di Livio Pepino
Quarantacinque anni fa, nel febbraio 1970, usciva il primo fascicolo di «Qualegiustizia»1, rivista radicalmente nuova nel panorama giuridico, destinata a essere, per tutto il decennio successivo2, strumento fondamentale e punto di riferimento per un modo diverso di rendere giustizia3. Fu subito chiaro che si trattava di una rivista eretica, una rivista contro, seppur in una prospettiva di costruzione di un modello alternativo. Contro una collocazione e un ruolo della giurisdizione pesantemente influenzati da un formalismo acritico, da un diffuso conformismo filogovernativo e da una forte volontà di conservazione politica (nonostante il vento del Sessantotto e le lotte operaie del ’69). In quasi mezzo secolo si sono sovrapposte e sostituite generazioni di magistrati. La situazione politica, sociale, culturale del paese è, come ovvio, profondamente mutata. Ed è cambiata la collocazione dei giudici e della giurisdizione nel sistema politico. Da qui la domanda: ha senso, oggi, riproporre l’interrogativo su quale giustizia o si tratta di un amarcord inutile e un po’ patetico? Come sempre, la risposta dipende dal modo in cui si affronta la questione.
È certamente inutile e fuori tempo riproporre modelli legati a un’epoca che (nel bene e nel male) non c’è più; è, con pari certezza, utile – anzi necessario – riflettere sui valori e i princìpi sottostati a quei modelli, spesso frettolosamente accantonati da un pensiero dominante che vorrebbe diventare unico.
2. La vicenda di «Qualegiustizia» è profondamente intrecciata con quella di Magistratura democratica; anzi è la stessa vicenda. Occorre, dunque, partire da lì, dal tentativo realizzato a cavallo degli anni settanta da uno sparuto gruppo di giudici e pubblici ministeri (Magistratura democratica, appunto) e da pezzi di cultura giuridica e di mondo politico di ridefinire la collocazione della magistratura nel sistema. Operazione ardita ché da sempre, nella storia, «i giudici delle corti erano stati i servitori del re […]. Il re era la fonte di ogni giustizia; quelli non erano che i suoi deputati: era quella la teoria fondante del sistema, secondo la tradizione, ed era impossibile rompere con essa»4. Quello status e quel ruolo dei giudici erano rimasti inalterati nel nostro paese, anche sotto il profilo teorico, fino alla Carta del 19485 e alla sua effettiva (parziale) attuazione dopo due lunghi decenni di ibernazione. Conseguentemente, ancora alla fine degli anni sessanta del secolo scorso la magistratura era un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello Stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne e avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili6. A ciò dava copertura il dogma della apoliticità di giudici e giurisdizione, pur quotidianamente smentito dalla prassi7. Superfluo aggiungere che la vulgata secondo cui in allora i giudici erano rigorosi e apolitici, rispettati e amati da tutto il popolo è una interessata leggenda metropolitana priva di fondamento. Certo non mancavano magistrati progressisti, ed erano talora di grande prestigio; ma la loro presenza non bastava a intaccare il sistema. L’incrinatura avvenne, appunto, negli anni settanta sotto la spinta (non esclusiva ma prevalente) di Magistratura democratica e di «Qualegiustizia»8.
3. Più che un’incrinatura fu uno scisma9 che produsse una vera e propria lacerazione nella percezione di sé di giudici e pubblici ministeri e, gradualmente, nella considerazione a essi riservata dalla collettività nel suo insieme10. Come ogni scisma non fu indolore: ci furono vertici dell’ordine giudiziario e settori della politica che intimarono agli esponenti di Magistratura democratica di lasciare la toga e l’interferenza di Md sul “caso Tolin”11 originò addirittura l’indizione, da parte del gruppo conservatore di Magistratura indipendente, di un’assemblea romana di «pubblica deplorazione» con tanto di pullman organizzati per portare nella capitale magistrati indignati da tutte le regioni. Ma, intanto, emerse e si radicò una nuova cultura nella quale la soggezione esclusiva dei giudici alla legge, ai sensi dell’art. 101 Costituzione, veniva percepita come obbligo di «disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici e dunque libertà interpretativa. Quindi pluralismo, quindi, legittima presenza di diverse posizioni culturali e ideali all’interno della magistratura»12. Quindi, ancora, rifiuto di ogni preoccupazione per la “compatibilità” delle scelte giudiziarie con i desiderata del potere politico o economico. Fu questa la vera e dirompente novità, non caduca, degli anni settanta. A essa seguirono ulteriori opzioni: il massiccio ricorso agli incidenti di costituzionalità, il superamento del formalismo interpretativo e il parallelo affermarsi di una giurisprudenza costituzionalmente orientata (in termini di alternativa agli orientamenti tradizionali e di rigoroso garantismo nella gestione del rapporto tra cittadini e Stato), la messa in discussione della gerarchia e il progressivo abbattimento della carriera, sostituita da un’organizzazione della magistratura su basi indipendenti ed egualitarie e via seguitando. Così cambiò la magistratura: una sua parte, certo, ma capace di marcata egemonia. E si posero le basi per una stagione di intensa e consapevole presenza giudiziaria, densa di novità, in settori diversi: dalla tutela dell’ambiente al lavoro, dalla difesa delle regole di convivenza civile contro terrorismo e mafie al controllo di legalità dell’azione dei pubblici poteri ecc. Oggi, quasi mezzo secolo dopo, quella stagione è definitivamente chiusa: in parte perché superata dagli eventi e in parte perché archiviata, con superficiale e garrulo nuovismo, dagli eredi di coloro che ne sono stati protagonisti.
4. Agli albori del nuovo millennio restano acquisizioni fondamentali nel sistema dei diritti, lasciti (probabilmente) irreversibili sull’assetto della magistratura, ossessioni patetiche e grottesche di antichi e nuovi potenti abituati all’impunità (condensate nella ripetizione ad infinitum dell’ex cavaliere di Arcore che «è tutta colpa di Magistratura democratica»). Ma ci sono, a fianco, fenomeni nuovi: nei contenuti della giurisdizione, nella organizzazione e nel ruolo della magistratura, nel rapporto della stessa con la politica e con i cittadini. Conviene partire dai contenuti. Negli ultimi decenni del Novecento era parso a molti che la giurisdizione – liberata dai condizionamenti dell’esecutivo e dei poteri forti – fosse in grado di realizzare, grazie anche a una progressiva scoperta di fonti sovranazionali, un diffuso controllo di legalità e una tutela incisiva dei diritti fondamentali di tutti. Ad avvalorare questa convinzione c’erano, sotto i riflettori, indagini e processi eclatanti e un tempo impensabili che evocavano l’esistenza di «un giudice a Berlino», capace di intervenire sulla corruzione politica13, nei confronti di esponenti mafiosi di prima grandezza e finanche contro il presidente del Consiglio in carica. Ciò è proseguito anche nel nuovo millennio ed è stato grazie a pubblici ministeri e giudici che si è, infine, riconosciuta la catena di comando della mattanza del G8 di Genova, che a Eluana Englaro è stato riconosciuto il diritto di chiudere dignitosamente una vita spenta da anni, che è stato possibile – fino a un certo punto – opporre i limiti del diritto allo strapotere dell’amministratore delegato di Fiat (pur da tutti osannato), che si sono avviati processi importanti per la tutela della salute sui luoghi di lavoro e molto altro ancora. Ma, parallelamente, la realtà della giustizia è apparsa sempre più articolata e contraddittoria: la capacità di incidere sulla illegalità e la corruzione diffusa si è rivelata modesta14 e così quella di realizzare un effettivo controllo sulle condizioni di lavoro15, le spinte repressive e sicuritarie hanno spesso sostituito il garantismo con la costruzione (anche giurisprudenziale) di un improprio diritto penale del nemico, lo scarto tra indagini ed esiti processuali definitivi è diventato intollerabile, la forbice tra codice dei briganti e codice dei galantuomini si è dilatata a dismisura16, la voluta inefficienza della macchina giudiziaria ha determinato tempi processuali crescenti e l’elevazione della prescrizione a regola, nella giustizia civile e del lavoro sono ritornati all’ordine del giorno insensibilità e pregiudizi17. Così il quadro sembra quello di una giustizia che si muove di più ma spesso a vuoto e si diffonde la convinzione che essa stia ritornando a essere , con poche eccezioni, «forte con i deboli e debole con i forti». E anche il patrimonio di consenso della opinione pubblica si va erodendo.
5. A questo esito ha concorso una pluralità di fattori. Anzitutto la reazione del potere politico che in precedenza, per un paio di decenni, aveva assecondato, seppur obtorto collo e con tentativi di condizionamenti interni, il percorso verso la reale indipendenza della magistratura e l’effettività dell’azione penale obbligatoria. Tale reazione, dettata da una crescente insofferenza nei confronti del controllo di legalità, ha prodotto, da un lato, una serie interminabile di leggi particolari o ad personam (che hanno minato la coerenza del sistema e trasformato il processo in una “corsa a ostacoli”) e, dall’altro, un crescendo di modifiche dell’ordinamento giudiziario tese a ripristinare lo statuto e l’organizzazione precostituzionale di giudici e pubblici ministeri18. È stato un percorso lungo e articolato che affonda le sue radici nel craxismo e che si è sviluppato in maniera sistematica nella stagione berlusconiana concludendosi, per ora, con la riforma ordinamentale del centrosinistra del 200719 e con le cosiddette riforme del Governo Renzi20. All’esito di questi interventi ci sono un quadro normativo di contrazione del controllo di legalità in numerosi settori (dal campo societario a quello dell’operato della pubblica amministrazione e della politica) e una magistratura dimezzata in conseguenza di un reclutamento demandato a un concorso “di secondo grado” (che introduce un’impronta burocratica e una marcata selezione per censo), dell’accentuazione della struttura gerarchica del pubblico ministero (con evidenti ricadute sull’obbligatorietà dell’azione penale), dell’introduzione di un accentuato cursus honorum nella dirigenza degli uffici21, di una riforma della Cassazione sempre più separata dai giudici di merito (stante il mancato affiancamento di limiti temporali di permanenza all’abbassamento dell’età di accesso), di possibili condizionamenti e intimidazioni dei magistrati con azioni risarcitorie strumentali anche in pendenza del procedimento cui le stesse si riferiscono.
