La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 19 agosto 2015

Passioni ludiche senza desiderio

di Jean Baudrillard
È quello che dice il Dia­rio del sedut­tore: nella sedu­zione non c’è nes­sun sog­getto padrone di una stra­te­gia, e quando que­sta si dispiega nella piena con­sa­pe­vo­lezza dei mezzi pos­se­duti, è ancora sot­to­messa a una regola del gioco che le è supe­riore. Dram­ma­tur­gia rituale al di là della legge, la sedu­zione è un gioco e un destino che con­duce ine­lut­ta­bil­mente i pro­ta­go­ni­sti verso la pro­pria fine, senza che la regola sia infranta, poi­ché è lei che li lega. E l’obbligo fon­da­men­tale è che il gioco con­ti­nui, sia pure a costo di morire. Una spe­cie di pas­sione lega dun­que i gio­ca­tori alla regola che li lega, e senza la quale non sarebbe pos­si­bile giocare.
Comu­ne­mente viviamo nell’ordine della Legge, anche e per­sino quando abbiamo il fan­ta­sma di abo­lirla. L’unico al di là della legge per noi con­ce­pi­bile è la tra­sgres­sione o l’eliminazione del divieto. Infatti, il modello della Legge e del divieto governa il modello inverso di tra­sgres­sione e libe­ra­zione. Ma in realtà, quel che si oppone alla legge non è affatto l’assenza di legge, è la Regola.
La regola gioca su una con­ca­te­na­zione imma­nente di segni arbi­trari, men­tre la Legge si fonda su una con­ca­te­na­zione tra­scen­dente di segni neces­sari. L’una è ciclo e ricor­renza di pro­ce­dure con­ven­zio­nali, l’altra è un’istanza fon­data su una con­ti­nuità irre­ver­si­bile. Per l’una esi­stono sol­tanto obbli­ghi, per l’altra costri­zioni e divieti. La Legge può e deve essere tra­sgre­dita, per­ché instaura una linea di spar­ti­zione. Di con­tro, non ha alcun senso «tra­sgre­dire» una regola del gioco: nella ricor­renza di un ciclo, non c’è linea da oltre­pas­sare (si esce dal gioco, punto e basta).

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Per riu­scire a cogliere l’intensità della forma rituale biso­gna senz’altro disfarsi dell’idea che ogni nostra feli­cità pro­venga dalla natura, che ogni nostro godi­mento derivi dalla sod­di­sfa­zione di un desi­de­rio. Il gioco, la sfera del gioco ci rivela, al con­tra­rio, la pas­sione della regola, la potenza che deriva da un ceri­mo­niale, e non da un desiderio.
L’estasi del gioco deriva forse da una situa­zione di sogno in cui ci si muove senza il peso del reale e liberi di abban­do­nare il gioco in ogni momento? Ma è falso: il gioco è sot­to­po­sto a delle regole, al con­tra­rio del sogno, e non lo si molla. L’obbligo che ne deriva è ana­logo a quello della sfida. Mol­lare il gioco non fa parte del gioco, e l’impossibilità di negare il gioco dall’interno – che costi­tui­sce il suo fascino e lo dif­fe­ren­zia dall’ordine del reale – crea allo stesso tempo un patto sim­bo­lico, un’esigenza di osser­vanza senza restri­zione e l’obbligo di andare fino in fondo nel gioco, come nella sfida.
Entrare nel gioco signi­fica entrare in un sistema di obbli­ghi rituali, e la sua inten­sità deriva da que­sta forma ini­zia­tica – e non da qual­che effetto di libertà, come ci piace cre­dere, per un effetto stra­bico della nostra ideo­lo­gia che distorce tutto in fun­zione della sola fonte «natu­rale» di feli­cità e godi­mento.
L’unico prin­ci­pio del gioco, che tut­ta­via non si pone mai come uni­ver­sale, è che la scelta della regola vi libera dalla legge.
Priva di fon­da­mento psi­co­lo­gico o meta­fi­sico, la regola è priva anche di un fon­da­mento di cre­denza. A una regola né si crede né non si crede – la si osserva. La sfera dif­fusa della cre­denza, l’esigenza di cre­di­bi­lità che avvolge tutto il reale sono vola­ti­liz­zate nel gioco – da qui la sua immo­ra­lità: fun­zio­nare senza cre­derci, lasciar risplen­dere il fascino diretto di segni con­ven­zio­nali, di una regola priva di fondamento.
Niente qui è «pos­si­bile» per­ché tutto si gioca e si risolve senza alter­na­tive né spe­ranza, all’interno di una logica imme­diata e irre­mis­si­bile. Que­sta è la ragione per cui non si ride intorno a un tavolo di poker: la logica del gioco, infatti, è cool, ma non disin­volta, e il gioco, essendo senza spe­ranza, non è mai osceno e non fa mai ridere. È certo più serio della vita, visto che, para­dos­sal­mente, la vita può ridi­ven­tarne la posta.

