La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 22 agosto 2015

La minaccia iraniana

di Noam Chomsky 
In tutto il mondo c’è grande sollievo e ottimismo per l’accordo sul nucleare raggiunto a Vienna tra l’Iran e il gruppo dei P5+1, i cinque membri del consiglio dell’ONU con diritto di veto più la Germania. La maggior parte del mondo apparentemente condivide la valutazione dell’Associazione USA per il Controllo degli Armamenti che “il Piano Congiunto Complessivo d’Azione stabilisce una formula forte ed efficace per bloccare tutte le vie attraverso le quali l’Iran potrebbe acquistare materiale per armi nucleari per più di una generazione e un sistema di verifica per individuare prontamente e scoraggiare possibili tentativi dell’Iran di perseguire segretamente armi nucleari che durerà indefinitamente”.
Ci sono, tuttavia, eccezioni appariscenti all’entusiasmo generale: gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati regionali, Israele e Arabia Saudita. Una conseguenza di ciò è che alle industrie statunitensi, con loro grande disappunto, è impedito di riversarsi su Teheran assieme alle loro omologhe europee. Settori di punta del potere e dell’opinione statunitense condividono la posizione dei due alleati regionali e dunque sono in uno stato di virtuale isterismo per “la minaccia iraniana”.
Commenti misurati negli Stati Uniti, in larga misura trasversali, dichiarano che quel paese costituisce “la più grave minaccia alla pace mondiale”. Persino sostenitori dell’accordo, qui, sono diffidenti, considerata l’eccezionale gravità di tale minaccia. Dopotutto come possiamo fidarci degli iraniani con la loro terribile storia di aggressioni, violenze, interferenze e inganni?
L’opposizione all’interno della classe politica è così forte che l’opinione pubblica è passata presto da un considerevole sostegno all’accordo a un’uniforme spaccatura. I Repubblicani si oppongono quasi unanimemente all’accordo. Le attuali primarie Repubblicane illustrano i motivi proclamati: il senatore Ted Cruz, considerato uno degli intellettuali nell’affollato campo dei candidati alla presidenza, avverte che l’Iran può ancora produrre armi nucleari e potrebbe un giorno usarne una per scatenare un Impulso Elettromegnatico che “abbatterebbe la griglia elettrica dell’intera costa orientale” degli Stati Uniti, uccidendo “decine di milioni di statunitensi”.
I due vincitori più probabili, l’ex governatore della Floria Jeb Bush e il governatore del Wisconsin Scott Walker, si stanno battendo su se bombardare l’Iran immediatamente dopo essere stati eletti o dopo la prima riunione di gabinetto. L’unico candidato con quale esperienza di politica estera, Lindsey Graham, descrive l’accordo come “una condanna a morte per lo stato d’Israele”, che giungerà certamente come una sorpresa agli analisti strategici e dei servizi segreti israeliani, e che Graham sa essere una totale insensatezza, suscitando immediate domande sui veri motivi.
Si tenga presente che i Repubblicani hanno da tempo abbandonato ogni pretesa di operare come un normale partito del Congresso. Come ha osservato il rispettato commentatore politico conservatore Norman Ornstein dell’American Enterprise Institute di destra, sono diventati “un’insurrezione radicale” che a malapena cerca di partecipare alla normale politica del Congresso.
Dai giorni del presidente Ronald Reagan la dirigenza del partito è affondata così profondamente nelle tasche degli ultraricchi e del settore societario che possono attirare voti solo mobilitando parti della popolazione che non sono state in precedenza una forza politica organizzata. Tra loro ci sono i cristiani evangelici estremisti, oggi probabilmente la maggioranza degli elettori Repubblicani, residui degli ex stati schiavisti, nativisti che sono terrorizzati che “loro” ci portino via il nostro paese bianco cristiano anglosassone e altri che trasformano le primarie Repubblicane in spettacoli remoti dalla prevalente società moderna, anche se non dalla prevalenza del paese più potente della storia mondiale.