6. La lunga stagione dell’attacco politico condotto dalla destra (e non solo) contro la giurisdizione e la magistratura ha prodotto, oltre a mutamenti legislativi, altri effetti, indiretti ma non meno significativi. Due su tutti: l’accentuazione del corporativismo della magistratura e la progressiva emersione, tra i giudici e i pubblici ministeri, di una evidente crisi di ruolo. Il corporativismo – inteso come attenzione esclusiva, o prevalente, alle dinamiche interne, con parallelo disinteresse al “punto di vista esterno” – è un carattere tipico di ogni burocrazia. Nella magistratura, peraltro, esso era stato, in qualche misura, contenuto e incrinato dalle prese di posizione e dalle interferenze di Magistratura democratica. Orbene, la lunga stagione berlusconiana ne ha favorito la ripresa inducendo una sorta di “sindrome da cittadella assediata” in cui lo status e l’operato di giudici e pubblici ministeri devono essere difesi in ogni caso, a prescindere dalla situazione specifica. Di qui la chiusura a qualunque critica di merito, invariabilmente vissuta come delegittimazione22, e l’indisponibilità al confronto e alla discussione su qualunque modifica dello status quo, anche nei punti più indifendibili23 (con conseguente isolamento dei magistrati dal contesto dei giuristi, in particolare degli avvocati). C’è un seguito. Nella storia, il corporativismo ha sempre portato con sé accomodamenti nei rapporti istituzionali e autonormalizzazione. Di ciò si vedono ormai – non ingannino alcune iniziative giudiziarie di rilievo – avvisaglie evidenti. A cominciare dalla progressiva involuzione del Csm in una sorta di consiglio di amministrazione della magistratura, secondo il modello perseguito, venticinque anni fa, dal presidente Cossiga: involuzione che produce, tra l’altro, la crescita di prassi clientelari e correntizie (con parziale inveramento dell’assunto sostenuto, ossessivamente e un tempo a torto, dai critici dell’indipendenza e del governo autonomo della magistratura)24.
7. Alla crescita di corporativismo si è, nel tempo, affiancata una diffusa crisi di ruolo che ha portato – e sempre più porta – giudici e pubblici ministeri (talora anche tra quelli maggiormente qualificati sul piano professionale) a ricercare o accettare eterogenei ruoli esterni (alternativi a quelli giudiziari o con essi concorrenti), evidentemente ritenuti più gratificanti di quelli ordinari. L’elenco è lungo e va dalla direzione (o occupazione) di uffici ministeriali o di authority alle consulenze politico-amministrative25, dalle funzioni di collegamento o di rappresentanza in istituzioni internazionali alle cariche sportive, dalla politica attiva alla frequentazione di enti o istituzioni variamente intrecciati con la politica26, dagli incarichi universitari a impegni letterari o giornalistici continuativi. Si tratta di fenomeni non nuovi, ma che oggi, insieme con i casi crescenti di abbandono precoce della toga, realizzano una vera e propria fuga dal ruolo, in brusca controtendenza con la situazione degli anni novanta del secolo scorso (allorché la professione di magistrato divenne la più appetibile tra i laureati in giurisprudenza e tra i magistrati si diffuse, talora, una considerazione salvifica della propria funzione). È in questo contesto che si ripropone la questione della partecipazione dei magistrati alle elezioni politiche e le polemiche che la accompagnano, rinverdite, nel 2013, dalla infelice vicenda della “discesa in campo” di Antonio Ingroia27. Si tratta di un problema antico, per il quale – pur con gli aggiornamenti imposti dall’avvento del sistema maggioritario e dalle connesse modalità burocratiche e centralizzate di selezione della rappresentanza28 ‒ resta ancor oggi valida, almeno per me, l’antica indicazione di M. Ramat, secondo cui ai magistrati si addice la partecipazione alla «politica delle idee» e non l’inserimento nella «politica del potere», magari con strumentalizzazione a fini elettorali delle funzioni svolte e delle inchieste compiute. Superfluo sottolineare come, invece, la questione sia strumentalizzata e cavalcata con slogan a senso unico, che, con l’evocazione di una apparente apoliticità, finiscono per veicolare, nei fatti, un ritorno acritico dei magistrati nella sfera del potere29.
8. Intanto, soprattutto nella giustizia penale, si affacciano, talora, preoccupanti fenomeni distorsivi. Circoscritti, a oggi, ma su cui occorre riflettere prima che dilaghino (o, meglio ancora, per evitare che ciò avvenga). Sono fenomeni eterogenei e finanche di segno opposto, che vanno dalle inerzie burocratiche alle forzature antigarantiste (alle quali concorrono protagonismi indebiti che finiscono per scambiare le ipotesi accusatorie con le prove30, un uso disinvolto della custodia cautelare a fini di stigmatizzazione sociale31, improprie alleanze funzionali a processi a mezzo stampa paralleli a quelli celebrati nelle aule di giustizia e via elencando). Si intravede, in essi, l’affievolirsi di un modello di giurisdizione capace di coniugare rigore e garanzie nei confronti di tutti, senza sconti per alcuni e scorciatoie probatorie per altri. Tale calo di tensione si avverte anche nel momento organizzativo degli uffici dove il pur rilevante ricambio generazionale e culturale non ha prodotto l’auspicato salto qualitativo in termini di efficienza e, insieme, di trasparenza (come conferma il ripetersi, soprattutto nelle Procure, di scelte organizzative accentrate e di conflitti delegittimanti32). In questo contesto, poi, ritornano abitudini antiche, con presidenti di corti d’appello e procuratori generali che, in occasione delle inaugurazioni dell’anno giudiziario, usano l’aula magna dei palazzi di giustizia come lo Speakers’ Corner di Hyde Park, non per esporre analisi e proposte sull’andamento della giustizia (elaborate in un confronto con i magistrati del proprio ufficio) ma per esprimere personali opinioni o per effettuare pressioni sui contenuti della giurisdizione33. Anomalie e irritualità. Forse, ma sarebbe bene non assistervi in silenzio.
9. Nella prospettiva di un’analisi attenta e rigorosa su quanto sta accadendo nella giurisdizione non può essere elusa, anche per l’autorevolezza di chi l’ha avanzata, una recente riflessione di G. Zagrebelsky sul potere e sulla sua ristrutturazione in atto34. Nella società dell’Ancien Régime – scrive l’illustre costituzionalista – c’era «una stratificazione sociale per piani orizzontali paralleli, sovra e sotto-ordinati, più o meno relativamente impermeabili. A ciascuno di questi piani corrispondevano stili di vita, gusti, culture e letteratura, musica, teatro, talora lingue, abitudini alimentari, leggi particolari». Il piano sovraordinato era, ovviamente, quello del potere. A esso appartenevano i giudici, seppur, per quanto riguarda la bassa magistratura, occupandone i margini. A rendere stringente e immodificabile questa collocazione provvedevano leggi e statuti; ma il vincolo di appartenenza, per così dire castale, era di tutti il più forte. Ed era così da sempre, in una dimensione che collocava i magistrati nella sfera del potere tout court. Così la giustizia – come già ricordato ‒ altro non era che una manifestazione, dell’unico potere sovrano. Con tutte le ovvie conseguenze in termini di garanzia dello status quo. La situazione odierna – continua Zagrebelsky – propone modelli organizzativi diversi ma una struttura di fondo non dissimile:
Le oligarchie odierne […] si costruiscono, si modificano e si distruggono con moti circolari ascendenti e discendenti, dove tutto si confonde. […] Nei sistemi contemporanei il riferimento alla casta, a una suddivisione della società per stratificazioni di piani che non si incontrano è fuorviante. Preferisco, per questo, fare riferimento al concetto del “circolo”, del “giro”, di qualche cosa che si muove dal basso all’alto come una ruota […]. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva. Se solo per un momento potessimo sollevare il velo e avere una veduta di insieme resteremmo sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia, della finanza, dell’università, della cultura, dello spettacolo, nell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni che, secondo i propri princìpi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e sono, invece, attratti negli stessi mulinelli del potere corruttivi di ruoli, competenze e responsabilità.
Sono, una volta tanto, meno tranchant di G. Zagrebelsky e credo che la situazione della magistratura sia più complessa e articolata di quanto sembrerebbe trarsi dalla sua – pur lucida – analisi. E tuttavia non mancano i segnali nella direzione da lui indicata: basti, per tutti, il velo squarciato del coinvolgimento di alcuni alti magistrati, in anni recenti, nel giro di potere, più o meno segreto, giornalisticamente definito P335.
10. Che fare, dunque? In assenza di idee forti si sta navigando a vista, con una implosione della giurisdizione e della magistratura ignorata solo da chi non la vuole vedere (e continua a gestirla con la criminalizzazione di alcune “mele marce” e con interventi disciplinari o paradisciplinari). Inutile illudersi. Non basterà il crepuscolo dei riflettori sui processi nei confronti di Silvio Berlusconi e l’attenuarsi delle reazioni eversive che li accompagnano a restituire (o a conferire) automaticamente alla giurisdizione un ruolo istituzionale e sociale coerente e credibile. E non basterà ripetere la leggenda metropolitana che dagli anni settanta a oggi la situazione della giustizia è cambiata in meglio (magari omettendo di ricordare l’avvenuto azzeramento dello statuto dei lavoratori, approvato proprio nel lontano 1970, o il raddoppio del numero dei detenuti, rispetto ad allora, pur in un andamento della criminalità sostanzialmente immodificato). Non sono, purtroppo, le cose a essere cambiate in meglio ma molti degli attuali attori a illudersi (o a fingere) che sia così. Non ha senso, peraltro, rimpiangere il passato (e, a maggior ragione, un passato caratterizzato da molte ombre). Occorre, piuttosto, analizzare i caratteri del presente. Per quanto riguarda la giustizia c’è un fatto nuovo importante: l’intervenuto venir meno o la consunzione, nella magistratura, dei protagonisti – positivi e negativi – della vicenda sin qui accennata. È così per Magistratura democratica (ridotta a componente, minoritaria e silenziosa, di un’aggregazione dalle connotazioni incerte finanche nel nome, recepito dalla geometria più che dalla politica o dalla cultura36) ed è così per Magistratura indipendente (divisa ormai in due formazioni autonome di cui una smaccatamente filogovernativa37 e l’altra identificata solo dal rifiuto di tale connotazione38). Anche questo è un segnale della necessità di nuove forme di intervento e, con esse, di nuovi soggetti, nuove reti, nuove alleanze, il cui centro non deve necessariamente essere – come fu negli anni settanta del Novecento – la magistratura. Questo fascicolo, ricco di analisi e sollecitazioni sui temi sin qui richiamati (e su altri ancora) vuole essere un “sasso nello stagno”. Nella speranza che le onde da esso generate si diffondano e si amplifichino.
