per riempire una bottiglia d’acqua, bisogna dunque
lasciare il campo e camminare per qualche minuto, attraversando un
tratto d’asfalto sbiadito.
Dalla «giungla» di Subotica, il centro storico dista tre
chilometri. Ci si può andare a piedi, seguendo verso Nord i binari
che poi proseguono per l’Ungheria (la frontiera è a circa 11km),
oppure in taxi o pagando qualche privato. Al municipio, l’assessore
agli Affari sociali, Milimir Vujadinovi, è al corrente della
situazione, ma la sua giunta — dice — «fa quel che può», a maggior
ragione che «questo è un problema dell’UE, non della Serbia. Dal
2014, il comune stanzia ogni anno circa 23.000 euro (su un bilancio
totale di 40 milioni) per l’accoglienza di qualche bambino negli asili
pubblici o per il trasporto dei rifugiati che lo desiderano verso
gli spazi di accoglienza. Ma sono ovviamente pochissimi quelli che si
avvalgono di questi programmi, la maggior parte vuole solo
proseguire verso l’Unione europea.
Kanjia
Quaranta chilometri ad Est, a Kanjia, un punto di ricezione
è stato inaugurato appena due settimane fa, proprio con l’obiettivo
di svuotare i centri città della zona. Gli autobus della polizia
portano in continuazione nuovi arrivati, che vengono sistemati
dentro ampie tende verdi, fornite di tavoli da sagra. All’interno del
campo, ci sono servizi igienici e una connessione ad internet,
mentre all’esterno uno stand privato cuoce pljeskavice
(hamburger) a ripetizione. «Non abbiamo letti, ma c’è spazio per
sdraiarsi — spiega Robert Lesmajster, del Commissariato per
i rifugiati di Belgrado — E comunque sia, la maggior parte delle
persone resta qui solo per qualche ora».
«Noi partiremo domani», dice fiducioso Ayham, mentre tiene la
mano a sua moglie Hadil. Seduta sul prato, questa coppia di siriani si
sta riposando dopo la lunga avventura. Turchia, Grecia,
Macedonia, Serbia. In treno, in bus, in taxi, a piedi. «Abbiamo
camminato per oltre 150km, in totale!», assicura Ayham. Hadil
conferma sorridendo: «Siamo una super-famiglia!». Attorno a loro, ci
sono le due sorelle non maggiorenni di lei, Hamsa e Idaia, così come
il piccolo Zain (il figlio della coppia) con la sua nonna materna
Hafisa. «Anche il passeggino è venuto con noi fin da Damasco!»,
prosegue il giovane papà, che nel 2012 aveva ottenuto il brevetto
da pilota, ma senza mai poterlo utilizzare. Sono diretti in
Germania, dove uno zio vive già da qualche anno.
Calata la sera, mentre Robert Lesmajster continua a illustrare
le regole del campo a chi entra, un folto gruppo varca l’ingresso in
direzione opposta. Sono soprattutto siriani, muniti di gps
o smartphone e con uno zaino o un bambino sulle spalle. Il confine
ungherese è ad una quindicina di chilometri da qui e per
arrivarci si seguirà controcorrente il corso del Tibisco
(Tisza/Tisa) che taglia perpendicolarmente la frontiera. Alle
nove, ci si incammina lungo la strada asfaltata, mentre le
automobili sfrecciano a fianco con gli abbaglianti accesi. La si
segue per qualche chilometro, poi si svolta a destra, prendendo una
piccola discesa di ghiaia che porta all’argine.
È la prima sosta. Un ragazzo con un cappellino bianco detta le
poche regole del viaggio: «Non camminate troppo sulla destra perché
c’è il fiume e spegnete i cellulari». Si riparte sulla terra
battuta, nascosta tra gli alberi e la riva, mentre le
conversazioni proseguono sottovoce. Omar, uno dei pochi iracheni
presenti, chiede: «Sei sposato?». Nemmeno lui lo è — dice scuotendo
la testa — ma spera, a breve.