L’abbandono degli standard globali, tuttavia, si spinge molto oltre i confini dell’insurrezione radicale Repubblicana. Attraverso l’intero spettro politico, ad esempio, c’è un generale accordo con le “conclusioni pragmatiche” del generale Martin Dempsey, presidente dei Capi di Stato Maggiore Congiunti, che l’accordo di Vienna non “impedisce agli Stati Uniti di attaccare strutture iraniane se i dirigenti decidono che sta mentendo sull’accordo” anche se un attacco militare unilaterale è “molto meno probabile” se l’Iran si comporta bene.
L’ex negoziatore di Clinton e Obama per il Medio Oriente, Dennis Ross, solitamente raccomanda che “l’Iran non deve nutrire dubbi che se lo vediamo muoversi in direzione di un’arma, ciò scatenerebbe l’uso della forza” anche dopo la scadenza dell’accordo, quando l’Iran teoricamente è libero di fare ciò che vuole. Di fatto l’esistenza di una data di scadenza a 15 anni da oggi è, egli aggiunge, “il maggior singolo problema dell’accordo”. Egli suggerisce anche che gli Stati Uniti offrano a Israele bombardieri B-52 con equipaggiamento speciale e bombe a penetrazione per proteggersi prima che arrivi quella data terrificante.
“La più grande minaccia”
Gli avversari dell’accordo sul nucleare addebitano che non si spinge abbastanza in là. Alcuni sostenitori concordano, affermando che “se l’accordo di Vienna deve significare qualcosa, l’intero Medio Oriente deve liberarsi dalle armi di distruzione di massa”. L’autore di queste parole, il ministro iraniano degli affari esteri Javad Zarif ha aggiunto che “l’Iran, nella sua qualità di nazione e come attuale presidente del Movimento dei Non Allineati [i governi della grande maggioranza della popolazione mondiale] è pronto a collaborare con la comunità internazionale per conseguire questi obiettivi, sapendo benissimo che, lungo il percorso, probabilmente incontrerà molti ostacoli posti dagli scettici della pace e della diplomazia”. L’Iran ha firmato “accordo storico sul nucleare”, egli prosegue, e ora è la volta di Israele, “il solo oppositore”.
Israele, naturalmente, è una delle tre potenze nucleari, assieme a India e Pakistan, i cui programmi di armamenti sono stati agevolati dagli Stati Uniti e che si rifiutano di firmare il Trattato di Non Proliferazione (NPT).
Zarif si riferiva alla regolare conferenza quinquennale di verifica del NPT, che è finita con un fallimento in aprile, quando gli USA (insieme con Canada e Gran Bretagna) hanno ancora una volta bloccato i tentativi di progredire in direzione di una zona esente da armi di distruzione di massa in Medio Oriente. Tali tentativi sono guidati dall’Egitto e da altri stati arabi da vent’anni. Come osservano Jayantha Dhanapala e Sergio Duarte, due figure di spicco nella promozione di tali tentativi presso il NPT e altre agenzie dell’ONU, in “C’è un futuro per il NPT?”, un articolo sulla rivista dell’Associazione per il Controllo degli Armamenti: “La riuscita adozione nel 1995 della risoluzione sulla creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa (WMD) in Medio Oriente è stata il principale elemento di un pacchetto che ha permesso l’indefinita estensione del NPT”. Il NPT, a sua volta, è il trattato sul controllo delle armi più importante di tutti. Se vi fosse aderito potrebbe por fine alla piaga delle armi nucleari.
L’attuazione della risoluzione è stata ripetutamente bloccata dagli USA, più di recente dal presidente Obama nel 2010 e di nuovo nel 2015, come segnalano Dhanapala e Duarte “nell’interesse di uno stato che non è membro del NPT e che è diffusamente ritenuto essere il solo nella regione a possedere armi nucleari”, un garbato e velato riferimento a Israele. Questo fallimento, sperano, “non sarà il colpo di grazia ai due obiettivi di vecchia data del NPT di un progresso accelerato al disarmo nucleare e della creazione di una zona libera da WMD in Medio Oriente”.
Un Medio Oriente libero da armi nucleari sarebbe una via diretta per affrontare qualsivoglia minaccia l’Iran presumibilmente ponga, ma nel continuo sabotaggio di Washington del tentativo al fine di proteggere il suo vassallo israeliano è in gioco molto di più. Dopotutto non è il solo caso in cui occasioni di por fine alla presunta minaccia iraniana sono state minate da Washington, sollevando ulteriori domande su che sia realmente in gioco.