1 Meno di due anni prima, il 31 luglio 1968, era uscito un fascicolo monografico de «Il Ponte» (n. 6-7/1968) dedicato a La magistratura in Italia che, integralmente scritto da magistrati dell’area di Magistratura democratica (salvo l’introduzione, riservata alla penna dell’allora direttore, E. Enriques Agnoletti), è stato di «Qualegiustizia» l’antecedente culturale e politico. Sulla copertina di quel fascicolo, sotto il titolo, si leggeva: «Per la prima volta dei magistrati si rivolgono direttamente ai cittadini: denunce, confessioni, proposte di riforma. L’Italia è la “patria del diritto”. A quando il paese della giustizia?».
2 «Qualegiustizia» è rimasta sulla scena per tutti gli anni settanta e ha chiuso le pubblicazioni, dopo 52 fascicoli, a fine 1979. A essa ha fatto seguito, a partire dal 1982, «Questione giustizia» che, proprio nei giorni in cui scriviamo, conclude la sua ultratrentennale storia cartacea, lasciando spazio a una nuova esperienza online di cui sono tuttora incerti termini e impostazione.
3 Significativi di quell’approccio, fin dal primo fascicolo, gli interventi di analisi su alcune vicende giudiziarie, tutti non firmati e, dunque, attribuibili all’intero gruppo redazionale: La crisi della giustizia vista dalla Valle del Vajont, Lavorare con disciplina, Sospensioni alla Fiat, Autorità di polizia e libertà di riunione, Le norme fasciste tornano di moda, Una sentenza disgustosa, Film sotto processo…
4 La citazione, risalente al 1908, è dello storico del diritto inglese F. Maitland ed è tratta da L. M. Diez-Picazo, Il modello europeo di magistratura: un approccio storico, in R. Romanelli (a cura di), Magistrati e potere nell’Europa moderna, Roma, Donzelli, 1995. Non disse, dunque, nulla di nuovo o di eversivo, salva la brutalità del tono, il pubblico ministero romano Franco Marrone quando il 2 maggio 1970, intervenendo in un dibattito a Sarzana, affermò che «i giudici sono servi dei padroni» (affermazione che procurò a lui e ai dirigenti di Magistratura democratica che la fecero propria un procedimento penale per vilipendio della magistratura, conclusosi con una piena assoluzione, da parte della Corte d’assise della Spezia, solo sei anni dopo).
5 Come noto, infatti, lo Statuto albertino del 4 marzo 1848, prevedeva, nell’articolo 68, che «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in nome suo dai Giudici che Egli istituisce», così configurando la giustizia, anche in termini istituzionali, come una semplice manifestazioni del potere regio e i giudici, appunto, come servitori del re.
6 Così L. Ferrajoli, Per una storia delle idee di Md, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Milano, Angeli,1994, p. 57. Quella reciproca percezione è descritta con rara efficacia in un racconto di I. Calvino (originariamente pubblicato in «Rinascita» e poi inserito, con il titolo Impiccagione di un giudice, in Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1994) nel quale, tra l’altro, si legge: «Da tempo il giudice Onofrio Clerici s’era accorto che la gente lo odiava e rumoreggiava nell’aula alla sentenza, e le vedove nelle testimonianze gridavano più contro a lui che alla gabbia; ma lui era sicuro del fatto suo, e anche lui odiava loro, questa gentetta logora, non buona a rispondere a tono nelle testimonianze, non buona a sedere rispettosa nel pubblico, questa gentetta sempre carica di figli e di debiti e d’idee storte: gli italiani». Del resto, ancora all’atto del mio ingresso in magistratura (nel gennaio 1970), l’atteggiamento prevalente della cultura e della politica progressista nei confronti di giudici e pubblici ministeri era la diffidenza e fiorivano i manuali di autodifesa per “militanti” nei confronti dell’intervento giudiziario.
7 Lo ammise, non senza un provocatorio cinismo, in una intervista a Gabriele Invernizzi pubblicata su «L’Espresso» del 24 ottobre 1971, uno degli epigoni di quella magistratura, Luigi Colli, leader dell’Unione dei magistrati italiani, procuratore generale presso la Corte di cassazione e severo censore, sulle colonne de «Il Globo», della politicizzazione della magistratura: «Ah, vedo bene che lei ha capito, si è accorto che io sono un politico. E in effetti Calamari (procuratore generale di Firenze, ndr) ha fatto tanto chiasso su Sofri e gente come lui, ma alla fine Sofri in galera ce l’ho messo io. Perché vede, in realtà non si tratta mai di leggi ma di rapporti di forza».
8 Per approfondimenti sul punto rinvio al mio Appunti per una storia di Magistratura democratica, in «Questione giustizia», n. 1/2002, p. 111 ss. e a G. Palombarini, Giudici a sinistra, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2000.
9 «Occorreva consumare uno scisma dentro la cittadella della giurisdizione» avrebbe scritto vent’anni dopo G. Borré (Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi [a cura di], Giudici e democrazia cit., p. 41).
10 Nell’arco di vent’anni accadde l’incredibile e alla tradizionale diffidenza si sostituirono fiducia, speranza ed emozioni forti tanto che il tema della giustizia divenne uno dei pochi capaci di mobilitare (a volte) una piazza altrimenti rassegnata e silente.
11 Il riferimento è al documento del 30 novembre 1969 con cui Magistratura democratica, a seguito dell’arresto del direttore responsabile di Potere operaio, Francesco Tolin, su ordine di cattura della Procura della Repubblica di Roma, per reati di opinione commessi a mezzo stampa, manifestò la propria preoccupazione e chiese l’apertura di un dibattito su libertà di espressione del pensiero e repressione penale.
12 G. Borré, Le scelte di Magistratura democratica cit.
13 Basti ricordare che le sole indagini sulla Tangentopoli milanese hanno prodotto, nei primi anni novanta, ben 1.281 condanne in primo grado e l’azzeramento (temporaneo) della dirigenza di tutti i partiti di governo.
14 Il giudizio è di P. Davigo e G. Mannozzi (La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Roma-Bari, Laterza, 2007) i quali rilevano che, nel periodo 1983-2002, in alcune regioni d’Italia la corruzione, stando alla rappresentazione giudiziaria, non esiste e non è mai esistita, e ciò mentre si susseguono, al riguardo, denunce circostanziate e precise (come a Reggio Calabria dove, a fronte di tre condanne definitive in venti anni stanno le dichiarazioni rese in sede giudiziaria dall’ex sindaco Agatino Licandro secondo cui: «a Reggio si vive su un sistema che, senza mazzette nei momenti e nei punti giusti, si paralizzerebbe»). Si tratta di giudizio condiviso da un altro pubblico ministero della Tangentopoli milanese che, dieci anni dopo, ha commentato: «Mani pulite è stata inutile, ma anche controproducente. Inutile perché non mi pare che abbia causato un contenimento della corruzione. Controproducente perché ha confermato il senso di impunità che già prima accompagnava questo tipo di reati. Le prescrizioni si sono “mangiate” gran parte dei reati, i processi si sono ancor più allungati, ed è aumentata la confusione tra garanzie sostanziali e apparenti. La giustizia italiana – almeno per i reati dei “colletti bianchi” – è ridotta ormai a una macchina per tritare l’acqua» (G. Colombo, in G. Barbacetto-P. Gomez-M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, Roma, Editori Riuniti, 2002, p. 678-679). Cfr., inoltre, infra, A. Vannucci, L’irrisolta questione corruzione, il quale segnala il marcato andamento decrescente, negli ultimi vent’anni, delle condanne per corruzione e concussione, passate da oltre 1.700 nel 1996 ad appena 263 del 2010.
15 Mi riferisco non solo alla cancellazione, sotto la mannaia della prescrizione applicata in Cassazione, di ogni responsabilità per le migliaia di morti per le polveri dell’Eternit a Casale Monferrato, ma anche alla sostanziale marginalità dell’intervento giudiziario nel settore, attestata da una rilevazione empirica effettuata nel circondario del Tribunale di Firenze dalla quale risulta che solo nel 15-20% dei casi di infortunio mortale il processo penale arriva alla fase del dibattimento e solo nel 2-3% dei casi si conclude con l’accertamento e la condanna dei responsabili (così B. Deidda, Storia e prospettive dell’intervento giudiziario a tutela della salute in fabbrica, in «Questione giustizia», n. 2/2012).
16 Lo dimostrano la crescita costante dei detenuti, passati dai 25.804 del 31 dicembre 1990 ai 68.258 della stressa data del 2009 (e scesi a 54.428 il 30 novembre 2014 solo grazie a una serie di provvedimenti tampone) pur in una situazione stazionaria della criminalità e la netta prevalenza di imputati o condannati per delitti contro il patrimonio o per violazioni della legge sulla droga (che sfiorano il 50%). E ciò pur se – come è stato lucidamente affermato – «i crimini dei colletti bianchi (dai reati ambientali a quelli societari, dall’evasione fiscale alle frodi alimentari e via elencando) producono maggiore sofferenza e morte di tutti i criminali comuni messi insieme» (A. Cottino, «Disonesto ma non criminale». La giustizia e i privilegi dei potenti, Roma, Carocci, 2005, p. 16).
17 Basti citare il caso dei migranti nei cui confronti è emersa finanche una giurisprudenza in forza della quale si attribuisce (a fini risarcitori) un diverso valore alla vita di un italiano rispetto a quella di un albanese o di un nigeriano (cfr. L. Pepino, Forti con i deboli, Milano, Rizzoli, 2012, p. 202).
