
di Alessandro Del Ponte
Non è un mistero che il dibattito politico sia da sempre permeato da contenuti simbolici e da battaglie ideali, almeno sulla carta. La Storia, antica e recente, è costellata di episodi celebri in cui un disegno politico si fa strada mascherandosi con nobili intenti. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, diceva, per la penna di Tacito, il generale caledone Càlgaco dei Romani, con riferimento alla conquista della Britannia. In tempi recenti, come non ricordare l’imperativo categorico dell’era Bush jr., “esportare la democrazia”, vuoi in Afghanistan o in Iraq, per liberare quelle terre dal dominio di dittatori sanguinari come Saddam Hussein. Peccato che, come si suole dire, di buone intenzioni sia lastricato l’inferno. Espandere il proprio dominio ad ogni costo, mettere le mani su ricchi contratti petroliferi per le proprie aziende: si tratta di ragioni ineleganti per il grande pubblico.
Gli stessi meccanismi funzionerebbero anche per decisioni più quotidiane, come votare Destra, Sinistra o Centro; chiedere una maggiore o minore imposizione fiscale; espandere o ridurre i sussidi di disoccupazione e i programmi di welfare; addirittura, lo stesso discorso varrebbe anche per questioni innegabilmente morali a prima vista, come l’estensione o meno di alcuni diritti civili, la contraccezione, l’aborto, il divorzio, l’eutanasia.
Se credete che le vostre opinioni a riguardo siano dettate da ragioni filosofiche, religiose, morali di elevata caratura, sappiate che vi state illudendo. Così almeno sentenziano Robert Kurzban, professore di psicologia evoluzionistica all’Università della Pennsylvania, e Jason Weeden, giurista e ricercatore del Pennsylvania Laboratory for Experimental Evolutionary Psychology (PLEEP), nel loro recente saggio The Hidden Agenda of the Political Mind: How Self-Interest Shapes Our Opinions and Why We Won’t Admit It (Princeton University Press, 2014). Si tratta di un volume adatto al grande pubblico così come agli accademici professionisti: basti pensare che delle 350 pagine che lo compongono, oltre 100 sono dedicate all’appendice, ricca di dati e modelli di regressione lineare multipla su cui si basano le tesi degli autori.
In nuce, la questione posta dagli autori è che decenni di ricerca di scienza politica, psicologia sociale ed economia sul tema dei motivi delle scelte politiche e di voto (political attitudes) sono da rivedere profondamente. I risultati degli sforzi profusi dal mainstream fino ad oggi si possono riassumere con le seguenti parole di Don Kinder, uno dei maggiori scienziati politici americani contemporanei: “La società americana è caratterizzata da enormi differenze di reddito, educazione e ricchezza, ma tali differenze generalmente non danno origine a corrispondenti differenze in opinione [politica]”[2]. Kurzban e Weeden dedicano la loro opera a minare questa tesi dalle fondamenta.
Le variabili di controllo, queste sconosciute
Per variabili di controllo si intendono quegli indicatori demografici che i ricercatori includono nei loro sondaggi e nei loro esperimenti per poi studiare in quale relazione esse stanno con le variabili chiave di loro interesse. Classiche variabili di controllo sono età, sesso, reddito, provenienza geografica, status lavorativo, educazione. I ricercatori, specialmente quelli che conducono esperimenti, tendono troppo spesso a trascurarne l’importanza. Considerati più come un fastidioso obbligo di protocollo che come una preziosa fonte di informazione, tali dati raramente finiscono sotto la lente di ingrandimento degli accademici.
Kurzban e Weeden, al contrario, fondano tutta la loro argomentazione sulle variabili di controllo. Utilizzando dati di osservazione (cioè non sperimentali) della General Social Survey (GSS) americana raccolti negli ultimi tre decenni e della World Values Survey (WVS) risalenti agli ultimi vent’anni, gli autori provano a dimostrare che è l’interesse personale a determinare i propri valori di riferimento e a guidare le scelte politiche. La domanda che pervade il libro è se le posizioni politiche siano o meno legate alla situazione socioeconomica dell’individuo. Una semplice regressione tra opinione politica e variabili di controllo è in grado di gettar luce sulla questione.