Nel considerare tale questione è istruttivo esaminare sia gli assunti taciuti nella situazione sia le domande che sono raramente poste. Consideriamo alcuni di tali assunti, a cominciare dal più grave: che l’Iran costituisca la minaccia più grave alla pace mondiale.
Negli USA è virtualmente un cliché tra gli alti dirigenti e i commentatori che l’Iran vince questo sinistro premio. C’è anche un mondo fuori dagli Stati Uniti e anche se le sue idee non sono riferite nell’opinione corrente da noi, forse sono di qualche interesse. Secondo le principali agenzie di sondaggio occidentali (WIN, Gallup International) il premio per la “maggiore minaccia” è vinto dagli Stati Uniti. Il resto del mondo li considera la minaccia più grave alla pace mondiale con un ampio margine. Al secondo posto, molto più in basso, c’è il Pakistan, con la sua posizione probabilmente gonfiata dal voto indiano. L’Iran si posiziona sotto questi due, assieme a Cina, Israele, Corea del Nord e Afghanistan.
“Il principale sostenitore mondiale del terrorismo”
Passando all’ovvia domanda successiva: qual è in realtà la minaccia iraniana? Perché, ad esempio, Israele e l’Arabia Saudita tremano di paura per quel paese? Quale che sia la minaccia, difficilmente essa può essere militare. Anni fa i servizi segreti statunitensi hanno informato il Congresso che l’Iran ha una spesa militare molto bassa secondo i parametri della regione e che le sue dottrine strategiche sono difensive, intese, cioè, a scoraggiare l’aggressione. La comunità dei servizi segreti USA ha anche scritto di non avere prove che l’Iran stia perseguendo un reale programma di armamenti nucleari e che “il programma nucleare iraniano e la sua volontà di mantenere aperta la possibilità di sviluppare armi nucleari sono una parte centrale della sua strategia di deterrenza”.
L’autorevole analisi SIPRI degli armamenti globali classifica gli USA, al solito, bene in testa nella spesa militare. La Cina viene seconda con circa un terzo della spesa statunitense. Molto sotto ci sono Russia e Arabia Saudita che sono tuttavia ben sopra ogni stato occidentale europeo. L’Iran è a malapena citato. Dettagli completi sono forniti in un rapporto di aprile del Centro di Studi Strategici e Internazionali (CSIS) che rileva “una tesi conclusiva che gli stati del Golfo Arabo hanno … un vantaggio schiacciante sull’Iran sia nella spesa militare sia nell’accesso ad armi moderne”.
La spesa militare dell’Iran, ad esempio, è una frazione di quella dell’Arabia Saudita e molto inferiore persino alla spesa degli Emirati Arabi Uniti (UAE). Complessivamente gli stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo – Bahrein, Kuwait, Oman, Arabia Saudita e UAE – superano l’Iran nella spesa per armi di un fattore di otto, uno squilibrio vecchio di decenni. Il rapporto del CSIS aggiunge: “Gli stati del Golfo Arabo hanno acquistato e stanno acquistando alcune delle armi più avanzate e più efficaci del mondo [mentre] l’Iran è stato essenzialmente costretto a vivere nel passato, spesso affidandosi a sistemi in origine consegnati ai tempi dello Scià”. In altre parole, sono virtualmente obsoleti. Quando si tratta di Israele, ovviamente, lo squilibrio è anche maggiore. Possedendo gli armamenti statunitensi più avanzati e costituendo una virtuale base militare statunitense all’estero, il paese ha anche un’enorme riserva di armi nucleari.