18 In questo quadro si inseriscono anche atteggiamenti di diretta delegittimazione della magistratura e della giurisdizione da parte di alte cariche istituzionali. Particolarmente gravi quelli dell’allora presidente della Repubblica Napolitano tesi a ostacolare, con il noto conflitto di attribuzioni in punto utilizzazione di intercettazioni di alcune telefonate da lui ricevute, delicate indagini della Procura di Palermo, proseguiti con il tentativo, sino all’ultimo, di evitare la propria audizione come teste nel conseguente dibattimento.
19 La riforma ordinamentale definita con la legge 30 luglio 2007 (sotto il Governo di centrosinistra presieduto da Romano Prodi), lungi dall’essere la realizzazione della promessa elettorale di sostituire l’ordinamento giudiziario targato Castelli (legge delega 25 luglio 2005, n. 150 e conseguenti decreti legislativi), è stata una soluzione compromissoria al ribasso condizionata dalla volontà di rivalsa di settori consistenti della politica e dalla intervenuta sconfitta del progetto riformatore dell’ordinamento giudiziario coltivato dalla cultura giuridica e politica progressista tra gli anni settanta e i primi anni novanta.
20 Basti ricordare la marginalizzazione del giudice nel settore del lavoro e la nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati.
21 L’operazione è stata perseguita soprattutto con una sorta di “truffa delle etichette” che ha introdotto, spacciandolo per temporaneità degli incarichi direttivi, un semplice limite di permanenza nell’incarico, destinato a creare una vera e propria carriera direttiva con passaggio da una ad altra (più prestigiosa) sede.
22 Questa sindrome ha investito anche Magistratura democratica che, nell’arco di qualche decennio, ha abbandonato ogni intervento critico su specifici procedimenti, preferendo il silenzio e talora, addirittura, l’assunzione di un ruolo di certificazione di correttezza di pur opinabili orientamenti giudiziari (come nel documento del 1° marzo 2012, concernente processi relativi al Tav in Val Susa, il cui testo può leggersi in L. Pepino, Costruire il nemico: una storia esemplare, in L. Pepino e M. Revelli, Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2012, pp. 156-157).
23 Penso alle questioni della separazione delle funzioni e della responsabilità civile dove l’opposizione della magistratura alle modifiche legislative prospettate, per lo più giusta nel merito, è stata prevalentemente condotta in modo sbagliato, talora negando l’evidenza (come l’inopportunità di un continuum nello stesso territorio tra l’esercizio delle funzioni di pubblico ministero e di quelle di giudice e l’insufficiente tutela delle vittime di errori giudiziari clamorosi).
24 Su questa tendenza, avvertibile ormai da anni, mi permetto rinviare al mio «Non sognavo il Consiglio». Note sparse su magistrati, autogoverno, rappresentanza, in «Questione giustizia», n. 5/2009, p. 49.
25 Il riferimento è non solo ai ruoli ministeriali per cui è prevista dalla legge la copertura con magistrati, ma anche a incarichi a dir poco anomali come quello – cito un caso degli ultimi anni novanta – di segretario politico di un sottosegretario (sic!). Ma c’è di più ché, durante la consiliatura 2006-2010, mi è accaduto di dovermi pronunciare finanche sulla richiesta – sostenuta con vigore da alcuni componenti – di un consigliere di Cassazione di lungo corso associativo che chiedeva di essere autorizzato a svolgere al mattino le funzioni di giudice della Corte suprema e al pomeriggio quelle di consulente di un ministro.
26 Mi riferisco, per esempio, ai casi di un procuratore generale della Cassazione nominato dal Consiglio dei ministri, subito dopo il pensionamento, garante per il monitoraggio dell’esercizio delle prescrizioni contenute nella autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, di un avvocato generale milanese e di un presidente della Corte d’appello della stessa città nominati, dopo il congedo, componenti dell’organismo di vigilanza interna e dell’area sviluppo di Finmeccanica, di un presidente del Tribunale di Milano, nominato ancor prima della scadenza dell’incarico giudiziario, presidente del «Milan Center for Food Law and Policy» (Centro di documentazione e studio sulle norme e sulle politiche pubbliche in materia di alimentazione) fondato nel febbraio 2014 su impulso di Expo Milano 2015, Regione Lombardia, Comune di Milano e Camera di commercio.
27 Si veda il mio Antonio Ingroia, i magistrati, la politica, in «Questione giustizia», n. 1/2013, p. 21 ss.
28 Cfr. sul punto le lucide osservazioni di N. Rossi, Democrazia maggioritaria e giurisdizione, in «Questione giustizia», nn. 3-4/1992, p. 524 ss.
29 La strumentalità di tali posizioni è dimostrata dal fatto che alla loro astratta proclamazione si accompagnano prassi del tutto diverse. Negli ultimi decenni, infatti, il transito di magistrati dalle aule di giustizia al Parlamento è stato favorito da tutte le forze politiche ed è avvenuto spesso proprio grazie alla notorietà acquisita con l’attività giudiziaria. Luciano Violante entrò alla Camera sull’onda del processo nei confronti di Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi per il cosiddetto golpe bianco; Tiziana Parenti non avrebbe mai varcato la soglia di Montecitorio se non avesse manifestato opzioni contrapposte a quelle del pool della Procura milanese nei processi di Mani pulite; Giuseppe Ajala deve i suoi quattordici anni di deputato e senatore al precedente ruolo di pubblico ministero nel maxiprocesso palermitano; e altrettanto è a dirsi, con gli opportuni adattamenti, per Felice Casson o per Gerardo D’Ambrosio, per Alberto Maritati o per Nitto Palma (diventato finanche, non è dato sapere per quali meriti oltre a quelli giudiziari, il più scialbo ministro della Giustizia della storia repubblicana) e via elencando. E che dire della – apparentemente irresistibile – ascesa di Piero Grasso, senza soluzione di continuità, da procuratore di Palermo a procuratore nazionale antimafia e, via via, a senatore, presidente del Senato e candidato finanche a tutte le ulteriori più alte cariche dello Stato?
30 Sul punto cfr. già G. Santalucia, Giudici a Sud. Tendenze e problemi del processo penale, in «Questione giustizia», n. 6/2007, p. 1187 e E. Sirianni, La sovranità aggirata (Pulsioni inquisitorie e strategie mediatiche nel processo penale), ivi, n. 5/2009, p. 19.
31 Il riferimento è, in particolare, alla gestione di numerosi procedimenti riguardanti conflitti sociali e reati commessi nell’ambito degli stessi: sul punto cfr. infra, L. Pepino, Movimenti e repressione penale. Il caso Tav.
32 Tra gli altri, particolarmente eclatante è stato il conflitto che ha investito negli ultimi due anni la Procura della Repubblica di Milano.
33 È accaduto per esempio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015 che il presidente della Corte di appello di Milano abbia commentato la vicenda della audizione dell’allora presidente della Repubblica Napolitano da parte del Tribunale di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia, affermando tra l’altro: «È mia ferma e personale opinione (sic!) che questa dura prova si poteva risparmiare al capo dello Stato, alla magistratura stessa e alla Repubblica Italiana». O che, nella stessa circostanza, il procuratore generale presso la Corte d’appello di Torino, tre giorni prima della decisione del tribunale torinese in un complesso e controverso dibattimento relativo a violenze accadute in Valsusa, sia intervenuto a piedi giunti criticando la sentenza emessa in un procedimento parallelo, a suo avviso troppo mite, affermando testualmente: «Non posso tacere le mie perplessità di fronte ad atteggiamenti culturali di sottovalutazione, se non addirittura di svilimento, di fatti di violenza politica che invece dovrebbero allarmare quanto mai. […] Fermo restando il doveroso rispetto per tutte le decisioni giudiziarie, ribadisco tutte le mie perplessità per decisioni in cui, ad esempio, in relazione a un articolo di legge si impiegano quasi trenta pagine per spiegare che dove nello stesso si trova la congiunzione ‘o’ si deve leggere la congiunzione ‘e’, e questo per aumentare le condizioni necessarie per riconoscere la sussistenza della finalità di terrorismo» (entrambi i passaggi citati sono ripresi da «la Repubblica» del 25 gennaio 2015).
34 G. Zagrebelsky, L’essenza della democrazia, in E. Gallina (a cura di), Vivere la democrazia, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2013, p. 34, poi ripreso, testualmente, in Contro la dittatura del presente. Perché è necessario un discorso sui fini, Roma-Bari, Laterza-La Repubblica, 2014, p. 38.
35 In tale procedimento è stato addirittura rinviato a giudizio per corruzione, per fatti commessi nel 2010, mentre era in carica, l’allora primo presidente della Corte di cassazione Vincenzo Carbone (nei cui confronti è in corso il dibattimento davanti al Tribunale di Roma).
36 Tale è, all’evidenza, la denominazione «Area».
37 Questa dimensione, non smentita da alcune rivendicazioni di carattere corporativo apparentemente di rottura, è confermata dal ruolo di leader tuttora in essa rivestito da un magistrato – Cosimo Ferri – da tempo assurto al ruolo di sottosegretario alla giustizia (inizialmente indicato da Forza Italia ma rimasto saldamente insediato nell’incarico nonostante il passaggio all’opposizione di quest’ultima).
38 Esplicita in questo senso la lettera di dimissioni di una delle personalità più significative del gruppo, Marcello Maddalena, tutta fondata sul disagio di continuare a stare nella «corrente del sottosegretario» con quel che essa evoca («Che un magistrato vada e venga dalla politica non interessa affatto. Che, anzi, si pensa che il sostegno e l’appoggio, per qualsiasi cosa [la partecipazione a qualche commissione; un distacco fuori ruolo; un incarico direttivo o semidirettivo], di un sottosegretario amico possa ben tornare utile»).
