La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 6 settembre 2015

In fuga dal marabout

di Elisa Pelizzari
Chi sono i minori non accom­pa­gnati, pro­ve­nienti dall’Africa sub­sa­ha­riana, che sbar­cano sulle nostre coste, dopo aver attra­ver­sato il Medi­ter­ra­neo in con­di­zioni spa­ven­tose? Per­ché lasciano aree che non sono neces­sa­ria­mente preda di guerre san­gui­nose o vit­time di crisi eco­no­mi­che inso­ste­ni­bili?
Ten­te­remo di rispon­dere appog­gian­doci sul caso del Mali e, in par­ti­co­lare, su quello di una delle sue etnie più note, i Dogon. Il ter­ri­to­rio di que­sta popo­la­zione si situa nell’est del paese, in pros­si­mità della regione dell’Azawad, di recente tur­bata da un con­flitto in cui sono pre­ci­pi­tate le pre­tese auto­no­mi­ste dei tua­reg, le incur­sioni delle mili­zie jiha­di­ste e l’intervento mili­tare fran­cese con l’operazione Ser­vant. Pro­prio tale situa­zione ha bloc­cato il flusso di turi­sti che, in pas­sato, si reca­vano nel Mali, e ha posto un freno allo svi­luppo. La disoc­cu­pa­zione è dun­que alta e le pro­spet­tive di ripresa alea­to­rie. Ma non sono que­sti i fat­tori che più gio­cano sul desi­de­rio dei gio­vani di par­tire. È piut­to­sto il qua­dro socio­cul­tu­rale che deve essere ana­liz­zato, per com­pren­dere le ragioni dell’esodo.
La costru­zione della persona
Una pre­messa: nono­stante il pro­cesso di moder­niz­za­zione in atto, sarebbe scor­retto, per tante comu­nità afri­cane, come i dogon, par­lare di un abban­dono degli stili di vita tra­di­zio­nali. Ade­guati alle esi­genze di oggi, que­sti con­ti­nuano, infatti, a det­tare i ritmi dell’esistenza indi­vi­duale e col­let­tiva, come dimo­stra l’ambito dell’educazione.
Ricor­diamo inol­tre che, se in teo­ria tutti i bam­bini maliani sono tenuti a fre­quen­tare la scuola fran­co­fona, l’accesso di massa all’istruzione rimane un mirag­gio e il tasso di sco­la­riz­za­zione è fermo al 52,7%.
A molti ragazzi, e il Pays Dogon non rap­pre­senta l’eccezione, il diritto all’insegnamento gra­tuito, laico e di qua­lità appare una nozione vuota di senso. Le loro fami­glie ricor­rono per­ciò ad altre strade, che vanno dall’istruzione pri­vata (negli isti­tuti pari­fi­cati o nelle méder­sas che offrono un cur­sus sco­la­stico e reli­gioso), alle scuole rurali (incen­trate sull’alfabetizzazione in lin­gue locali, accom­pa­gnata da un avvia­mento pro­fes­sio­nale) e, infine, alle scuole cora­ni­che, aperte ai più poveri.
Inol­tre, qui come altrove, l’educazione non passa, in via esclu­siva, per le realtà sco­la­sti­che o affini, ma è l’espressione di un patri­mo­nio com­plesso di cono­scenze e costumi, che viene tra­smesso alle nuove gene­ra­zioni in ambito fami­liare e comunitario.
In tale pro­spet­tiva, la for­ma­zione dei gio­vani si appa­renta al con­cetto di «costru­zione della per­sona» e tale nozione rimanda a livelli mul­ti­pli, cioè a un pro­cesso dina­mico. In rife­ri­mento al baga­glio di saperi ela­bo­rato dalle cul­ture afri­cane, il cele­bre stu­dioso Ama­dou Ham­paté Bâ sostiene che la per­sona è da loro con­ce­pita come un seme che ger­mina a par­tire da un capi­tale ini­ziale, matu­rando col tempo, in fun­zione dei ter­reni e delle circostanze.