Di certo Israele ha di fronte la “minaccia esistenziale” delle dichiarazioni iraniane: Il leader supremo Khamenei e l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad l’hanno notoriamente minacciato di distruzione. Salvo che non l’hanno minacciato, e se l’avessero fatto sarebbe stato di scarsa importanza. Ahmadinejad, ad esempio, predisse che “a Dio piacendo [il regime sionista] sarà cancellato dalle carte geografiche”. In altri termini egli auspicava che un giorno avesse luogo un cambio di regime. Anche ciò è ben inferiore ai diretti appelli sia di Washington sia di Tel Aviv per un cambiamento di regime in Iran, per non parlare delle iniziative intraprese per attuare il cambio di regime. Esse, ovviamente, risalgono all’effettivo “cambio di regime” del 1953, quando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna organizzarono un colpo di stato militare per rovesciare il governo parlamentare dell’Iran e insediare la dittatura dello Scià, che procedette ad accumulare uno dei peggiori bagagli del pianeta, quanto ai diritti umani.
Questi crimini sono stati certamente noti ai lettori dei rapporti di Amnesty International e di altre organizzazioni per i diritti umani, ma non ai lettori della stampa statunitense, che ha dedicato un mucchio di spazio alle violazioni iraniane dei diritti umani … ma solo dal 1979, quando il regime dello Scià fu rovesciato. (Per controllare i fatti al riguardo leggete The US Press and Iran [La stampa USA e l’Iran], uno studio ben documentato di Mansour Farhang e William Dorman).
Nulla di tutto questo si allontana dalla norma. Gli Stati Uniti, come è ben noto, detengono il titolo di campioni mondiali quanto ai cambiamenti di regime e nemmeno Israele ci va leggero. La più distruttiva delle sue invasioni del Libano, nel 1982, era esplicitamente mirata al cambio di regime, oltre che ad assicurare la sua presa sui territori occupati. I pretesti offerti erano esili e sono crollati immediatamente. Anche ciò non è insolito ed è parecchio indipendente dalla natura della società, dai lamenti nella Dichiarazione d’Indipendenza riguardo ai “feroci selvaggi indiani” alla difesa di Hitler della Germania dal “terrorismo folle” dei polacchi.
Nessun analista serio crede che l’Iran userebbe mai, o persino minaccerebbe di usare, un’arma nucleare se ne avesse una, subendo così una distruzione istantanea. C’è, tuttavia, la preoccupazione reale che un’arma nucleare possa cadere in mani jihadiste, non grazie all’Iran ma per mano dell’alleato statunitense Pakistan. Nella rivista del Royal Institute of International Affairs due eminenti scienziati nucleari pachistani, Pervez Hoodbhoy e Zia Mian, scrivono che crescenti timori di “militanti che s’impossessino di armi o materiali nucleari [hanno condotto alla] … creazione di una forza dedicata di più di 20.000 soldati a guardia delle strutture nucleari. Non c’è motivo di presumere, tuttavia, che tale forza sarà immune dai problemi associati alle unità a guardia di normali strutture militari” che hanno spesso subito attacchi con “aiuto interno”. In breve, il problema è reale, solo che è spostato in Iran per fantasie ideate per altre ragioni.
Altre preoccupazioni per la minaccia iraniana includono il suo ruolo di “maggior sostenitore mondiale del terrorismo”, che principalmente si riferisce al suo sostegno a Hezbollah e a Hamas. Entrambi tali movimenti sono emersi come resistenza alla violenza e aggressione israeliana sostenuta dagli USA, che supera di gran lunga qualsiasi cosa attribuita a questi cattivi, per non parlare della pratica normale del potere egemonico la cui campagna globale di assassinio mediante droni domina da sola (e aiuta a incoraggiare) il terrorismo internazionale.
Quei due cattivi vassalli iraniani condividono anche il crimine di aver conquistato il voto popolare nelle sole elezioni libere nel mondo arabo. Hezbollah è colpevole del crimine ancora più odioso di avere costretto Israele a ritirarsi dalla sua occupazione del Libano meridionale, che aveva avuto luogo in violazione degli ordini del Consiglio di Sicurezza dell’ONU risalenti a decenni addietro e che aveva implicato un regime illegale di terrorismo e a volte di violenza estrema. Qualsiasi cosa si pensi di Hezbollah, Hamas o di altri beneficiari del sostegno iraniano, l’Iran difficilmente si classifica in alto nel sostegno al terrorismo a livello mondiale.