Fonte: Il Ponte
Quarantacinque anni fa, nel febbraio 1970, usciva il primo fascicolo di «Qualegiustizia»1, rivista radicalmente nuova nel panorama giuridico, destinata a essere, per tutto il decennio successivo2, strumento fondamentale e punto di riferimento per un modo diverso di rendere giustizia3. Fu subito chiaro che si trattava di una rivista eretica, una rivista contro, seppur in una prospettiva di costruzione di un modello alternativo. Contro una collocazione e un ruolo della giurisdizione pesantemente influenzati da un formalismo acritico, da un diffuso conformismo filogovernativo e da una forte volontà di conservazione politica (nonostante il vento del Sessantotto e le lotte operaie del ’69). In quasi mezzo secolo si sono sovrapposte e sostituite generazioni di magistrati. La situazione politica, sociale, culturale del paese è, come ovvio, profondamente mutata. Ed è cambiata la collocazione dei giudici e della giurisdizione nel sistema politico. Da qui la domanda: ha senso, oggi, riproporre l’interrogativo su quale giustizia o si tratta di un amarcord inutile e un po’ patetico? Come sempre, la risposta dipende dal modo in cui si affronta la questione.
È certamente inutile e fuori tempo riproporre modelli legati a un’epoca che (nel bene e nel male) non c’è più; è, con pari certezza, utile – anzi necessario – riflettere sui valori e i princìpi sottostati a quei modelli, spesso frettolosamente accantonati da un pensiero dominante che vorrebbe diventare unico.
2. La vicenda di «Qualegiustizia» è profondamente intrecciata con quella di Magistratura democratica; anzi è la stessa vicenda. Occorre, dunque, partire da lì, dal tentativo realizzato a cavallo degli anni settanta da uno sparuto gruppo di giudici e pubblici ministeri (Magistratura democratica, appunto) e da pezzi di cultura giuridica e di mondo politico di ridefinire la collocazione della magistratura nel sistema. Operazione ardita ché da sempre, nella storia, «i giudici delle corti erano stati i servitori del re […]. Il re era la fonte di ogni giustizia; quelli non erano che i suoi deputati: era quella la teoria fondante del sistema, secondo la tradizione, ed era impossibile rompere con essa»4. Quello status e quel ruolo dei giudici erano rimasti inalterati nel nostro paese, anche sotto il profilo teorico, fino alla Carta del 19485 e alla sua effettiva (parziale) attuazione dopo due lunghi decenni di ibernazione. Conseguentemente, ancora alla fine degli anni sessanta del secolo scorso la magistratura era un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un “corpo separato” dello Stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne e avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili6. A ciò dava copertura il dogma della apoliticità di giudici e giurisdizione, pur quotidianamente smentito dalla prassi7. Superfluo aggiungere che la vulgata secondo cui in allora i giudici erano rigorosi e apolitici, rispettati e amati da tutto il popolo è una interessata leggenda metropolitana priva di fondamento. Certo non mancavano magistrati progressisti, ed erano talora di grande prestigio; ma la loro presenza non bastava a intaccare il sistema. L’incrinatura avvenne, appunto, negli anni settanta sotto la spinta (non esclusiva ma prevalente) di Magistratura democratica e di «Qualegiustizia»8.
3. Più che un’incrinatura fu uno scisma9 che produsse una vera e propria lacerazione nella percezione di sé di giudici e pubblici ministeri e, gradualmente, nella considerazione a essi riservata dalla collettività nel suo insieme10. Come ogni scisma non fu indolore: ci furono vertici dell’ordine giudiziario e settori della politica che intimarono agli esponenti di Magistratura democratica di lasciare la toga e l’interferenza di Md sul “caso Tolin”11 originò addirittura l’indizione, da parte del gruppo conservatore di Magistratura indipendente, di un’assemblea romana di «pubblica deplorazione» con tanto di pullman organizzati per portare nella capitale magistrati indignati da tutte le regioni. Ma, intanto, emerse e si radicò una nuova cultura nella quale la soggezione esclusiva dei giudici alla legge, ai sensi dell’art. 101 Costituzione, veniva percepita come obbligo di «disobbedienza a ciò che legge non è. Disobbedienza al pasoliniano “palazzo”, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici e dunque libertà interpretativa. Quindi pluralismo, quindi, legittima presenza di diverse posizioni culturali e ideali all’interno della magistratura»12. Quindi, ancora, rifiuto di ogni preoccupazione per la “compatibilità” delle scelte giudiziarie con i desiderata del potere politico o economico. Fu questa la vera e dirompente novità, non caduca, degli anni settanta. A essa seguirono ulteriori opzioni: il massiccio ricorso agli incidenti di costituzionalità, il superamento del formalismo interpretativo e il parallelo affermarsi di una giurisprudenza costituzionalmente orientata (in termini di alternativa agli orientamenti tradizionali e di rigoroso garantismo nella gestione del rapporto tra cittadini e Stato), la messa in discussione della gerarchia e il progressivo abbattimento della carriera, sostituita da un’organizzazione della magistratura su basi indipendenti ed egualitarie e via seguitando. Così cambiò la magistratura: una sua parte, certo, ma capace di marcata egemonia. E si posero le basi per una stagione di intensa e consapevole presenza giudiziaria, densa di novità, in settori diversi: dalla tutela dell’ambiente al lavoro, dalla difesa delle regole di convivenza civile contro terrorismo e mafie al controllo di legalità dell’azione dei pubblici poteri ecc. Oggi, quasi mezzo secolo dopo, quella stagione è definitivamente chiusa: in parte perché superata dagli eventi e in parte perché archiviata, con superficiale e garrulo nuovismo, dagli eredi di coloro che ne sono stati protagonisti.
4. Agli albori del nuovo millennio restano acquisizioni fondamentali nel sistema dei diritti, lasciti (probabilmente) irreversibili sull’assetto della magistratura, ossessioni patetiche e grottesche di antichi e nuovi potenti abituati all’impunità (condensate nella ripetizione ad infinitum dell’ex cavaliere di Arcore che «è tutta colpa di Magistratura democratica»). Ma ci sono, a fianco, fenomeni nuovi: nei contenuti della giurisdizione, nella organizzazione e nel ruolo della magistratura, nel rapporto della stessa con la politica e con i cittadini. Conviene partire dai contenuti. Negli ultimi decenni del Novecento era parso a molti che la giurisdizione – liberata dai condizionamenti dell’esecutivo e dei poteri forti – fosse in grado di realizzare, grazie anche a una progressiva scoperta di fonti sovranazionali, un diffuso controllo di legalità e una tutela incisiva dei diritti fondamentali di tutti. Ad avvalorare questa convinzione c’erano, sotto i riflettori, indagini e processi eclatanti e un tempo impensabili che evocavano l’esistenza di «un giudice a Berlino», capace di intervenire sulla corruzione politica13, nei confronti di esponenti mafiosi di prima grandezza e finanche contro il presidente del Consiglio in carica. Ciò è proseguito anche nel nuovo millennio ed è stato grazie a pubblici ministeri e giudici che si è, infine, riconosciuta la catena di comando della mattanza del G8 di Genova, che a Eluana Englaro è stato riconosciuto il diritto di chiudere dignitosamente una vita spenta da anni, che è stato possibile – fino a un certo punto – opporre i limiti del diritto allo strapotere dell’amministratore delegato di Fiat (pur da tutti osannato), che si sono avviati processi importanti per la tutela della salute sui luoghi di lavoro e molto altro ancora. Ma, parallelamente, la realtà della giustizia è apparsa sempre più articolata e contraddittoria: la capacità di incidere sulla illegalità e la corruzione diffusa si è rivelata modesta14 e così quella di realizzare un effettivo controllo sulle condizioni di lavoro15, le spinte repressive e sicuritarie hanno spesso sostituito il garantismo con la costruzione (anche giurisprudenziale) di un improprio diritto penale del nemico, lo scarto tra indagini ed esiti processuali definitivi è diventato intollerabile, la forbice tra codice dei briganti e codice dei galantuomini si è dilatata a dismisura16, la voluta inefficienza della macchina giudiziaria ha determinato tempi processuali crescenti e l’elevazione della prescrizione a regola, nella giustizia civile e del lavoro sono ritornati all’ordine del giorno insensibilità e pregiudizi17. Così il quadro sembra quello di una giustizia che si muove di più ma spesso a vuoto e si diffonde la convinzione che essa stia ritornando a essere , con poche eccezioni, «forte con i deboli e debole con i forti». E anche il patrimonio di consenso della opinione pubblica si va erodendo.
5. A questo esito ha concorso una pluralità di fattori. Anzitutto la reazione del potere politico che in precedenza, per un paio di decenni, aveva assecondato, seppur obtorto collo e con tentativi di condizionamenti interni, il percorso verso la reale indipendenza della magistratura e l’effettività dell’azione penale obbligatoria. Tale reazione, dettata da una crescente insofferenza nei confronti del controllo di legalità, ha prodotto, da un lato, una serie interminabile di leggi particolari o ad personam (che hanno minato la coerenza del sistema e trasformato il processo in una “corsa a ostacoli”) e, dall’altro, un crescendo di modifiche dell’ordinamento giudiziario tese a ripristinare lo statuto e l’organizzazione precostituzionale di giudici e pubblici ministeri18. È stato un percorso lungo e articolato che affonda le sue radici nel craxismo e che si è sviluppato in maniera sistematica nella stagione berlusconiana concludendosi, per ora, con la riforma ordinamentale del centrosinistra del 200719 e con le cosiddette riforme del Governo Renzi20. All’esito di questi interventi ci sono un quadro normativo di contrazione del controllo di legalità in numerosi settori (dal campo societario a quello dell’operato della pubblica amministrazione e della politica) e una magistratura dimezzata in conseguenza di un reclutamento demandato a un concorso “di secondo grado” (che introduce un’impronta burocratica e una marcata selezione per censo), dell’accentuazione della struttura gerarchica del pubblico ministero (con evidenti ricadute sull’obbligatorietà dell’azione penale), dell’introduzione di un accentuato cursus honorum nella dirigenza degli uffici21, di una riforma della Cassazione sempre più separata dai giudici di merito (stante il mancato affiancamento di limiti temporali di permanenza all’abbassamento dell’età di accesso), di possibili condizionamenti e intimidazioni dei magistrati con azioni risarcitorie strumentali anche in pendenza del procedimento cui le stesse si riferiscono.