Gli errori della saggezza convenzionale
Come nelle migliori inchieste giornalistiche, gli autori presentano un florilegio di citazioni dei più affermati professori di psicologia politica, sociale e morale, salvo poi sconfessarle clamorosamente poche righe dopo. In particolare, dall’analisi emerge che la saggezza convenzionale è corretta soltanto per quanto riguarda il tema delle tutele garantite alle donne lavoratrici. In questo caso, le opinioni in merito non differiscono in modo significativo tra donne in carriera e casalinghe. Tuttavia, per molte altre domande, la musica cambia. Prendiamo il controllo delle armi: chi ne possiede una tende ad essere contrario a restrizioni al loro uso, mentre chi ne è sprovvisto è più favorevole a limitarne la diffusione. Simili considerazioni valgono per i sussidi di disoccupazione, per la copertura sanitaria obbligatoria, il finanziamento alle scuole pubbliche e la riduzione della disuguaglianza economica.
Com’è possibile che in decenni di ricerca gli universitari di tutto il mondo non se ne siano accorti? La critica, a questo punto, diventa metodologica e apprezzabile soltanto dagli addetti ai lavori. In breve, il problema consisterebbe nel fatto che molte variabili di interesse delle scienze sociali sono fortemente correlate e questo può generare dei problemi statistici. Ad esempio, l’opinione in merito all’espansione dei sussidi di disoccupazione e quella in merito al ruolo che lo Stato dovrebbe avere nella riduzione delle diseguaglianze potrebbe essere piuttosto simile. Complicati modelli statistici potrebbero mischiare queste ed altre variabili in modi che falsano clamorosamente i risultati. A fini illustrativi, l’appendice del libro contiene un’esemplificazione con un dataset fittizio costruito ad hoc. La take-home lesson sarebbe che gran parte della letteratura contiene risultati genuinamente falsi, perché basati su metodi statistici inutilmente complicati, magari attraenti per gli accademici appassionati di metodi quantitativi, ma potenzialmente fuorvianti.
L’esperimento può essere affascinante, tuttavia appare sbrigativo censurare fiumi di inchiostro con un semplice atto dimostrativo. Servirebbe un lavoro immane e certosino per scardinare punto per punto il castello metodologico degli “avversari”, ma in dubio pro reo.
In morte dell’altruismo
In un certo senso, i dati snocciolati fin qui non dovrebbero sorprendere eccessivamente. Ma qui la tesi è più fondamentale: tutte le preferenze, incluse quelle politiche, scaturiscono dall’interesse individuale. Dimenticatevi le feconde teorie degli economisti comportamentali riguardanti le other-regarding preferences, quelle sull’altruismo, il warm glow, l’autostima, eccetera. Tali teorie giustificano le azioni apparentemente disinteressate offrendo diverse chiavi di lettura. Alcuni sostengono che semplicemente la nostra funzione di utilità include quelle degli altri in certa misura, ossia siamo più felici quando anche gli altri stanno bene rispetto a quando gli altri sono indigenti, entro certi limiti (basta, ad esempio, che restiamo in condizione di ricchezza relativa). Altri suggeriscono che siamo altruisti perché ci fa sentire bene (warm glow, come se fare del bene ci riscaldasse il cuore, in un certo senso); altri ancora affermano che le azioni pro-sociali siano da ascrivere al desiderio di aumentare la nostra autostima e migliorare l’immagine che abbiamo di noi stessi (“ah, come sono buono!”). In effetti, si tratta di spiegazioni poco sofisticate e che poco hanno a che vedere con il quadro evoluzionistico complessivo. Come afferma Kurzban nel suo Why Everyone Else Is A Hypocrite, per l’evoluzione la felicità non esiste, e l’autostima è solo un termometro del successo nelle relazioni interpersonali.
Tuttavia, quale che sia l’interpretazione corretta, l’altruismo è un fenomeno che esiste. Gli autori compiono un piccolo salto mortale per ricondurlo nell’interesse personale. Ricorrendo alle teorie evoluzionistiche e antropologiche che sottolineano l’importanza del gruppo nella lotta per la sopravvivenza della specie umana, Kurzban e Weeden coniano il termine interessi inclusivi per delineare gli interessi individuali e quelli dei propri cari e dei propri gruppi di appartenenza.
E’ lecito sollevare dei dubbi sull’opportunità di questa operazione. Avete elargito una donazione alla vostra parrocchia? Benché il vostro Dipartimento di Pubbliche Relazioni (chiamato comunemente “Io”) avanzi sofisticati ragionamenti sull’imperativo morale e la bellezza della carità, sappiate che lo avete fatto per interesse personale (o, meglio, inclusivo). Avete donato ai terremotati in Nepal? Si sa mai, un domani potrebbe capitare anche a voi. Egoisti! Avete assistito il vostro coniuge malato per anni e siete stati partnerfedeli? Lo avete fatto solo per tornaconto personale (o inclusivo). Vi siete immolati per la Patria? Chi vi credete di essere. I vostri geni egoisti hanno pensato che valeva la pena dare la vita per avvantaggiare, nella selezione naturale, il vostro gruppo a scapito di altri.