È dun­que su un insieme di fat­tori che si modella l’educazione impar­tita ai più pic­coli, e que­sti ele­menti riflet­tono l’ambiente che li vei­cola. L’esempio dei riti d’iniziazione lo illu­stra con chiarezza.
Nei vil­laggi dogon, il per­pe­tuarsi di pra­ti­che ance­strali non sem­bra urtarsi con l’adesione for­male della mag­gior parte della gente all’islam. Le moschee e le scuole cora­ni­che, dis­se­mi­nate nella zona, non fre­nano le aspet­ta­tive con cui le fami­glie affi­dano i figli ai mae­stri delle pro­ce­dure rituali, di solito appar­te­nenti alla casta dei fabbri.
Con rego­la­rità, ven­gono orga­niz­zate com­plesse ceri­mo­nie di cir­con­ci­sione, per intro­durre i ragazzi, di 6–9 anni, all’età adulta. Supe­rando varie tappe, i bam­bini si avvi­ci­nano agli eventi con­nessi alla sto­rica migra­zione che ha con­dotto i dogon sul ter­ri­to­rio della fale­sia. Il momento clou dell’iniziazione cor­ri­sponde, ovvio, all’ablazione del pre­pu­zio, effet­tuata in modo rudi­men­tale, con un col­tello. Seduti in cer­chio su delle pie­tre, in un luogo ad alcune cen­ti­naia di metri dall’abitato, i maschietti, pan­ta­lon­cini abbas­sati, atten­dono il pro­prio turno. Il san­gue che si appre­stano a ver­sare, li assi­mila a esseri sacri­fi­cali, a crea­ture da immolare.
Nel corso del rito, l’attitudine dei bam­bini deve rima­nere corag­giosa, nem­meno un grido può sfug­gire dalle loro lab­bra e sono tenuti a un com­por­ta­mento reve­ren­ziale nei con­fronti degli adulti che li sor­ve­gliano. La cau­te­riz­za­zione della ferita avviene con l’uso di ceneri calde, accom­pa­gnate dal ricorso a pomate a base vegetale.
Il ceri­mo­niale non si limita però a que­sto momento, poi­ché si pro­lunga per tre set­ti­mane. La volontà d’inculcare nei ragazzi il senso del corag­gio, in grado di far loro supe­rare sof­fe­renza e fatica, con­trad­di­stin­gue il ciclo ini­zia­tico. Per tutto il periodo, i bam­bini non dor­mono a casa, ma in una grotta sprov­vi­sta di qual­siasi con­forto; il loro sonno si limita a 4–5 ore per notte, in quanto li si costringe a seguire sedute inter­mi­na­bili, in cui ven­gono nar­rati alcuni miti d’origine del popolo dogon e li si sol­le­cita a memo­riz­zare for­mule par­ti­co­lari, pena puni­zioni severe.
Soli­da­rietà, unica consolazione
Ogni istante della gior­nata, e parte della notte, è dedi­cato a un’attività pecu­liare, che cor­ri­sponde ad un eser­ci­zio fisico intenso (corsa, lan­cio di pie­tre, simu­la­zione della cac­cia in bosca­glia). I ragazzi devono muo­versi di con­ti­nuo, non si ripo­sano mai e sono sot­to­po­sti al ritmo inces­sante di tam­buri e di vari stru­menti musi­cali, accom­pa­gnati, la sera, da canti che risuo­nano in maniera inquie­tante nell’oscurità. Unica con­so­la­zione, per que­sti ragazzi spau­riti, la soli­da­rietà che si crea fra loro, fronte alla comune sof­fe­renza; ciò li ren­derà com­pa­gni di «classe di età» pe la vita intera.
Ma in cosa con­si­ste l’ammaestramento offerto? Il noc­ciolo dei discorsi con­cerne la sal­va­guar­dia della memo­ria del pas­sato e la tra­smis­sione di ele­menti della cosmo­go­nia locale per ren­dere i gio­vani con­sa­pe­voli, da un lato, del loro ruolo di futuri uomini respon­sa­bili, dall’altro, per inse­rirli a pieno titolo nella società. Una nota domina: l’apprendimento passa per il dolore, poi­ché l’esistenza stessa si snoda nelle dif­fi­coltà, nella sot­to­mis­sione dei cadetti e nel sacri­fi­cio di sé, che biso­gna accet­tare con pazienza.