6. La lunga stagione dell’attacco politico condotto dalla destra (e non solo) contro la giurisdizione e la magistratura ha prodotto, oltre a mutamenti legislativi, altri effetti, indiretti ma non meno significativi. Due su tutti: l’accentuazione del corporativismo della magistratura e la progressiva emersione, tra i giudici e i pubblici ministeri, di una evidente crisi di ruolo. Il corporativismo – inteso come attenzione esclusiva, o prevalente, alle dinamiche interne, con parallelo disinteresse al “punto di vista esterno” – è un carattere tipico di ogni burocrazia. Nella magistratura, peraltro, esso era stato, in qualche misura, contenuto e incrinato dalle prese di posizione e dalle interferenze di Magistratura democratica. Orbene, la lunga stagione berlusconiana ne ha favorito la ripresa inducendo una sorta di “sindrome da cittadella assediata” in cui lo status e l’operato di giudici e pubblici ministeri devono essere difesi in ogni caso, a prescindere dalla situazione specifica. Di qui la chiusura a qualunque critica di merito, invariabilmente vissuta come delegittimazione22, e l’indisponibilità al confronto e alla discussione su qualunque modifica dello status quo, anche nei punti più indifendibili23 (con conseguente isolamento dei magistrati dal contesto dei giuristi, in particolare degli avvocati). C’è un seguito. Nella storia, il corporativismo ha sempre portato con sé accomodamenti nei rapporti istituzionali e autonormalizzazione. Di ciò si vedono ormai – non ingannino alcune iniziative giudiziarie di rilievo – avvisaglie evidenti. A cominciare dalla progressiva involuzione del Csm in una sorta di consiglio di amministrazione della magistratura, secondo il modello perseguito, venticinque anni fa, dal presidente Cossiga: involuzione che produce, tra l’altro, la crescita di prassi clientelari e correntizie (con parziale inveramento dell’assunto sostenuto, ossessivamente e un tempo a torto, dai critici dell’indipendenza e del governo autonomo della magistratura)24.
7. Alla crescita di corporativismo si è, nel tempo, affiancata una diffusa crisi di ruolo che ha portato – e sempre più porta – giudici e pubblici ministeri (talora anche tra quelli maggiormente qualificati sul piano professionale) a ricercare o accettare eterogenei ruoli esterni (alternativi a quelli giudiziari o con essi concorrenti), evidentemente ritenuti più gratificanti di quelli ordinari. L’elenco è lungo e va dalla direzione (o occupazione) di uffici ministeriali o di authority alle consulenze politico-amministrative25, dalle funzioni di collegamento o di rappresentanza in istituzioni internazionali alle cariche sportive, dalla politica attiva alla frequentazione di enti o istituzioni variamente intrecciati con la politica26, dagli incarichi universitari a impegni letterari o giornalistici continuativi. Si tratta di fenomeni non nuovi, ma che oggi, insieme con i casi crescenti di abbandono precoce della toga, realizzano una vera e propria fuga dal ruolo, in brusca controtendenza con la situazione degli anni novanta del secolo scorso (allorché la professione di magistrato divenne la più appetibile tra i laureati in giurisprudenza e tra i magistrati si diffuse, talora, una considerazione salvifica della propria funzione). È in questo contesto che si ripropone la questione della partecipazione dei magistrati alle elezioni politiche e le polemiche che la accompagnano, rinverdite, nel 2013, dalla infelice vicenda della “discesa in campo” di Antonio Ingroia27. Si tratta di un problema antico, per il quale – pur con gli aggiornamenti imposti dall’avvento del sistema maggioritario e dalle connesse modalità burocratiche e centralizzate di selezione della rappresentanza28 ‒ resta ancor oggi valida, almeno per me, l’antica indicazione di M. Ramat, secondo cui ai magistrati si addice la partecipazione alla «politica delle idee» e non l’inserimento nella «politica del potere», magari con strumentalizzazione a fini elettorali delle funzioni svolte e delle inchieste compiute. Superfluo sottolineare come, invece, la questione sia strumentalizzata e cavalcata con slogan a senso unico, che, con l’evocazione di una apparente apoliticità, finiscono per veicolare, nei fatti, un ritorno acritico dei magistrati nella sfera del potere29.
8. Intanto, soprattutto nella giustizia penale, si affacciano, talora, preoccupanti fenomeni distorsivi. Circoscritti, a oggi, ma su cui occorre riflettere prima che dilaghino (o, meglio ancora, per evitare che ciò avvenga). Sono fenomeni eterogenei e finanche di segno opposto, che vanno dalle inerzie burocratiche alle forzature antigarantiste (alle quali concorrono protagonismi indebiti che finiscono per scambiare le ipotesi accusatorie con le prove30, un uso disinvolto della custodia cautelare a fini di stigmatizzazione sociale31, improprie alleanze funzionali a processi a mezzo stampa paralleli a quelli celebrati nelle aule di giustizia e via elencando). Si intravede, in essi, l’affievolirsi di un modello di giurisdizione capace di coniugare rigore e garanzie nei confronti di tutti, senza sconti per alcuni e scorciatoie probatorie per altri. Tale calo di tensione si avverte anche nel momento organizzativo degli uffici dove il pur rilevante ricambio generazionale e culturale non ha prodotto l’auspicato salto qualitativo in termini di efficienza e, insieme, di trasparenza (come conferma il ripetersi, soprattutto nelle Procure, di scelte organizzative accentrate e di conflitti delegittimanti32). In questo contesto, poi, ritornano abitudini antiche, con presidenti di corti d’appello e procuratori generali che, in occasione delle inaugurazioni dell’anno giudiziario, usano l’aula magna dei palazzi di giustizia come lo Speakers’ Corner di Hyde Park, non per esporre analisi e proposte sull’andamento della giustizia (elaborate in un confronto con i magistrati del proprio ufficio) ma per esprimere personali opinioni o per effettuare pressioni sui contenuti della giurisdizione33. Anomalie e irritualità. Forse, ma sarebbe bene non assistervi in silenzio.
9. Nella prospettiva di un’analisi attenta e rigorosa su quanto sta accadendo nella giurisdizione non può essere elusa, anche per l’autorevolezza di chi l’ha avanzata, una recente riflessione di G. Zagrebelsky sul potere e sulla sua ristrutturazione in atto34. Nella società dell’Ancien Régime – scrive l’illustre costituzionalista – c’era «una stratificazione sociale per piani orizzontali paralleli, sovra e sotto-ordinati, più o meno relativamente impermeabili. A ciascuno di questi piani corrispondevano stili di vita, gusti, culture e letteratura, musica, teatro, talora lingue, abitudini alimentari, leggi particolari». Il piano sovraordinato era, ovviamente, quello del potere. A esso appartenevano i giudici, seppur, per quanto riguarda la bassa magistratura, occupandone i margini. A rendere stringente e immodificabile questa collocazione provvedevano leggi e statuti; ma il vincolo di appartenenza, per così dire castale, era di tutti il più forte. Ed era così da sempre, in una dimensione che collocava i magistrati nella sfera del potere tout court. Così la giustizia – come già ricordato ‒ altro non era che una manifestazione, dell’unico potere sovrano. Con tutte le ovvie conseguenze in termini di garanzia dello status quo. La situazione odierna – continua Zagrebelsky – propone modelli organizzativi diversi ma una struttura di fondo non dissimile:
Le oligarchie odierne […] si costruiscono, si modificano e si distruggono con moti circolari ascendenti e discendenti, dove tutto si confonde. […] Nei sistemi contemporanei il riferimento alla casta, a una suddivisione della società per stratificazioni di piani che non si incontrano è fuorviante. Preferisco, per questo, fare riferimento al concetto del “circolo”, del “giro”, di qualche cosa che si muove dal basso all’alto come una ruota […]. Questa struttura del potere mai come oggi è stata estesa, capillare, omnipervasiva. Se solo per un momento potessimo sollevare il velo e avere una veduta di insieme resteremmo sbalorditi di fronte alla realtà nascosta dietro la rappresentazione della democrazia. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, delle gerarchie ecclesiastiche, dell’economia, della finanza, dell’università, della cultura, dello spettacolo, nell’innumerevole pletora di enti, consigli, centri, fondazioni che, secondo i propri princìpi, dovrebbero essere reciprocamente indipendenti e sono, invece, attratti negli stessi mulinelli del potere corruttivi di ruoli, competenze e responsabilità.
Sono, una volta tanto, meno tranchant di G. Zagrebelsky e credo che la situazione della magistratura sia più complessa e articolata di quanto sembrerebbe trarsi dalla sua – pur lucida – analisi. E tuttavia non mancano i segnali nella direzione da lui indicata: basti, per tutti, il velo squarciato del coinvolgimento di alcuni alti magistrati, in anni recenti, nel giro di potere, più o meno segreto, giornalisticamente definito P335.
10. Che fare, dunque? In assenza di idee forti si sta navigando a vista, con una implosione della giurisdizione e della magistratura ignorata solo da chi non la vuole vedere (e continua a gestirla con la criminalizzazione di alcune “mele marce” e con interventi disciplinari o paradisciplinari). Inutile illudersi. Non basterà il crepuscolo dei riflettori sui processi nei confronti di Silvio Berlusconi e l’attenuarsi delle reazioni eversive che li accompagnano a restituire (o a conferire) automaticamente alla giurisdizione un ruolo istituzionale e sociale coerente e credibile. E non basterà ripetere la leggenda metropolitana che dagli anni settanta a oggi la situazione della giustizia è cambiata in meglio (magari omettendo di ricordare l’avvenuto azzeramento dello statuto dei lavoratori, approvato proprio nel lontano 1970, o il raddoppio del numero dei detenuti, rispetto ad allora, pur in un andamento della criminalità sostanzialmente immodificato). Non sono, purtroppo, le cose a essere cambiate in meglio ma molti degli attuali attori a illudersi (o a fingere) che sia così. Non ha senso, peraltro, rimpiangere il passato (e, a maggior ragione, un passato caratterizzato da molte ombre). Occorre, piuttosto, analizzare i caratteri del presente. Per quanto riguarda la giustizia c’è un fatto nuovo importante: l’intervenuto venir meno o la consunzione, nella magistratura, dei protagonisti – positivi e negativi – della vicenda sin qui accennata. È così per Magistratura democratica (ridotta a componente, minoritaria e silenziosa, di un’aggregazione dalle connotazioni incerte finanche nel nome, recepito dalla geometria più che dalla politica o dalla cultura36) ed è così per Magistratura indipendente (divisa ormai in due formazioni autonome di cui una smaccatamente filogovernativa37 e l’altra identificata solo dal rifiuto di tale connotazione38). Anche questo è un segnale della necessità di nuove forme di intervento e, con esse, di nuovi soggetti, nuove reti, nuove alleanze, il cui centro non deve necessariamente essere – come fu negli anni settanta del Novecento – la magistratura. Questo fascicolo, ricco di analisi e sollecitazioni sui temi sin qui richiamati (e su altri ancora) vuole essere un “sasso nello stagno”. Nella speranza che le onde da esso generate si diffondano e si amplifichino.