“Alimentazione dell’instabilità”
Un’altra preoccupazione, espressa all’ONU dall’ambasciatrice statunitense Samantha Power, è “l’instabilità che l’Iran alimenta al di là del suo programma nucleare”. Gli Stati Uniti continueranno a vagliare questo cattivo comportamento, ha dichiarato. In ciò ella ha fatto eco all’assicurazione del Segretario alla Difesa, Ashton Carter, offerta mentre si trovava al confine settentrionale di Israele, che “noi continueremo ad aiutare Israele a contrastare la maligna influenza dell’Iran” nel suo appoggio a Hezbollah, e che gli Stati Uniti si riservano il diritto di usare contro l’Iran la forza militare quando lo riterranno opportuno.
Il modo in cui l’Iran “alimenta l’instabilità” può essere visto in modo particolarmente spettacolare in Iraq dove, tra altri crimini, è stato il solo a intervenire immediatamente in aiuto dei curdi che si difendevano dall’invasione dei militanti dello Stato Islamico, mentre sta costruendo una centrale elettrica da 2,5 miliardi di dollari nella città portuale meridionale di Basra per contribuire a riportare l’energia elettrica al livello raggiunto prima dell’invasione del 2003. Il linguaggio dell’ambasciatrice Power è, tuttavia, standard: a causa di quell’invasione centinaia di migliaia di persone furono uccise e furono generati milioni di profughi, furono commessi atti barbari di tortura – gli iracheni hanno paragonato la distruzione all’invasione dei mongoli del tredicesimo secolo – lasciando l’Iraq come il paese più infelice del mondo, secondo i sondaggi WIN/Gallup. Nel frattempo è stato istigato un conflitto settario, facendo a brandelli la regione e gettando le basi per la creazione di quella mostruosità che è l’ISIS. E tutto questo è chiamato “stabilizzazione”.
Solo le azioni vergognose dell’Iran, tuttavia, “alimentano l’instabilità”. Il linguaggio standard a volte raggiunge livelli che sono quasi surreali, come quando il commentatore liberale James Chace, ex redattore di Foreign Affairs, spiegò che gli Stati Uniti avevano cercato di “destabilizzare un governo marxista liberamente eletto in Cile” perché “eravamo decisi e perseguire la stabilità” sotto la dittatura di Pinochet.
Altri sono indignati per il fatto stesso che Washington negozi con un regime “spregevole” come quello dell’Iran, con i suoi orribili precedenti quanto ai diritti umani e sollecitano invece che noi perseguiamo “un’alleanza patrocinata dagli Stati Uniti tra Israele e gli stati sunniti”. Così scrive Leon Wieselter, collaboratore della venerabile rivista liberale The Atlantic, che a malapena riesce a celare il suo odio viscerale per tutto ciò che è iraniano. Con volto imperturbabile questo rispettato intellettuale liberale raccomanda che l’Arabia Saudita, che fa sembrare l’Iran un virtuale paradiso, e Israele, con i suoi malvagi crimini a Gaza e altrove, dovrebbero allearsi per insegnare a quel paese come ci si comporta. Forse la raccomandazione non è del tutto irragionevole se si considerano i passati sui diritti umani dei regimi che gli Stati Uniti hanno imposto e appoggiato in tutto il mondo.
Anche se il governo iraniano è indubbiamente una minaccia per il suo stesso popolo, sfortunatamente non batte alcun record al riguardo, non scendendo al libello di alleati favoriti degli Stati Uniti. Ciò, comunque, non può essere la preoccupazione di Washington, e certamente non di Tel Aviv o di Riyadh.
Potrebbe anche essere utile ricordare – sicuramente gli iraniani lo ricordano – che dal 1953 non passò giorno in cui gli Stati Uniti non facessero del male agli iraniani. Dopotutto, non appena essi rovesciarono nel 1979 l’odiato regime dello Scià imposto dagli Stati Uniti, Washington diede il suo sostegno al leader iracheno Saddam Hussein che nel 1980 avrebbe lanciato un’aggressione assassina contro il loro paese. Il presidente Reagan si spinse fino a negare il maggior crimine di Saddam, il suo attacco chimico bellico contro la popolazione curda dell’Iraq, di cui egli invece incolpò l’Iran. Quando Saddam fu processato per crimini sotto gli auspici degli Stati Uniti, quell’orrendo crimine, così come altri di cui gli Stati Uniti erano stati complici, fu attentamente escluso dalle accuse, che furono limitate a una di crimini minori, l’assassinio di 148 sciiti nel 1982, una nota a più di pagina della sua storia raccapricciante.