Fa ancora caldo e l’umidità attira le zanzare. Il sentiero
è cosparso di bottiglie di plastica vuote, segno che non siamo
i primi a percorrerlo. Gli agenti ungheresi potrebbero dunque
essere in agguato, oltre la frontiera. Che fare nel caso li si
incontri? Le opinioni divergono. Farsi arrestare significa dover
dare le proprie impronte digitali e rischiare, in seguito, di essere
deportati in Ungheria dagli altri Stati membri dell’Unione (come
vorrebbe il Protocollo di Dublino II). Tuttavia, rifiutare la
richiesta di asilo alle autorità magiare comporta il trasferimento
in Serbia. Tutti preferirebbero la terza via: passare in
incognito fino in Austria. Ma è la meno probabile.
Passata la mezzanotte, all’ennesima pausa, un ragazzo si lascia
cadere a terra, sfinito. Si chiama Mustafa e, da metà coscia in poi, la
sua gamba destra lascia spazio ad una protesi rigida. Non ce la fa
più a continuare. «Potete aiutarlo, per favore?», chiede il suo
amico, che per mano tiene già la moglie e la figlia. La schiena di
Mustafa è completamente bagnata e lui ripete «yalla» a denti stretti.
Lo si solleva in due e si riparte. Più il tempo scorre, però, più
i bambini iniziano a lamentarsi ad alta voce. Alla frontiera
mancano pochi chilometri, ma ormai è buio pesto e anche i visi
familiari si sono trasformati in sinistre sagome nere.
Il pianto di Zakaria buca il silenzio verso l’una di notte, facendo
sussultare tutto il gruppo. Subito, in quattro, cinque provano
a calmarlo, ma è inutile, il piccolo non ha nemmeno due anni e grida
sempre più forte, mentre dalla foresta, oltre il fiume, arrivano
i latrati e gli ululati dei cani. Ci vorranno venti minuti perché
torni la calma. Nel frattempo, secondo chi ha il gps in mano, abbiamo
passato la frontiera e siamo ufficialmente nell’Unione. Ma non c’è
tempo per festeggiare: all’orizzonte, un attimo dopo, appare una
misteriosa luce blu e ci si ferma di nuovo. Entrare nella foresta,
continuare sulla stessa via, nel dubbio si aspetta.
Quando l’alone luminoso si spegne, i rifugiati decidono di
proseguire lungo l’argine. Noi, però, dobbiamo tornare indietro,
perché andare oltre potrebbe voler dire essere scambiati per dei
trafficanti di esseri umani.
Asotthalom
Dal lato ungherese della frontiera, di prima mattina, Barnabas
Héredi viaggia sulla sua Lada bianca alla ricerca di chi ha
attraversato il confine durante la notte. E’ uno dei «rangers» che
il comune di Ásotthalom ha assunto per aiutare la polizia locale.
Una volta intercettato un gruppo di rifugiati, il suo compito è di
condurli ad uno dei vari «punti di raccolta», dove le forze
dell’ordine passeranno più tardi. Davanti alla sua macchina, alle
8:30, camminano già diverse decine di persone, perlopiù afghani,
partiti dalla Serbia dieci ore prima. «Siamo in Ungheria, vero?»,
domanda Aziz. Quando annuisco, tira un sospiro di sollievo. Barnabas
li segue a marce ridotte, con le quattro frecce lampeggianti.
A guardarlo, sembra una sorta di pastore motorizzato.
«Che succederà ora?», chiede il ventiduenne Ali, originario del
Nord dell’Afghanistan e ormai giunto allo spiazzo già presidiato dagli
agenti. La polizia sta caricando tutti i presenti su diversi
autobus diretti a Seghedino (Szeged), la prima grande città
ungherese (circa 160.000 abitanti). Dopo aver completato la
richiesta di asilo, i rifugiati riceveranno un foglio che gli
permetterà di viaggiare nel Paese, in teoria per raggiungere uno
dei centri di accoglienza. Ma la maggior parte di loro userà questo
lasciapassare per proseguire verso l’Europea occidentale. «Io
vorrei andare a studiare in Finlandia», racconta Ali. «Me lo
ricorderò per sempre questo viaggio», esclama.