1 Meno di due anni prima, il 31 luglio 1968, era uscito un fascicolo monografico de «Il Ponte» (n. 6-7/1968) dedicato a La magistratura in Italia che, integralmente scritto da magistrati dell’area di Magistratura democratica (salvo l’introduzione, riservata alla penna dell’allora direttore, E. Enriques Agnoletti), è stato di «Qualegiustizia» l’antecedente culturale e politico. Sulla copertina di quel fascicolo, sotto il titolo, si leggeva: «Per la prima volta dei magistrati si rivolgono direttamente ai cittadini: denunce, confessioni, proposte di riforma. L’Italia è la “patria del diritto”. A quando il paese della giustizia?».
2 «Qualegiustizia» è rimasta sulla scena per tutti gli anni settanta e ha chiuso le pubblicazioni, dopo 52 fascicoli, a fine 1979. A essa ha fatto seguito, a partire dal 1982, «Questione giustizia» che, proprio nei giorni in cui scriviamo, conclude la sua ultratrentennale storia cartacea, lasciando spazio a una nuova esperienza online di cui sono tuttora incerti termini e impostazione.
3 Significativi di quell’approccio, fin dal primo fascicolo, gli interventi di analisi su alcune vicende giudiziarie, tutti non firmati e, dunque, attribuibili all’intero gruppo redazionale: La crisi della giustizia vista dalla Valle del Vajont, Lavorare con disciplina, Sospensioni alla Fiat, Autorità di polizia e libertà di riunione, Le norme fasciste tornano di moda, Una sentenza disgustosa, Film sotto processo…
4 La citazione, risalente al 1908, è dello storico del diritto inglese F. Maitland ed è tratta da L. M. Diez-Picazo, Il modello europeo di magistratura: un approccio storico, in R. Romanelli (a cura di), Magistrati e potere nell’Europa moderna, Roma, Donzelli, 1995. Non disse, dunque, nulla di nuovo o di eversivo, salva la brutalità del tono, il pubblico ministero romano Franco Marrone quando il 2 maggio 1970, intervenendo in un dibattito a Sarzana, affermò che «i giudici sono servi dei padroni» (affermazione che procurò a lui e ai dirigenti di Magistratura democratica che la fecero propria un procedimento penale per vilipendio della magistratura, conclusosi con una piena assoluzione, da parte della Corte d’assise della Spezia, solo sei anni dopo).
5 Come noto, infatti, lo Statuto albertino del 4 marzo 1848, prevedeva, nell’articolo 68, che «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in nome suo dai Giudici che Egli istituisce», così configurando la giustizia, anche in termini istituzionali, come una semplice manifestazioni del potere regio e i giudici, appunto, come servitori del re.
6 Così L. Ferrajoli, Per una storia delle idee di Md, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, Milano, Angeli,1994, p. 57. Quella reciproca percezione è descritta con rara efficacia in un racconto di I. Calvino (originariamente pubblicato in «Rinascita» e poi inserito, con il titolo Impiccagione di un giudice, in Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1994) nel quale, tra l’altro, si legge: «Da tempo il giudice Onofrio Clerici s’era accorto che la gente lo odiava e rumoreggiava nell’aula alla sentenza, e le vedove nelle testimonianze gridavano più contro a lui che alla gabbia; ma lui era sicuro del fatto suo, e anche lui odiava loro, questa gentetta logora, non buona a rispondere a tono nelle testimonianze, non buona a sedere rispettosa nel pubblico, questa gentetta sempre carica di figli e di debiti e d’idee storte: gli italiani». Del resto, ancora all’atto del mio ingresso in magistratura (nel gennaio 1970), l’atteggiamento prevalente della cultura e della politica progressista nei confronti di giudici e pubblici ministeri era la diffidenza e fiorivano i manuali di autodifesa per “militanti” nei confronti dell’intervento giudiziario.
7 Lo ammise, non senza un provocatorio cinismo, in una intervista a Gabriele Invernizzi pubblicata su «L’Espresso» del 24 ottobre 1971, uno degli epigoni di quella magistratura, Luigi Colli, leader dell’Unione dei magistrati italiani, procuratore generale presso la Corte di cassazione e severo censore, sulle colonne de «Il Globo», della politicizzazione della magistratura: «Ah, vedo bene che lei ha capito, si è accorto che io sono un politico. E in effetti Calamari (procuratore generale di Firenze, ndr) ha fatto tanto chiasso su Sofri e gente come lui, ma alla fine Sofri in galera ce l’ho messo io. Perché vede, in realtà non si tratta mai di leggi ma di rapporti di forza».
8 Per approfondimenti sul punto rinvio al mio Appunti per una storia di Magistratura democratica, in «Questione giustizia», n. 1/2002, p. 111 ss. e a G. Palombarini, Giudici a sinistra, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2000.
9 «Occorreva consumare uno scisma dentro la cittadella della giurisdizione» avrebbe scritto vent’anni dopo G. Borré (Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi [a cura di], Giudici e democrazia cit., p. 41).
10 Nell’arco di vent’anni accadde l’incredibile e alla tradizionale diffidenza si sostituirono fiducia, speranza ed emozioni forti tanto che il tema della giustizia divenne uno dei pochi capaci di mobilitare (a volte) una piazza altrimenti rassegnata e silente.
11 Il riferimento è al documento del 30 novembre 1969 con cui Magistratura democratica, a seguito dell’arresto del direttore responsabile di Potere operaio, Francesco Tolin, su ordine di cattura della Procura della Repubblica di Roma, per reati di opinione commessi a mezzo stampa, manifestò la propria preoccupazione e chiese l’apertura di un dibattito su libertà di espressione del pensiero e repressione penale.
12 G. Borré, Le scelte di Magistratura democratica cit.
13 Basti ricordare che le sole indagini sulla Tangentopoli milanese hanno prodotto, nei primi anni novanta, ben 1.281 condanne in primo grado e l’azzeramento (temporaneo) della dirigenza di tutti i partiti di governo.
14 Il giudizio è di P. Davigo e G. Mannozzi (La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Roma-Bari, Laterza, 2007) i quali rilevano che, nel periodo 1983-2002, in alcune regioni d’Italia la corruzione, stando alla rappresentazione giudiziaria, non esiste e non è mai esistita, e ciò mentre si susseguono, al riguardo, denunce circostanziate e precise (come a Reggio Calabria dove, a fronte di tre condanne definitive in venti anni stanno le dichiarazioni rese in sede giudiziaria dall’ex sindaco Agatino Licandro secondo cui: «a Reggio si vive su un sistema che, senza mazzette nei momenti e nei punti giusti, si paralizzerebbe»). Si tratta di giudizio condiviso da un altro pubblico ministero della Tangentopoli milanese che, dieci anni dopo, ha commentato: «Mani pulite è stata inutile, ma anche controproducente. Inutile perché non mi pare che abbia causato un contenimento della corruzione. Controproducente perché ha confermato il senso di impunità che già prima accompagnava questo tipo di reati. Le prescrizioni si sono “mangiate” gran parte dei reati, i processi si sono ancor più allungati, ed è aumentata la confusione tra garanzie sostanziali e apparenti. La giustizia italiana – almeno per i reati dei “colletti bianchi” – è ridotta ormai a una macchina per tritare l’acqua» (G. Colombo, in G. Barbacetto-P. Gomez-M. Travaglio, Mani pulite. La vera storia, Roma, Editori Riuniti, 2002, p. 678-679). Cfr., inoltre, infra, A. Vannucci, L’irrisolta questione corruzione, il quale segnala il marcato andamento decrescente, negli ultimi vent’anni, delle condanne per corruzione e concussione, passate da oltre 1.700 nel 1996 ad appena 263 del 2010.
15 Mi riferisco non solo alla cancellazione, sotto la mannaia della prescrizione applicata in Cassazione, di ogni responsabilità per le migliaia di morti per le polveri dell’Eternit a Casale Monferrato, ma anche alla sostanziale marginalità dell’intervento giudiziario nel settore, attestata da una rilevazione empirica effettuata nel circondario del Tribunale di Firenze dalla quale risulta che solo nel 15-20% dei casi di infortunio mortale il processo penale arriva alla fase del dibattimento e solo nel 2-3% dei casi si conclude con l’accertamento e la condanna dei responsabili (così B. Deidda, Storia e prospettive dell’intervento giudiziario a tutela della salute in fabbrica, in «Questione giustizia», n. 2/2012).
16 Lo dimostrano la crescita costante dei detenuti, passati dai 25.804 del 31 dicembre 1990 ai 68.258 della stressa data del 2009 (e scesi a 54.428 il 30 novembre 2014 solo grazie a una serie di provvedimenti tampone) pur in una situazione stazionaria della criminalità e la netta prevalenza di imputati o condannati per delitti contro il patrimonio o per violazioni della legge sulla droga (che sfiorano il 50%). E ciò pur se – come è stato lucidamente affermato – «i crimini dei colletti bianchi (dai reati ambientali a quelli societari, dall’evasione fiscale alle frodi alimentari e via elencando) producono maggiore sofferenza e morte di tutti i criminali comuni messi insieme» (A. Cottino, «Disonesto ma non criminale». La giustizia e i privilegi dei potenti, Roma, Carocci, 2005, p. 16).
