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di Andrea Colasuonno
Solo in Puglia nelle ultime settimane sono morte, mentre lavoravano nei campi, 4 persone. Zakaria Ben Hassine, 42 anni, tunisino, morto a Polignano; Mohammed Abdullah, 47 anni, sudanese, morto a Nardò; Paola Clemente, 49 anni, italiana, morta ad Andria; Maria Lemma, 39 anni, italiana, morta a Ginosa.
Ad essere sotto accusa, a ragione, per queste morti, è il cosiddetto fenomeno del “caporalato”. Un “caporale”, come è noto, è un soggetto che fa da intermediario fra la manodopera e il padrone, assicurando a quest’ultimo operai da pagare pochissimo e disposti a lavorare molto. Ci riesce pescando in mezzo a gente che non ha alternative, ricorrendo a metodi illegali spesso violenti e ricattatori. Il “caporalato” è dunque un’attività illecita che ha come obiettivo lo sfruttamento della manodopera.
La Puglia è certamente la regione d’Italia in cui il fenomeno ha assunto le sue tinte più fosche, ad esserne colpito, tuttavia, è tutto il territorio nazionale. È un fenomeno difficile da studiare perché la galassia degli sfruttati è largamente eterogenea. Ovviamente ci sono gli stranieri: africani ma anche europei, per lo più dell’Est; con regolare permesso di soggiorno ma anche clandestini o rifugiati. Fra questi poi ci sono gli stagionali (che lavorano solo per qualche mese) o gli stanziali (che risiedono sempre nello stesso posto); quelli che vivono nei ghetti oppure in casolari abbandonati o ancora in normali case, magari in periferia; quelli che fanno lo stesso lavoro da anni, quelli che vogliono solo farsi i soldi per poi ripartire.
Ci sono però anche gli italiani. Quelli che hanno sempre lavorato in agricoltura e poi si sono dovuti piegare a lavorare per un caporale, o quelli che la crisi ha privato del loro lavoro e non hanno potuto far altro che adattarsi.
Il fenomeno dunque è di difficile inquadramento. Ha provato a darne lettura organica il rapporto “Agromafie e caporalato” pubblicato dal Flai nel 2014. Da quello abbiamo tratto i nostri dati.
400 mila sono i lavoratori sfruttati dai caporali. Di questi 100 mila sono in condizioni di grave assoggettamento, definite “paraschiavistiche” dal rapporto;
80 sono gli epicentri dello sfruttamento in Italia. In 55 di questi le condizioni di lavoro risultano “indecenti”;
più del 60% dei lavoratori sotto caporale non ha accesso a servizi igienici né all’acqua corrente, mentre il 70% presenta malattie (non segnalate prima dell’inizio della vita nei campi);
25/30 euro è la paga media per una giornata anche di 12 ore, esattamente il 50% in meno rispetto alla paga prevista dai contratti nazionali. 5 euro il caporale chiede ad ogni lavoratore per il trasporto sul posto di lavoro, 1,5 euro fa pagare una bottiglia d’acqua, 3,5 euro un panino;
Circa 1000 persone ospita il ghetto più grande d’Italia, a Rignano Garganico. I braccianti pagano un affitto ai caporali per viverci e sono costretti a farlo perché gli stessi assumono solo gente che abita nel ghetto;
600 milioni all’anno sono il gettito contributivo che l’Italia perde in conseguenza del caporalato.
I caporali arrestati o denunciati al momento della pubblicazione del rapporto sono 355, le leggi ad hoc esistono, possono essere migliorate, ma è anche difficile farle applicare. I numeri però ci parlano di un’emergenza. Sono numeri che raccontano di schiavitù, nel 2015, in Occidente, in un paese considerato fra i più evoluti del mondo. Numeri che in una repubblica che si dice fondata sul lavoro non dovrebbero esistere, visto che ci definiamo repubblica. E lo chiamiamo lavoro.
Fonte: Esseblog
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