Saddam fu un amico così prezioso di Washington che gli fu persino accordato un privilegio altrimenti concesso solo a Israele. Nel 1987 alle sue forze fu consentito di attaccare impunemente una nave USA, la USS Stark. (Israele aveva agito in modo simile nel suo attacco del 1967 alla USS Liberty). L’Iran in larga misura ammise la sconfitta poco dopo, quando gli Stati Uniti lanciarono l’operazione Praying Mantis contro navi e piattaforme petrolifere iraniane nelle sue acque territoriali. Quell’operazione culminò quando la USS Vincennes, non sottoposta ad alcuna minaccia credibile, abbatté un aereo civile iraniano nello spazio aereo iraniano, con 290 uccisi e la successiva concessione della Medaglia al Merito al comandante della Vincennes per “condotta eccezionalmente meritoria” e per aver mantenuto “un’atmosfera calma e professionale” nel corso dell’attacco all’aereo civile. Commenta il filosofo Thill Raghu: “Possiamo solo restare sbigottiti di fronte a una simile manifestazione di eccezionalismo statunitense!”
Dopo la fine della guerra gli Stati Uniti continuarono ad appoggiare Saddam Hussein, il principale nemico dell’Iran. Il presidente George H.W.Bush invitò persino ingegneri nucleari iracheni negli Stati Uniti per un addestramento avanzato nella produzione di armamenti, una minaccia estremamente grave per l’Iran. Le sanzioni contro tale paese furono intensificate, comprendendone contro aziende straniere che trattavano con esso, e furono avviate iniziative per metterlo al bando dal sistema finanziario internazionale.
In anni recenti l’ostilità si è estesa al sabotaggio, all’assassinio di scienziati nucleari (presumibilmente da parte di Israele) e alla guerra informatica, proclamata apertamente con orgoglio. Il Pentagono considera la guerra informatica un atto di guerra che giustifica una reazione militare, così come fa la NATO, che ha affermato nel settembre 2014 che gli attacchi informatici possono innescare obblighi di difesa collettiva delle potenze NATO; quando il bersaglio siamo noi, cioè, non quando siamo i perpetratori.
“Il principale stato canaglia”
E’ solo corretto aggiungere che ci sono state eccezioni a questo schema. Il presidente George W. Bush, ad esempio, ha offerto diversi doni significativi all’Iran distruggendone i maggiori nemici, Saddam Hussein e i talebani. Ha persino posto sotto la sua influenza il nemico iracheno dell’Iran dopo la sconfitta statunitense, che è stata così grave che Washington ha dovuto abbandonare i propri obiettivi dichiarati di creare basi militari permanenti (“campi durevoli”) e di assicurare che le società statunitensi avessero un accesso privilegiato alla vaste risorse petrolifere dell’Iraq.
I dirigenti iraniani intendono sviluppare armi nucleari oggi? Possiamo decidere per conto nostro quanto siano credibili le loro smentite, ma che essi avessero avuto tale intenzione in passato è fuori discussione. Dopo tutto era stato affermato pubblicamente dalla più alta autorità e giornalisti stranieri erano stati informati che l’Iran avrebbe sviluppato armi nucleari “sicuramente, e prima di quanto si pensi”. Il padre del programma energetico nucleare iraniano ed ex capo dell’Organizzazione dell’Energia Atomica dell’Iran aveva fiducia che il piano della dirigenza “era di costruire una bomba atomica”. Anche la CIA aveva riferito che non aveva “alcun dubbio” che l’Iran avrebbe sviluppato armi nucleari se i paesi confinanti l’avessero fatto (come hanno fatto).
Tutto questo, naturalmente, accadeva sotto lo Scià, “la più alta autorità” citata e in un periodo in cui dirigenti statunitensi – Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Henry Kissinger, tra altri – lo sollecitavano a procedere con il suo programma nucleare e premevano sulle università per agevolare tali sforzi. Sotto tali pressioni la mia stessa università, il MIT, fece un accordo con lo Scià per ammettere studenti iraniani al programma di ingegneria nucleare in cambio di finanziamenti da lui offerti e contro forti obiezioni del corpo studentesco, ma con sostegno paragonabilmente forte dei docenti (in una riunione che i vecchi docenti indubbiamente ricordano bene).