Indi­riz­zato alle divi­nità o agli ante­nati mitici (e sim­bo­liz­zato dalla cir­con­ci­sione), il sacri­fi­cio svolge una fun­zione cru­ciale nelle ceri­mo­nie, poi­ché mette in movi­mento l’insieme delle “cose sacre” in quanto, se si dà qual­cosa, si otterrà altro in cam­bio. Insomma, il per­corso ini­zia­tico, attra­verso il sacri­fi­cio, sta­bi­li­sce un con­tratto fra il sin­golo, il gruppo e il mondo sovran­na­tu­rale, ma il patto può avve­nire uni­ca­mente tra­mite il sup­pli­zio. Più il tor­mento è pro­fondo, più la ricom­pensa attesa è maggiore.
L’educazione tra­di­zio­nale – dogon, ma non solo – mette i gio­vani di fronte alla cru­dezza dell’esistenza, ai rischi che com­porta il con­flitto in seno alla col­let­ti­vità e, di con­se­guenza, all’obbligo di sot­to­stare, senza discus­sioni, alle norme sta­bi­lite, seb­bene penose. Qual­siasi cam­bia­mento radi­cale appare qui rischioso.
All’insegna dell’obbedienza cieca
Ritro­viamo tale men­ta­lità nell’educazione impar­tita dalla reli­gione musul­mana e, più esat­ta­mente, dalle scuole cora­ni­che infor­mali, dove la tra­smis­sione del sapere e la for­ma­zione dei ragazzi avven­gono all’insegna dell’obbedienza cieca, del timore e, per­sino, dello sfrut­ta­mento dei pic­coli, costretti a men­di­care nelle strade. Le fami­glie rele­gano i figli in tenera età (3–4 anni) a per­so­naggi che si qua­li­fi­cano quali mara­bouts, inse­gnanti di scuola cora­nica (magari senza averne le com­pe­tenze). Que­sti difen­dono la durezza del loro modello edu­ca­tivo insi­stendo sul fatto che non si acqui­si­sce la cono­scenza senza sacri­fi­cio e che ciò for­gia il carat­tere dei giovani.
Certo, non tutte le scuole cora­ni­che si basano su tale modello, ma il feno­meno degli abusi nei con­fronti dei tali­bés (allievi) è dif­fu­sis­simo, nell’intera area sahelo-sahariana. A mezza voce, si sus­surra per­sino di vio­lenze ses­suali e cri­mini rituali. Alcuni mara­bouts fab­bri­che­reb­bero – con organi del corpo umano – dei feticci, richie­sti da una clien­tela acce­cata da una con­ce­zione distorta della religione.
Per il loro sta­tuto di bam­bini lon­tani dalle fami­glie e di stu­denti del Corano, i tali­bés si col­lo­cano in una situa­zione che li rende una “preda di prima scelta” agli occhi di una tale e aber­rante logica.
Tor­nando ora alle domande che ci siamo posti in aper­tura dell’articolo, circa le cause della fuga di un numero impres­sio­nante di minori non accom­pa­gnati dall’Africa. Anzi­ché insi­stere troppo su pro­ble­ma­ti­che politico-economiche, sug­ge­riamo di pun­tare il dito sulla rigi­dità di modelli edu­ca­tivi mar­cati dalla sof­fe­renza e sull’anacronismo di deter­mi­nate regole socie­tali, fon­date sull’assoggettamento dei gio­vani agli adulti. Per sot­trarsi a tale qua­dro sof­fo­cante, la via dell’esilio appare a taluni come la sola scap­pa­toia pos­si­bile, a dispetto dei pro­blemi da supe­rare e delle inco­gnite della migrazione.
D’altronde, l’abitudine al sacri­fi­cio sem­bra pre­di­sporre i ragazzi, memori dell’esodo dei loro avi, a sor­mon­tare qual­siasi osta­colo. Come con­dan­narli, sapendo cosa lasciano?

Fonte: il manifesto

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