Vi chiederete come sia possibile curare interessi inclusivi così ampi. La spiegazione sta nel ruolo delle emozioni, il cui compito sarebbe di aiutarci a navigare nella complessità della vita sociale e raggiungere ciò che noi (o, meglio, che il nostro “Io inclusivo”) vogliamo.
E’ lecito però sollevare un punto: sebbene concepire il self-interest come qualcosa di ristretto al breve termine e riconducibile soltanto al denaro costituisca un approccio limitante e superato, ampliarne il concetto fino a racchiudere, potenzialmente, l’intero spettro delle azioni umane, rischia di svuotare di significato il termine stesso e privarlo di incisività nello spiegare il comportamento umano.
Portatori di anello e libertini
Ricapitolando: le persone effettuerebbero le scelte in modo da soddisfare gli interessi inclusivi. La giustificazione per il loro perseguimento proviene dal dipartimento di Pubbliche Relazioni, vale a dire ciò che noi chiamiamo il nostro “Io”. Le emozioni regolano le scelte e le relative giustificazioni che troviamo.
Vediamo come questa teoria si applica alle questioni politiche legate alla sfera sessuale. I nostri autori coniano due termini piuttosto evocativi per definire le posizioni più comuni in materia: Ring-Bearers (portatori di anello nuziale) e Freewheelers (letteralmente, gente che vive a ruota libera: libertini, diciamo). Viene persino suggerito un test per capire a quale delle due categorie appartenete (non temete, c’è anche la remota possibilità di non rientrare in nessuna delle due). Un esempio? Aggiungete un punto se siete omosessuali o bisessuali; un altro se convivete col partner fuori dal matrimonio; un altro se frequentate locali notturni (discoteche, pub, eccetera) almeno una volta al mese; un altro ancora se avete avuto più di cinque partner sessuali dall’età di 18 anni. Togliete un punto, invece, nei seguenti casi: nessun partner sessuale (o uno soltanto) dall’età adulta in poi; non girate per pub o discoteche.
Gli autori vanno oltre: suddividono i partecipanti alla GSS in portatori di anello e libertini, ne analizzano le opinioni di policy e ne traggono le conseguenze.
Come era facilmente immaginabile, tale suddivisione produce evidenze che confermano l’ipotesi avanzata dai due ricercatori: è l’interesse inclusivo a motivare le opinioni degli intervistati. La metodologia di classificazione risulta particolarmente debole e si presta a critiche. Ad esempio, non è dato sapere il motivo per cui l’orientamento sessuale costituirebbe, di per sé, libertinaggio; altre misure, come quella della frequentazione dei locali, risentono inevitabilmente dell’età dei rispondenti; l’elenco dei punti da sottrarre o aggiungere è sbilanciato a tutto vantaggio dei libertini; infine, si potrebbe obiettare che le misure derivano da stereotipi e l’elenco è del tutto arbitrario.
Ma veniamo alle questioni spinose: quali sarebbero i criteri in base ai quali le persone si batterebbero per una sessualità libera, contraccezione accessibile a tutti e magari sovvenzionata dal governo ed estensione dei diritti civili? Secondoi nostri, si tratterebbe di un implicito calcolo costi-benefici. I libertini, che spesso si sposano tardi per dedicarsi alla carriera accademica o professionale e desiderano avere figli in età più avanzata, avrebbero tutto l’interesse a metodi contraccettivi ampiamente disponibili e a rimanere al riparo da critiche dagli altri, per non sopportare il costo materiale degli acquisti e quello morale della condanna (che si tradurrebbe probabilmente in azione politica con conseguenze negative per il loro gruppo). I portatori d’anello, invece, tipicamente meno istruiti, con matrimoni e con figli in età più giovane, hanno tutto l’interesse ad avere un’unione duratura, per evitare il disastro economico di un divorzio (si pensi specialmente al caso delle madri sole con figli a carico). Intorno a loro, conviene che ci sia una società scevra di tentazioni e che faciliti il mantenimento dello status quo.
La logica è troppo centrata sugli Stati Uniti: gli autori hanno però il pregio di riconoscerlo, mostrando i risultati di un’analisi su un dataset della WVS, dove non si riescono ad individuare con altrettanta chiarezza i pattern cui si fa riferimento nel caso americano.