L’ultima tappa è dunque Szeged, dove partono i treni per
Budapest. Al quartier generale della polizia di frontiera il
comandante Gabor Eberhardt sta parlando con una troupe televisiva
di Vienna. «Installerete dei sensori termici nei pressi del muro?»,
«Ci saranno degli agenti a pattugliare la frontiera?», chiedono
i giornalisti austriaci. «E quanti migranti sono già stati rispediti
in Serbia?», domandano preoccupati. Nell’aria c’è un’ansia da
ondata migratoria. L’agente risponde, poi si scusa: «I vostri
colleghi stanno aspettando». C’è giusto il tempo per una foto
ricordo assieme al poliziotto magiaro, poi gli austriaci partono.
Gabor Eberhardt è responsabile di circa 45km di confine, attraverso
cui passa il 90% degli ingressi illegali nel paese. I suoi uomini —
spiega — si occupano di arrestare i rifugiati e di assicurarsi che
facciano richiesta di asilo. «Solo il 15% rifiuta di fare la domanda
ed è dunque riportato in Serbia», afferma Eberhardt, secondo cui le
detenzioni sono sempre fatte «nel rispetto della legge», ovvero «per
un massimo di 36 ore», «in locali al riparo dal caldo» e persino
«fornendo cibo a seconda della religione di ciascuno». Ma le foto che
la parlamentare ungherese Tímea Szabó ha scattato a metà luglio
all’interno dei centri di Röszke e Szeged mostrano piuttosto delle
gabbie dove i materassi sono gettati sul pavimento.
Anche la storia dei panini ad hoc pare non tenere. Alla stazione
ferroviaria di Szeged, ad un quarto d’ora dalla stazione di
polizia, gli attivisti del gruppo di solidarietà ai migranti
“Migszol” si limitano a offrire ai rifugiati soltanto acqua e caffè.
«Sul cibo non si fidano più degli ungheresi: hanno già ricevuto troppe
volte della carne di maiale che avrebbe dovuto essere qualcos’altro»,
afferma Daniel Szatmary. Questo giovane alto e robusto è uno dei 200
volontari che ogni giorno accolgono le persone portate dalla
polizia. Dal primo luglio, dispongono di una casetta di legno
presidiata quasi 24 ore su 24. In inglese e in arabo, forniscono
delle informazioni sui prossimi treni per la capitale, sui «veri»
prezzi che dovrebbero essere applicati dai tassisti (che invece
chiedono fino a 400 euro per due ore di tragitto) e, più in generale,
su quello che aspetta chi è appena arrivato a piedi dalla Serbia.
Alle 20:45, l’ultimo diretto per Budapest è arrivato. I volontari
del Migszol si affrettano a dare gli ultimi consigli: «Non usate le
toilettes quando il convoglio è fermo» e «Non fumate in treno».
Qualcuno, euforico, si distrae, ma gli attivisti insistono: «Sul
serio, sono 50 euro di multa altrimenti!”. Si corre sulle scale che
portano ai binari e, prima di salire, ci si presta a qualche scatto
di gruppo. Poi il capostazione fischia e qualcuno si affaccia al
finestrino. Nella luce dorata dei lampioni, i tratti tesi della
stanchezza sfumano adesso nei primi sorrisi. La strada è ancora lunga
per raggiungere la Germania o la Svezia ma, stasera,
i chilometri che restano sembrano in discesa. E davanti a questo
treno in partenza, il vento che ci spettina ha come un profumo di
rinascita. Il brivido lussuoso di un ritorno alla normalità.
Fonti: Osservatorio Balcani e Caucaso, il manifesto
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