Richiesto successivamente del perché avesse appoggiato tali programmi sotto lo Scià ma vi si fosse opposto più recentemente, Kissinger ha risposto onestamente che allora l’Iran era un alleato.
Mettendo da parte le assurdità, qual è la reale minaccia dell’Iran che ispira tanta paura e tanta furia? Un posto naturale cui rivolgersi per una risposta sono, di nuovo, i servizi segreti statunitensi. Si ricordi la loro analisi che l’Iran non pone alcuna minaccia militare, che le sue dottrine strategiche sono difensive che il suo programma nucleare (senza alcun tentativo di produrre bombe per quanto si può stabilire) sono una “parte centrale della sua strategia di deterrenza”.
Chi, allora, sarebbe preoccupato per un deterrente iraniano? La risposta è semplice: gli stati canaglia che infuriano nella regione e che non vogliono tollerare alcun impedimento alla loro dipendenza dall’aggressione e dalla violenza. Alla guida, a questo riguardo, ci sono gli Stati Uniti e Israele, con l’Arabia Saudita che fa del suo meglio per aderire al club con la sua invasione del Bahrain (a sostegno della repressione di un movimento riformista là) e oggi con il suo attacco assassino allo Yemen, accelerando una crescente catastrofe umanitaria in quel paese.
Per gli Stati Uniti la rappresentazione è familiare. Quindici anni fa l’eminente analista politico Samuel Huntington, docente di scienza del governo ad Harvard, avvertì nella rivista dell’establishment Foreign Affairs che per gran parte del mondo gli Stati Uniti stavano “diventando la superpotenza canaglia … la singola maggiore minaccia esterna alle loro società”. Poco dopo alle sue parole fece eco Robert Jervis, presidente dall’Associazione Statunitense delle Scienza Politiche: “Agli occhi di gran parte del mondo, in realtà, il principale stato canaglia sono oggi gli Stati Uniti”. Come abbiamo visto, l’opinione pubblica globale appoggia tale giudizio con un margine considerevole.
Inoltre il mantello è indossato con orgoglio. Questo è il chiaro messaggio dell’insistenza della classe politica che gli Stati Uniti si riservano il diritto di ricorrere alla forza se stabiliscono unilateralmente che l’Iran sta violando qualche impegno. Questa politica è di vecchia data, specialmente per i Democratici liberali, e assolutamente non limitata all’Iran. La Dottrina Clinton, ad esempio, ha confermato che gli Stati Uniti avevano titolo a ricorrere all’”uso unilaterale della potenza militare” persino per assicurare “l’accesso incontrastato a mercati, forniture energetiche e risorse strategiche chiave”, per non parlare della presunta “sicurezza” o delle preoccupazioni “umanitarie”. L’aderenza a varie versioni di questa dottrina è stata ben confermata nella pratica, come c’è poca necessità di discutere tra persone disposte a guardare ai fatti della storia attuale.
Queste sono alcune delle questioni critiche su cui dovrebbe concentrarsi l’attenzione nell’analizzare l’accordo di Vienna sul nucleare, che regga o sia sabotato dal Congresso, come potrà ben essere.
Noam Chomsky è institute professor emerito del dipartimento di linguistica e filosofia del Massachusetts Institute of Technology. Collaboratore di Tom Dispatch, tra i suoi libri recenti ci sono ‘Hegemony or Survival, Failed States, Power Systems, Hopes and Prospects’ e ‘Masters of Mankind’. Haymarket Books ha recentemente ripubblicato dodici dei suoi libri classici in nuove edizioni. Il suo sito web è www.chomsky.info.

Questo articolo è apparso originalmente su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute che offre un flusso costante di fonti, notizie a opinioni alternative da Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project e autore di ‘The End of Victory Culture’ e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars and a Global Security State in a Single Superpower World’ (Haymarket Books).
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-iranian-threat/
Originale: TomDispatch.com
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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