La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 22 agosto 2015

Il fallimento di un sapere appiattito su un triste presente

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di Mauro Trotta
Se si pensa all’influenza che nel recente pas­sato una disci­plina come l’antropologia cul­tu­rale ha avuto nei con­fronti di tutti i campi del sapere, può sem­brare quanto meno impro­ba­bile che oggi tale mate­ria sia alla ricerca di un pro­prio spa­zio, si inter­ro­ghi radi­cal­mente sulle pro­prie fina­lità e sui pro­pri obiet­tivi, arrivi a rimet­tere in discus­sione i pro­pri pre­sup­po­sti. Eppure è pro­prio que­sto che emerge leg­gendo l’ultimo lavoro di Fran­ce­sco Remotti, inti­to­lato Per un’antropologia inat­tuale e pub­bli­cato da elèu­thera (pp. 136, euro 13).
L’autore è stato pro­fes­sore di Antro­po­lo­gia cul­tu­rale all’Università di Torino e rac­co­glie in que­sto agile libretto alcuni arti­coli, già pub­bli­cati in pre­ce­denza, che hanno il merito di comu­ni­care con lim­pi­dezza anche al let­tore non spe­cia­li­sta lo stato attuale della mate­ria e, soprat­tutto, di indi­care con chia­rezza e pre­ci­sione alcune solu­zioni volte a modi­fi­care la situa­zione resti­tuendo alla disci­plina auto­no­mia, dignità, impor­tanza all’interno del mondo del sapere.
Del resto – come si può evin­cere già dal titolo, secco e net­ta­mente schie­rato a favore di una deter­mi­nata ipo­tesi – il libro di Remotti sem­bra avere tutte le carat­te­ri­sti­che di un vero e pro­prio pam­phlet: espone senza infin­gi­menti i pro­blemi, pro­pone con forza le solu­zioni, non si nasconde die­tro alcuna patina «acca­de­mica», andando subito al cuore delle que­stioni. Insomma, è una bat­ta­glia cul­tu­rale quella che l’autore vuole por­tare avanti, volta a un rin­no­va­mento pro­fondo dello stato delle cose.
Inol­tran­dosi nella let­tura appare ben pre­sto chiaro che siamo lon­tani dai tempi in cui Levi-Strauss, con i suoi Tri­sti tro­pici, dava il via allo strut­tu­ra­li­smo. Anzi, pro­prio il fal­li­mento, in campo antro­po­lo­gico, dell’ipotesi strut­tu­ra­li­sta ha por­tato pro­ba­bil­mente alla situa­zione attuale. Una situa­zione in cui, in pra­tica, gli antro­po­logi hanno rinun­ciato a costruire grandi teo­rie, limi­tan­dosi a esporre i risul­tati delle pro­prie ricer­che sul campo. Que­sto, secondo Remotti, ha por­tato a una sorta di pol­ve­riz­za­zione dell’antropologia, che si pre­sena da un lato sem­pre più fram­men­tata, senza col­lanti teo­rici che ten­gano insieme i dati e i risul­tati dei vari lavori etno­gra­fici, dall’altro, con­se­guen­te­mente, con sem­pre minor peso sia a livello acca­de­mico – ren­den­dola in qual­che modo «campo di con­qui­sta» da parte di altre disci­pline con­ti­gue – sia dal punto di vista del sapere in gene­rale, dove appare quasi «ancella» rispetto ad altri settori.
Le solu­zioni pro­po­ste da Remotti per ribal­tare la situa­zione ver­tono, innanzi tutto, su di un pre­sup­po­sto estra­po­lato dalle Con­si­de­ra­zioni inat­tuali di Nie­tzsche. Occorre, appunto, met­tere in campo una vera e pro­pria antro­po­lo­gia inat­tuale. Citando il filo­sofo tede­sco, Fran­ce­sco Remotti defi­ni­sce tale agget­tivo come «l’atteggiamento di colui che si muove in modo inat­tuale – ossia con­tro il tempo, e in tal modo sul tempo e, spe­ria­molo, a favore di un tempo ven­turo». In sostanza, si tratta «di fre­quen­tare epo­che e cul­ture per meglio met­tere a fuoco le pecu­lia­rità del nostro tempo». Per­ché, quanto più gli antro­po­logi saranno in grado di accu­mu­lare «un sapere inat­tuale, tanto più esso potrà svi­lup­pare una cri­tica radi­cale e auten­ti­ca­mente antro­po­lo­gica della con­tem­po­ra­neità». Da que­sto discende natu­ral­mente da una parte il rifiuto per una ricerca antro­po­lo­gica total­mente appiat­tita sul pre­sente, sull’immediatezza, e il con­se­guente recu­pero e riu­ti­lizzo costrut­tivo di studi, dati, infor­ma­zioni sulle varie civiltà stu­diate anche nel pas­sato. Dall’altra il corag­gio di costruire teo­rie spe­ci­fi­ca­ta­mente antro­po­lo­gi­che a par­tire pro­prio dal sapere accu­mu­lato, senza asso­lu­ta­mente tra­la­sciare il lavoro sul campo.
Tali teo­rie dovreb­bero strut­tu­rarsi come reti di con­nes­sione, che abbiano «la forza non di domi­nare l’intera gamma delle diver­sità cul­tu­rali, ma di inol­trarsi in varie dire­zioni e per­sino di spin­gersi in ter­ri­tori pre­si­diati nor­mal­mente da altre scienze». Sol­tanto così, infatti, «per­se­guendo e attra­ver­sando l’inattualità cul­tu­rale» gli antro­po­logi saranno in grado «di dimo­strare la par­ti­co­lare e inso­sti­tui­bile attua­lità poli­tica» del loro sapere.

Fonte: il manifesto

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