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Il gioco, allora, non è fon­dato sul prin­ci­pio di pia­cere molto più di quanto lo sia sul prin­ci­pio di realtà. La sua risorsa è l’incanto che pro­viene dalla regola e dalla sfera che que­sta descrive – una sfera che non riguarda affatto l’illusione o il diver­sivo, ma al con­tra­rio qual­cosa che ha un’altra logica, arti­fi­ciale e ini­zia­tica, in cui le deter­mi­na­zioni natu­rali della vita e della morte ven­gono a cadere. Que­sta è la spe­ci­fi­cità del gioco – invano si ten­te­rebbe di annul­larla in una logica eco­no­mica, par­lando di un inve­sti­mento con­scio, o in una logica di desi­de­rio, par­lando di una posta in gioco incon­scia. Coscienza o incon­scio: que­sta dop­pia deter­mi­na­zione vale per la sfera del senso e della legge, ma non per quella della regola e del gioco.
Fine delle dimen­sioni cen­tri­fu­ghe: gra­vi­ta­zione improv­visa e inten­siva dello spa­zio, abo­li­zione del tempo, che implode all’istante e assume una den­sità tale da sfug­gire a tutte le leggi della fisica tra­di­zio­nale – tutto il pro­cesso assume una cur­va­tura a spi­rale pro­iet­tata verso il cen­tro, dove l’intensità è più forte che altrove. Que­sta è la fasci­na­zione del gioco, la pas­sione cri­stal­lina che can­cella la trac­cia e la memo­ria, che fa per­dere il senso. Tutte le pas­sioni sono ana­lo­ghe a que­sta nella forma, ma la pas­sione del gioco è la più pura.
L’analogia migliore sarebbe quella delle cul­ture pri­mi­tive, che ci hanno descritto come chiuse su se stesse e senza imma­gi­na­rio sul resto del mondo. Ma il fatto è che il resto del mondo esi­ste sol­tanto per noi, men­tre la loro chiu­sura, lungi dall’essere restrit­tiva, rivela una logica diversa che noi, presi nell’immaginario dell’universale, non riu­sciamo più a con­ce­pire, e cioè come oriz­zonte limi­tato rispetto al nostro.

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La sfera sim­bo­lica di que­ste cul­ture non cono­sce alcun resto. E anche il gioco, a dif­fe­renza del reale, è qual­cosa di cui non resta niente. La sfera interna del gioco è senza resi­duo, per­ché esso è senza sto­ria, senza memo­ria, senza accu­mu­la­zione interna (la posta vi si con­suma inces­san­te­mente, sem­pre rever­si­bile – la regola segreta del gioco è che niente ne sia espor­tato sotto forma di bene­fi­cio o di «plu­sva­lore»). Ma non si può nep­pure dire che resti qual­cosa all’esterno del gioco. Il «resto» sup­pone un’equazione non risolta, un destino che non si è com­piuto, una sot­tra­zione o una rimo­zione. E invece, l’equazione del gioco è sem­pre per­fet­ta­mente risolta, il destino del gioco com­piuto ogni volta, senza lasciare trac­cia (a dif­fe­renza dell’inconscio).
La teo­ria dell’inconscio sup­pone che deter­mi­nati affetti, scene o signi­fi­canti non pos­sano più, defi­ni­ti­va­mente, essere messi in gioco – for­clusi, fuori gioco. Il gioco, invece, pog­gia sull’ipotesi che tutto possa essere messo in gioco. Altri­menti, biso­gne­rebbe ammet­tere che si ha sem­pre già per­duto, e che si gioca solo per­chè si ha sem­pre già per­duto. Ma nel gioco non c’è oggetto per­duto. Niente di irri­du­ci­bile al gioco pre­cede il gioco, e tanto meno un ipo­te­tico debito ante­riore. Se vi è esor­ci­smo nel gioco, non è quello di un debito con­tratto nei con­fronti della legge, ma al con­tra­rio esor­ci­smo della Legge stessa come cri­mine ine­spia­bile, esor­ci­smo della Legge come discri­mi­na­zione, tra­scen­denza ine­spia­bile nel reale, la cui tra­sgres­sione non fa che aggiun­gere cri­mine a cri­mine, debito a debito, lutto a lutto.
La rela­zione duale, per­ciò, esclude ogni lavoro, ogni merito e ogni qua­lità per­so­nale (soprat­tutto nella forma pura del gioco d’azzardo). I tratti per­so­nali sono ammessi solo come una spe­cie di gra­zia o di sedu­zione, senza equi­va­lenza psi­col­gica. Così va il gioco, ed è la tra­spa­renza divina della Regola a volerlo.
Il fascino del gioco deriva da que­sto sba­raz­zarsi dell’universale in uno spa­zio finito – da que­sto sba­raz­zarsi dell’uguaglianza nella parità duale imme­diata – da que­sto sba­raz­zarsi della libertà nell’obbligo – da que­sto sba­raz­zarsi della Legge nell’arbitrarietà della Regola e del cerimoniale.
Ma non fac­cia­moci ingan­nare: i segni con­ven­zio­nali, i segni rituali sono dei segni obbli­gati. Nes­suno è libero di signi­fi­care iso­la­ta­mente in un rap­porto di coe­renza con il reale, in un rap­porto di verità. La libertà che si sono presi i segni, come gli indi­vi­dui moderni, di arti­co­larsi a loro pia­ci­mento, a misura dei loro affetti e del loro desi­de­rio (di senso) non esi­ste per i segni con­ven­zio­nali, che non pos­sono andare così alla ven­tura, por­tando nella bisac­cia il pro­prio refe­rente, la pro­pria par­ti­cella di senso. Ogni senso è legato all’altro, non nella strut­tura astratta d’una lin­gua, ma nello svol­gi­mento insen­sato d’un ceri­mo­niale; tutti fanno eco tra loro e si rad­dop­piano in altri segni altret­tanto arbitrari.