17 Basti citare il caso dei migranti nei cui confronti è emersa finanche una giurisprudenza in forza della quale si attribuisce (a fini risarcitori) un diverso valore alla vita di un italiano rispetto a quella di un albanese o di un nigeriano (cfr. L. Pepino, Forti con i deboli, Milano, Rizzoli, 2012, p. 202).
18 In questo quadro si inseriscono anche atteggiamenti di diretta delegittimazione della magistratura e della giurisdizione da parte di alte cariche istituzionali. Particolarmente gravi quelli dell’allora presidente della Repubblica Napolitano tesi a ostacolare, con il noto conflitto di attribuzioni in punto utilizzazione di intercettazioni di alcune telefonate da lui ricevute, delicate indagini della Procura di Palermo, proseguiti con il tentativo, sino all’ultimo, di evitare la propria audizione come teste nel conseguente dibattimento.
19 La riforma ordinamentale definita con la legge 30 luglio 2007 (sotto il Governo di centrosinistra presieduto da Romano Prodi), lungi dall’essere la realizzazione della promessa elettorale di sostituire l’ordinamento giudiziario targato Castelli (legge delega 25 luglio 2005, n. 150 e conseguenti decreti legislativi), è stata una soluzione compromissoria al ribasso condizionata dalla volontà di rivalsa di settori consistenti della politica e dalla intervenuta sconfitta del progetto riformatore dell’ordinamento giudiziario coltivato dalla cultura giuridica e politica progressista tra gli anni settanta e i primi anni novanta.
20 Basti ricordare la marginalizzazione del giudice nel settore del lavoro e la nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati.
21 L’operazione è stata perseguita soprattutto con una sorta di “truffa delle etichette” che ha introdotto, spacciandolo per temporaneità degli incarichi direttivi, un semplice limite di permanenza nell’incarico, destinato a creare una vera e propria carriera direttiva con passaggio da una ad altra (più prestigiosa) sede.
22 Questa sindrome ha investito anche Magistratura democratica che, nell’arco di qualche decennio, ha abbandonato ogni intervento critico su specifici procedimenti, preferendo il silenzio e talora, addirittura, l’assunzione di un ruolo di certificazione di correttezza di pur opinabili orientamenti giudiziari (come nel documento del 1° marzo 2012, concernente processi relativi al Tav in Val Susa, il cui testo può leggersi in L. Pepino, Costruire il nemico: una storia esemplare, in L. Pepino e M. Revelli, Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2012, pp. 156-157).
23 Penso alle questioni della separazione delle funzioni e della responsabilità civile dove l’opposizione della magistratura alle modifiche legislative prospettate, per lo più giusta nel merito, è stata prevalentemente condotta in modo sbagliato, talora negando l’evidenza (come l’inopportunità di un continuum nello stesso territorio tra l’esercizio delle funzioni di pubblico ministero e di quelle di giudice e l’insufficiente tutela delle vittime di errori giudiziari clamorosi).
24 Su questa tendenza, avvertibile ormai da anni, mi permetto rinviare al mio «Non sognavo il Consiglio». Note sparse su magistrati, autogoverno, rappresentanza, in «Questione giustizia», n. 5/2009, p. 49.
25 Il riferimento è non solo ai ruoli ministeriali per cui è prevista dalla legge la copertura con magistrati, ma anche a incarichi a dir poco anomali come quello – cito un caso degli ultimi anni novanta – di segretario politico di un sottosegretario (sic!). Ma c’è di più ché, durante la consiliatura 2006-2010, mi è accaduto di dovermi pronunciare finanche sulla richiesta – sostenuta con vigore da alcuni componenti – di un consigliere di Cassazione di lungo corso associativo che chiedeva di essere autorizzato a svolgere al mattino le funzioni di giudice della Corte suprema e al pomeriggio quelle di consulente di un ministro.
26 Mi riferisco, per esempio, ai casi di un procuratore generale della Cassazione nominato dal Consiglio dei ministri, subito dopo il pensionamento, garante per il monitoraggio dell’esercizio delle prescrizioni contenute nella autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, di un avvocato generale milanese e di un presidente della Corte d’appello della stessa città nominati, dopo il congedo, componenti dell’organismo di vigilanza interna e dell’area sviluppo di Finmeccanica, di un presidente del Tribunale di Milano, nominato ancor prima della scadenza dell’incarico giudiziario, presidente del «Milan Center for Food Law and Policy» (Centro di documentazione e studio sulle norme e sulle politiche pubbliche in materia di alimentazione) fondato nel febbraio 2014 su impulso di Expo Milano 2015, Regione Lombardia, Comune di Milano e Camera di commercio.
27 Si veda il mio Antonio Ingroia, i magistrati, la politica, in «Questione giustizia», n. 1/2013, p. 21 ss.
28 Cfr. sul punto le lucide osservazioni di N. Rossi, Democrazia maggioritaria e giurisdizione, in «Questione giustizia», nn. 3-4/1992, p. 524 ss.
29 La strumentalità di tali posizioni è dimostrata dal fatto che alla loro astratta proclamazione si accompagnano prassi del tutto diverse. Negli ultimi decenni, infatti, il transito di magistrati dalle aule di giustizia al Parlamento è stato favorito da tutte le forze politiche ed è avvenuto spesso proprio grazie alla notorietà acquisita con l’attività giudiziaria. Luciano Violante entrò alla Camera sull’onda del processo nei confronti di Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi per il cosiddetto golpe bianco; Tiziana Parenti non avrebbe mai varcato la soglia di Montecitorio se non avesse manifestato opzioni contrapposte a quelle del pool della Procura milanese nei processi di Mani pulite; Giuseppe Ajala deve i suoi quattordici anni di deputato e senatore al precedente ruolo di pubblico ministero nel maxiprocesso palermitano; e altrettanto è a dirsi, con gli opportuni adattamenti, per Felice Casson o per Gerardo D’Ambrosio, per Alberto Maritati o per Nitto Palma (diventato finanche, non è dato sapere per quali meriti oltre a quelli giudiziari, il più scialbo ministro della Giustizia della storia repubblicana) e via elencando. E che dire della – apparentemente irresistibile – ascesa di Piero Grasso, senza soluzione di continuità, da procuratore di Palermo a procuratore nazionale antimafia e, via via, a senatore, presidente del Senato e candidato finanche a tutte le ulteriori più alte cariche dello Stato?
30 Sul punto cfr. già G. Santalucia, Giudici a Sud. Tendenze e problemi del processo penale, in «Questione giustizia», n. 6/2007, p. 1187 e E. Sirianni, La sovranità aggirata (Pulsioni inquisitorie e strategie mediatiche nel processo penale), ivi, n. 5/2009, p. 19.
31 Il riferimento è, in particolare, alla gestione di numerosi procedimenti riguardanti conflitti sociali e reati commessi nell’ambito degli stessi: sul punto cfr. infra, L. Pepino, Movimenti e repressione penale. Il caso Tav.
32 Tra gli altri, particolarmente eclatante è stato il conflitto che ha investito negli ultimi due anni la Procura della Repubblica di Milano.
33 È accaduto per esempio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015 che il presidente della Corte di appello di Milano abbia commentato la vicenda della audizione dell’allora presidente della Repubblica Napolitano da parte del Tribunale di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia, affermando tra l’altro: «È mia ferma e personale opinione (sic!) che questa dura prova si poteva risparmiare al capo dello Stato, alla magistratura stessa e alla Repubblica Italiana». O che, nella stessa circostanza, il procuratore generale presso la Corte d’appello di Torino, tre giorni prima della decisione del tribunale torinese in un complesso e controverso dibattimento relativo a violenze accadute in Valsusa, sia intervenuto a piedi giunti criticando la sentenza emessa in un procedimento parallelo, a suo avviso troppo mite, affermando testualmente: «Non posso tacere le mie perplessità di fronte ad atteggiamenti culturali di sottovalutazione, se non addirittura di svilimento, di fatti di violenza politica che invece dovrebbero allarmare quanto mai. […] Fermo restando il doveroso rispetto per tutte le decisioni giudiziarie, ribadisco tutte le mie perplessità per decisioni in cui, ad esempio, in relazione a un articolo di legge si impiegano quasi trenta pagine per spiegare che dove nello stesso si trova la congiunzione ‘o’ si deve leggere la congiunzione ‘e’, e questo per aumentare le condizioni necessarie per riconoscere la sussistenza della finalità di terrorismo» (entrambi i passaggi citati sono ripresi da «la Repubblica» del 25 gennaio 2015).
34 G. Zagrebelsky, L’essenza della democrazia, in E. Gallina (a cura di), Vivere la democrazia, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2013, p. 34, poi ripreso, testualmente, in Contro la dittatura del presente. Perché è necessario un discorso sui fini, Roma-Bari, Laterza-La Repubblica, 2014, p. 38.
35 In tale procedimento è stato addirittura rinviato a giudizio per corruzione, per fatti commessi nel 2010, mentre era in carica, l’allora primo presidente della Corte di cassazione Vincenzo Carbone (nei cui confronti è in corso il dibattimento davanti al Tribunale di Roma).
36 Tale è, all’evidenza, la denominazione «Area».
37 Questa dimensione, non smentita da alcune rivendicazioni di carattere corporativo apparentemente di rottura, è confermata dal ruolo di leader tuttora in essa rivestito da un magistrato – Cosimo Ferri – da tempo assurto al ruolo di sottosegretario alla giustizia (inizialmente indicato da Forza Italia ma rimasto saldamente insediato nell’incarico nonostante il passaggio all’opposizione di quest’ultima).
38 Esplicita in questo senso la lettera di dimissioni di una delle personalità più significative del gruppo, Marcello Maddalena, tutta fondata sul disagio di continuare a stare nella «corrente del sottosegretario» con quel che essa evoca («Che un magistrato vada e venga dalla politica non interessa affatto. Che, anzi, si pensa che il sostegno e l’appoggio, per qualsiasi cosa [la partecipazione a qualche commissione; un distacco fuori ruolo; un incarico direttivo o semidirettivo], di un sottosegretario amico possa ben tornare utile»).
Fonte: Il Ponte
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