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Intervista a Carmelo Barbagallo di Antonio Sciotto
È il suo pallino da quando, 9 mesi fa, Carmelo Barbagallo è stato eletto segretario generale della Uil: unire le tre confederazioni, tornare a quel «patto federativo che è morto con l’accordo di San Valentino» (era il 1984 e al governo c’era Craxi, ere geologiche fa). Per il sindacato, a suo parere, è l’ultimo treno: stretto com’è tra i licenziamenti e la precarietà dilagante, la fine dell’articolo 18 e le crescenti difficoltà dei pensionati, può giocarsi ormai solo la carta di un nuovo protagonismo politico. Senza trascurare la presenza nei posti di lavoro — «dobbiamo andarci noi, proprio lì dove ci sono i problemi» — e la capacità di contrattare. Il leader della Uil, d’altronde, è partito molto giovane dalle linee della Fiat di Termini Imerese: e nel suo paesino siciliano è tornato in questi giorni per trascorrere le vacanze.
In questi giorni si sono riaperte le polemiche sulla rappresentanza dei lavoratori: vi accusano di perdere iscritti. E scontri sulle cifre a parte, non sembra che godiate di ottima salute.
"Se pensiamo che negli anni della crisi ci sono stati 1,5 milioni di licenziati credo che stiamo reggendo bene. Comunque sì, il sindacato deve cambiare: innanzitutto deve stare in mezzo alle persone, dove c’è bisogno. E poi serve una nuova federazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil: quella che si è interrotta con l’accordo di San Valentino del 1984. Proprio a voi del manifesto avevo raccontato che stavo ristrutturando apposta la saletta per le segreterie unitarie, e dopo tante insistenze finalmente il mese scorso ci siamo incontrati. La riunione è durata 4 ore, ci sono punti su cui abbiamo già una sintesi, mentre su altri i nostri esperti sono al lavoro, perché ci sono difficoltà. Anche se litighiamo al nostro interno, presentiamoci però unitariamente di fronte alle imprese e al governo."
Con questo governo non riuscite proprio ad andare d’accordo. Ora si pensa a una legge sulla rappresentanza e la Cisl ha già detto no. Voi cosa ne dite?
"Il governo finora ha spostato i rapporti di forza a favore degli imprenditori, ha dato tutto a loro e tolto diritti a chi lavora. Adesso vuole mettere le mani anche sulla rappresentanza. Noi siamo contrari a una decisione per legge. Segnalo che c’è già un accordo tra le parti, siglato un anno e mezzo fa con la Confindustria, e che stiamo estendendo alle altre associazioni. Non avemmo problemi ad accettare le regole della rappresentanza nel pubblico impiego, e siamo d’accordo con la soglia del 5% per sancire il diritto di sedersi al tavolo. Dovremmo fare un accordo per individuare un nuovo ente certificatore, visto che il Cnel scomparirà. Potrebbe essere l’Aran, o il Civ dell’Inps."
Altra riforma in cantiere, quella del contratto nazionale. Tornerebbero le gabbie salariali.
"Noi siamo per la riforma del modello contrattuale, ma senza cancellare il contratto nazionale. Questo resta una garanzia visto che il 90–95% delle imprese italiane sono piccole e piccolissime: e se la stessa Confindustria si rifiuta di fare contrattazione di territorio o di settore, ci dicano poi come si fa a fare contrattazione dove hai 4 o 5 dipendenti. Ciò detto, siamo per la valorizzazione del secondo livello. Noi la definiamo «geometria variabile»: dove non c’è il contratto aziendale, conservi le garanzie del nazionale, mentre se l’impresa accetta di siglare un secondo livello, lì si può discutere ad esempio di produttività."
Siete sempre convinti della necessità di agganciare gli aumenti del contratto nazionale alla crescita del Pil? È un modello su cui per ora con Cgil e Cisl non c’è una intesa.
"Adesso che la ripresa può e deve arrivare — da tempo chiediamo investimenti pubblici e privati per sostenerla — noi dobbiamo redistribuire la ricchezza che si produce. E se tu sostieni i redditi, poi a tua volta aiuti la crescita: ricordiamo che il 75% delle imprese italiane produce per il mercato interno. E ricordiamo un altro dato: i veri “ammortizzatori sociali”, ovvero i pensionati, hanno avuto mancati adeguamenti per 18 miliardi di euro negli ultimi anni. E un mancato adeguamento c’è stato, ma per ben 35 miliardi, anche per i dipendenti pubblici."
Il governo vuole mettere mano anche al diritto di sciopero, limitarlo a partire dal pubblico.
"In tempi non sospetti, e lo abbiamo già sperimentato una volta in Alitalia, abbiamo proposto lo sciopero virtuale. Non danneggia gli utenti dei pubblici servizi, ma viene pagato da lavoratore e azienda: il dipendente che sciopera perde una giornata di lavoro, come accade già oggi, mentre l’impresa dovrà retribuirlo tre volte la normale giornata: ovviamente i soldi non vanno a lui, ma postranno essere investiti per iniziative benefiche o di utilità pubblica. Su questo tema sì, per regolarlo, ci vorrebbe una legge."
Ma sul referendum per lo sciopero sì o no siete d’accordo?
"Nel pubblico, proprio per le soglie di rappresentanza, di fatto accade già: poi se si vuole migliorare il meccanismo, ok, ma il governo stia attento a non favorire i piccoli sindacati che agiscono senza controllo, magari fomentati dalla politica. Nel privato no: si andrebbe a ledere un diritto costituzionale. Comunque, per parlare di questo e di altri temi, abbiamo indetto un’assemblea nazionale a Bari, il 17 settembre, dove abbiamo invitato il premier Renzi. Spero ci ascolti: altrimenti in autunno riavvieremo tutte le nostre iniziative e mobilitazioni, a partire dal rinnovo dei contratti."
Fonte: il manifesto
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