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Il segno rituale non è un segno rap­pre­sen­ta­tivo. Dun­que, non merita intel­li­genza. Ma ci libera dal senso. Ed è per que­sto che gli siamo par­ti­co­lar­mente legati. Debiti di gioco, debiti d’onore: tutto ciò che riguarda il gioco è sacro per­chè convenzionale.
Se il gioco avesse una qual­siasi fina­lità, il solo vero gio­ca­tore sarebbe il baro. Ora, se può esserci un certo pre­sti­gio nel fatto di tra­sgre­dire la legge, non ce n’è nes­suno in quello di barare, di tra­sgre­dire la regola. D’altronde, il baro non tra­sgre­di­sce, dal momento che, non essendo il gioco un sistema di inter­detti, non vi è nes­suna linea da oltre­pas­sare. La regola non può essere «tra­sgre­dita», può sol­tanto non essere osser­vata. Ma l’inosservanza della regola non vi mette in una situa­zione di tra­sgres­sione , vi fa sem­pli­ce­mente rica­dere sotto la giu­ri­sdi­zione della legge.
È il caso del baro che, pro­fa­nando il rituale, negando la con­ven­zione ceri­mo­niale del gioco, gli resti­tui­sce una fina­lità eco­no­mica (o psi­co­lo­gica, se bara per il pia­cere di vin­cere), e cioè la legge del mondo reale. L’irruzione di una deter­mi­na­zione indi­vi­duale gli fa distrug­gere il fascino duale del gioco. Se un tempo lo si puniva con la morte e ancor oggi lo si disap­prova dura­mente, ciò accade per­chè il suo cri­mine è, in effetti, ana­logo all’incesto: spez­zare le regole del gioco cul­tu­rale a van­tag­gio sol­tanto della «legge di natura».
Per il baro, non esi­ste nep­pure più una posta in gioco, poi­ché la con­fonde con la crea­zione di plu­sva­lore. La posta in gioco, infatti, è innan­zi­tutto qual­cosa che per­mette di gio­care: farne la fina­lità del gioco è una pre­va­ri­ca­zione. E anche la regola non è altro che la pos­si­bi­lità di gio­care, lo spa­zio duale dei part­ner. Chi la con­si­de­rasse un fine (una legge, una verità) distrug­ge­rebbe allo stesso modo il gioco e la sua posta. La regola non ha auto­no­mia, qua­lità emi­nente, secondo Marx, della merce e dell’individuo che agi­sce nel mer­cato, valore sacro­santo del regno eco­no­mico. Il baro, invece, è auto­nomo: ha ritro­vato la legge, la sua legge, con­tro il rituale arbi­tra­rio della regola – ed è que­sto che lo squa­li­fica. Il baro è libero, ed è la sua rovina. Il baro è vol­gare, per­chè non si espone più alla sedu­zione del gioco, per­chè rifiuta di lasciarsi andare alla ver­ti­gine della sedu­zione. E d’altronde, si può ipo­tiz­zare che anche il pro­fitto sia ancora sol­tanto un alibi: in realtà, egli bara per sfug­gire alla sedu­zione, bara per paura di essere sedotto.
La posta in gioco è una par­ti­cella di valore lan­ciata verso il caso, posto come istanza tra­scen­dente, e certo non per assi­cu­rar­sene il favore, bensì per respin­gerne la tra­scen­denza, l’astrazione a farne, invece, un com­pa­gno di gioco, un avver­sa­rio. La posta del gioco è un’ingiunzione «a com­pa­rire», il gioco è un duello: si ingiunge al caso di rispon­dere; la scom­messa del gio­ca­tore lo lega ine­lut­ta­bil­mente – deve dichia­rarsi favo­re­vole o ostile. Il caso non è mai neu­tro: il gioco lo tra­sforma in gio­ca­tore e in figura agonistica.
Come dire che l’ipotesi fon­da­men­tale del gioco è che il caso non esiste.
Il gio­ca­tore si difende a tutti i costi da un uni­verso neu­tro, quello a cui appar­tiene il caso ogget­tivo. Il gio­ca­tore pre­tende che tutto sia pas­sa­bile di sedu­zione, i numeri, le let­tere, la legge che regola il loro ordine seriale – vuole sedurre la Legge stessa. Il minimo segno, il minimo gesto ha un senso, il che non signi­fica una con­ca­te­na­zione razio­nale, ma che ogni segno è vul­ne­ra­bile da parte di altri segni, ogni segno può essere sedotto da altri segni, e il mondo è costi­tuito da con­ca­te­na­zioni ine­so­ra­bili che non sono quelle della Legge.
Que­sta è l’«immoralità» del gioco, così spesso rap­por­tata, invece, al fatto di voler vin­cere un muc­chio di soldi tutto in una volta. Ma sarebbe far­gli troppo onore. Il gioco è molto più immo­rale di que­sta velleità.
Ma allora, se il gioco è un’impresa di sedu­zione del caso che si serve di con­ca­te­na­zioni obbli­gate tra segno e segno del tutto estra­nee a quelle tra causa ed effetto – ma anche a quelle, alea­to­rie, tra serie e serie -, se il gioco tende ad abo­lire la neu­tra­lità ogget­tiva del caso cap­tando la sua «libertà» sta­ti­stica nella forma di un duello, di una sfida e di un rilan­cio inces­sante, è un con­tro­senso imma­gi­nare, come fa Deleuze nella Logica del senso, un «gioco ideale» che con­si­ste­rebbe nella sud­di­vi­sione illi­mi­tata del caso, in un con­ti­nuo aumento di inde­ter­mi­na­zione che ren­de­rebbe pos­si­bile il gioco simul­ta­neo di tutte le serie, e quindi l’espressione radi­cale del dive­nire e del desiderio.

