La classe media come la conosciamo oggi - e come i nostri figli, sic stantibus rebus, conosceranno solo sui libri di storia - è il prodotto diretto di una lotta alla diseguaglianza sociale di cui ha completamente perso la memoria. L'inconsapevolezza di questa genitura è dimostrata dall'entusiasmo con cui oggi si abbevera alle nuove (?) retoriche della competizione e della privatizzazione rinnegando ciò che l'ha strappata e la preserva dal fango da cui proviene: l'universalità dei diritti e delle opportunità (istruzione, lavoro, casa, salute) garantita dalle leggi e dalla spesa dello Stato.
La lotta alla diseguaglianza - cioè la possibilità di esistere di una classe media - può essere riformulata anche come principio relativo: chi sta peggio perché ammalato, povero, invalido, anziano, disoccupato, disabile, ma anche tossicodipendente, emarginato, deviato ecc. nuoce al benessere medio della comunità e quindi va aiutato nell'interesse di tutti.
Sulla linea di questo principio implicito se non ignorato dai più (a partire da chi ne ha avuto beneficio) si è mossa l'Italia del dopoguerra e dell'industrializzazione passando dalla filantropia e dal mutualismo al welfare, all'universalità dei servizi pubblici e alle tutele del lavoro e dei salari. Che in una società dove "nessuno resta indietro" le cose vadano molto meglio per tutti (con l'eccezione, eventuale e di breve termine, del proverbiale 1%) è confermato dalla storia recente e dalla scienza economica. Il Nobel 2001 Joseph Stiglitzsi è dedicato allo studio delle cause e delle conseguenze della diseguaglianza economica e ha osservato che la diseguaglianza:
Sulla linea di questo principio implicito se non ignorato dai più (a partire da chi ne ha avuto beneficio) si è mossa l'Italia del dopoguerra e dell'industrializzazione passando dalla filantropia e dal mutualismo al welfare, all'universalità dei servizi pubblici e alle tutele del lavoro e dei salari. Che in una società dove "nessuno resta indietro" le cose vadano molto meglio per tutti (con l'eccezione, eventuale e di breve termine, del proverbiale 1%) è confermato dalla storia recente e dalla scienza economica. Il Nobel 2001 Joseph Stiglitzsi è dedicato allo studio delle cause e delle conseguenze della diseguaglianza economica e ha osservato che la diseguaglianza:
è il risultato di scelte politiche, non di contingenze "economiche" né tantomeno naturali,
non promuove il "merito" aumentando il premio per chi si impegna e il castigo per chi non si impegna, ma immobilizza la società in blocchi sempre più distanti e incomunicanti,
indebolisce l'economia perché riduce i consumi,
frena lo sviluppo perché esclude i bisognosi dalla formazione e i disperati dal lavoro, mentre chi sta in cima alla scala sociale investe le proprie competenze nella ricerca di rendite (rent seeking) e non nella produzione di ricchezza,
produce instabilità sociale e favorisce il crimine,
mina la democrazia concentrando il potere politico nelle mani dei più ricchi, i quali producono regole favorevoli ai più ricchi aggravando il divario.
Nella Brianza degli anni '90, quella in cui il Pedante ha trascorso la sua lunga adolescenza, erano numerosi i piccoli imprenditori e liberi professionisti di successo con villetta mansardata sui colli, pied-à-terre ai laghi e figli a spasso nelle università straniere. Di costoro, anche se in qualche caso più spregiudicati del lecito, si usava dire "beati loro!". Nella percezione di allora - la stessa dell'exploit berlusconiano - il diffuso successo imprenditoriale era l'indice e la garanzia di un benessere alla portata di tutti. Di chi sceglieva la via più sicura di un dignitoso impiego in aziende, banche o enti pubblici si diceva invece bonariamente che si era "sistemato bene". Ciò che turbava i sonni dell'industre lombardo erano piuttosto coloro che languivano ai margini di quel sistema di sicurezza e benessere: non certo per calcolo macroeconomico, ma perché in effetti il disagio altrui rappresentava un pericolo per l'ordinata prosperità della maggioranza. Ai motivi etici, religiosi, criminali, igienici e finanche estetici si univa la minaccia che il fallimento di qualcuno potesse mettere in crisi l'universalità e la replicabilità del modello di successo prevalente. Da cui l'impegno di giovani e vecchi nel volontariato ma anche, allora come oggi, le interpretazioni meritocratiche per esorcizzare il contagio.
Da allora sembrano passati mille anni. La crisi economica invocatae provocata dai grandi operatori finanziari ha fatto del disagio e dell'insicurezza la regola, non l'eccezione. E, con un ribaltamento di paradigma radicale ma conformista tanto quanto il precedente, il problema non è più chi sta peggio, ma chi sta (ancora un po') meglio. Se passa - come è passata - l'idea di uno Stato la cui prima funzione sia quella di garantire utili a un ristretto gruppo di creditori, qualsiasi spesa pubblica che non sia la corresponsione di capitale e interessi è tecnicamente improduttiva e mette a rischio un equilibrio contabile incredibilmente assurto a principio costituzionale. Se i cittadini di quello Stato credono - come credono - che ciò che lo Stato spende per migliorare la condizione di chi ci abita non assolva al senso stesso di un'organizzazione statale ma costituisca un passo verso il suo "fallimento" (?), allora la rinuncia a quel beneficio diventa un dovere civico a cui tutti sono chiamati. Se poi i lavoratori si persuadono - come sono persuasi - che l'unica via allo sviluppo sia la competizione al ribasso sui mercati aperti, la rinuncia a salari e diritti assume il volto nobile del sacrificio per il bene economico della patria.