Lo strano caso degli harvardiani (o dei bocconiani d’America)
Nel saggio si analizza un’apparente incongruenza: come è possibile che la classe ’77 dei laureati di Harvard, oggetto di uno studio longitudinale, sia ricchissima, voti democratico in aggregato, ma i suoi membri più ricchi siano repubblicani? Gli autori si cimentano anche stavolta in un equilibrismo intellettuale: più si è ricchi, più la tassazione “fa male” e conviene sostenere l’Elefantino a stelle e strisce, in quanto i repubblicani, recentemente, hanno promosso un’agenda politica basata sui tagli delle tasse al 10% più ricco della popolazione. Tuttavia, in generale, i ragazzi della classe del ’77 sono estremamente dotati di “capitale umano”, pertanto vivono bene in una società meritocratica, che davvero tenta di offrire condizioni di partenza eguali per tutti i cittadini, in quanto gli harvardiani sono quelli che guadagnano maggiormente da un Paese che premia il merito.
In altri termini, appoggiare la redistribuzione del reddito mediante tasse sarebbe un modo per favorire l’avvento di una società più competitiva, pertanto gli individui meglio attrezzati per eccellere dovrebbero esser a favore di un maggiore carico fiscale, purché’ non siano troppo ricchi. A questo punto occorre una precisazione: gli autori tendono a confondere l’identificazione partitica con le opinioni di policy, come se queste ultime conducessero automaticamente alle prime. Tuttavia non è così. La politica basata sui partiti-contenitori è anche e soprattutto una sfida tra tifoserie contrapposte, dove la bandiera può contare a scapito dei contenuti, entro certi limiti. Si pensi alla scalata di Matteo Renzi al Partito Democratico, cui è seguita un’inequivocabile deriva verso il centro, per non dire il centro-destra. Se è vero che una porzione di elettorato storico di sinistra, proveniente dai DS e, in misura minore, dalla Margherita, ha ritirato il supporto al partito per via di posizioni di policy appiattite su quelle tradizionalmente appannaggio del centro-destra berlusconiano, una buona parte è restata fedele alla bandiera. Le evidenze empiriche nella letteratura internazionale sono miste, ma si può affermare con ragionevole convinzione che posizioni di policy e identificazione di partito possano influenzarsi reciprocamente e la relazione non sia unidirezionale.
La nostra agenda segreta
Quale sarebbe, dunque, l’agenda nascosta della nostra mente politica? Osservando i nostri stili di vita, le nostre abitudini e le nostre caratteristiche socioeconomiche, ciò che è reso opaco dalla cortina di fumo di dichiarazioni politiche, che solleticano i nostri recettori morali e fanno leva sulle nostre emozioni, diviene improvvisamente chiaro. A essere maligni, verrebbe da dire che Kurzban e Weeden sarebbero stati utilissimi consiglieri delle coalizioni di sinistra che per vent’anni hanno tentato – con scarso successo - di arginare il berlusconismo. Ancor di più, forse, ne avrebbero beneficiato i tecnici “saliti in politica” nell’autunno 2011, che hanno dovuto fare i conti con le magistrali circonvoluzioni retoriche e strategiche dei leader politici di destra e sinistra. Se avessero saputo smascherare di fronte agli italiani gli interessi personali (o inclusivi, in senso di mantenimento del potere della propria cerchia) di chi li aveva lasciati soli a somministrare la medicina amara che avrebbe salvato l’Italia dall’avvento della Troika, oggi il Paese sarebbe forse meno in balia dei populismi e maggiormente consapevole.
Sul piano scientifico, invece, Kurzban e Weeden offrono un’opera provocatoria e dotata di strumenti di analisi che erano stati colpevolmente dimenticati. Sebbene in tema di politica risulti difficile accogliere in toto la prospettiva puramente evoluzionistica, specie se si considerano dati che non provengono dalla “anomalia americana”, incorporarne alcuni elementi e adottare l’approccio rigoroso degli autori può evitare gli imbarazzi che certe fantasiose teorie economiche o sociologiche talvolta procurano nei lettori.
NOTE
[1] Alessandro Del Ponte è PhD student presso il Center for Behavioral Political Economy della Stony Brook University (SUNY, New York, USA).
[2] Kinder, D.R. (1998). Opinion and action in the realm of politics. In T.D. Gilbert, S.T.Fiske, & G. Lindzey (eds.), The handbook of social psychology (4THED.) Boston: McGraw-Hill.
Fonte: MicroMega online - Il Rasoio di Occam
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