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Il gioco è un sistema senza con­trad­di­zioni, senza nega­ti­vità interna. Per­ciò non si potrebbe riderne. E se non può essere paro­diato è per­chè tutta la sua orga­niz­za­zione è già paro­diata. La regola gioca come simu­la­cro paro­di­stico della legge. Né inver­sione, né sov­ver­sione, ma rever­sione della legge nella simu­la­zione. Il pia­cere del gioco è duplice annul­la­mento del tempo e dello spa­zio, sfera incan­tata di una forma indi­strut­ti­bile di reci­pro­cità – sedu­zione pura – e paro­dia del reale, gioco al rialzo for­male delle costri­zioni della legge.
Quale migliore paro­dia dell’etica del valore se non la sot­to­mis­sione, con tutta l’intransigenza della virtù, ai dati del caso o all’assurdità di una regola? Quale migliore paro­dia dei valori di lavoro, pro­du­zione, eco­no­mia, cal­colo, se non la scom­messa e la sfida, l’immoralità e l’inequivalenza fan­ta­stica tra posta in gioco e vin­cita pos­si­bile (o per­dita, anch’essa immorale)?
Quale migliore paro­dia del con­cetto di con­tratto e di scam­bio se non la com­pli­cità magica, l’impresa di sedu­zione ago­ni­stica del caso e dei com­pa­gni di gioco, la forma di obbli­ga­to­rietà duale che si ha in rap­porto alla regola? E come negare meglio tutti i nostri valori morali e sociali di volontà, respon­sa­bi­lità, ugua­glianza e giu­sti­zia, se non in virtù di quest’esaltazione del fau­sto e dell’infausto, di quest’esultazione di gio­care alla pari con un destino ingiu­sti­fi­cato? O quale migliore paro­dia delle nostre ideo­lo­gie liber­ta­rie se non la pas­sione della regola?
Nota: Dal tavolo verde del poker ai templi delle videoslot, Inizia con questo saggio del filosofo francese un breve viaggio estivo nei regni del gioco d’azzardo. Tra effimera trasgressione e adesione alla Regola.

Fonte: il manifesto

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