Il peggioramento delle condizioni di un'intera classe sociale smette di essere un pericolo (quale è) e un veicolo (quale è) di divaricamento della diseguaglianza e si trasfigura in condizione necessaria e terapeutica a cui nessuno si deve sottrarre, neanche potendo: pensionati, dipendenti pubblici e privati a tempo indeterminato, beneficiari di prestazioni superflue (?), assistiti, agevolati. L'imperativo morale crea nessi tecnici inesistenti e malfondati, come l'ossessione del parassitismo: chi sta meglio perché gode di tutele negate ad altri non solo è un privilegiato, ma lo è a spese di chi sta peggio. Perché? Perché deve essere così. La caccia alle streghe produce follie logico-aritmetiche: se stessimo tutti peggio, staremmo tutti meglio.
La signora del Pedante è impiegata in un importante istituto di credito cooperativo e può godere di - anacronistici, ça va sans dire - benefici tra cui l'accesso a una cassa di assistenza mutualistica che rimborsa ai dipendenti parte delle spese sanitarie. Parenti e conoscenti, invece di rallegrarsi o di auspicare iniziative simili per sé, commentano indignati che "nel 2015 simili privilegi sono uno schiaffo per chi non può neanche permettersi un'otturazione!". Al che ci si tace. Inutile sarebbe far loro osservare che quella cassa è finanziata dall'autotassazione dei dipendenti senza pesare sull'erario. Inutile argomentare che il problema è semmai che nel 2015 c'è chi ancora non può curarsi i denti. No: chi sta meglio perpetua un sistema di privilegi diventato (quando? perché?) insostenibile che in qualche mododeve pesare sulle spalle di chi sta peggio. Dalla mutua sanitaria al credit crunch: il passo pindarico è breve.
La razionalità non ha patria nell'invidia sociale e nelle narrazioni moralistiche destinate alle masse. Ugualmente inutile sarebbe evidenziare, se non le conclusioni di Stiglitz, almeno qualche dettaglio che è sotto gli occhi di tutti:
se la politica di riduzione delle tutele e del benessere della classe media non ha frenato la recessione, ciò significa che: a) sicuramentenon funziona; b) probabilmente ne è una delle cause;
se i prezzi reali di beni e servizi nazionali restano invariati o aumentano, ciò dimostra matematicamente che il sacrificio della classe media è annullato dall'arricchimento di qualcun altro: ad esempio i rentier di Stato che lucrano sull'aumento della spirale debito-pressione fiscale;
coloro che predicano le virtù del rischio sono benestanti ipergarantiti dallo Stato: dal prof. Monti (32 mila euro mensili pubblici a vita) ai sontuosissimi trattamenti retributivi e pensionistici dei funzionari della Troika (UE, BCE, FMI). Sarebbe però inutilmente idiota traslare l'indignazione sul piano dei "privilegi della casta" - perché, ancora una volta, il problema è chi sta peggio, non chi sta meglio. Il caso deve invece far riflettere sui veri obiettivi di un'insicurezza selettivamente predicata solo ai più deboli;
ancor di più, i mandanti di questi predicatori incoerenti - la classe finanziaria che tutto vende e nulla produce - coltivano la propria sopravvivenza e prosperità rigorosamente sotto la garanzia dello Stato e al riparo dal mercato, per i motivi e nei modi spiegati ne Il socialismo dei ricchi.
Lo spettacolo di una classe media che presume di avanzare socialmente in una competizione tra singoli finalmente libera dai ceppi delle politiche di equalizzazione sociale - cioè le stesse che la mantengono in vita - è tra i capitoli più penosi dell'attuale fase di involuzione economica. Per capire la tragicomica velleità di questa presunzione basterebbe solo osservare, se non i fatti, la facilità con cui una sparuta classe finanziaria tiene con la testa nel fango questa massa di aspiranti conquistadores del libero mercato con trucchi di bassa ragioneria (debito & co.), slogan da teledipendenti (Europa & co.) e parabole colpevolizzanti (corruzione & co.).
Organizzare una lotta di classe dove tutte le squadre tirano nella stessa porta - quella del più debole - è certamente un capolavoro di ingegneria sociale. Tanto più se i perdenti sono fieri di perdere. La chiave è l'invidia sociale, che fa credere ai polli di farsi galli a patto che gli altri polli perdano i propri diritti. Con il risultato classico di ogni guerra tra poveri: di risparmiare ai padroni la fatica di portarli al macello.
Fonte: il pedante via Voci dall'Estero
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