di Leonardo Clausi
Nell’estate che potrebbe riportare il Labour Party britannico nell’alveo della propria storia dopo tanto galleggiare in un dopostoria indeterminato quanto certo della propria irrevocabilità, Jeremy Corbyn continua a parlare davanti a traboccanti platee la cui età anagrafica è, nient’affatto sorprendentemente, bassa. Un confortante segnale da parte di una categoria che si temeva ormai quasi strutturalmente aliena da una politica non soltanto limitata ad amministrare cinicamente l’esistente.
Nel frattempo, dentro e fuori il partito, il dibattito prosegue ancora all’interno dei canoni della decenza, anche se la tensione è palpabile. Una poderosa macchina è alacremente al lavoro per sigillare nello spettro di una possibile vittoria del compagno Jeremy l’ineleggibilità atemporale del partito stesso, il suo irrevocabile ritrarsi in una dimensione barricadera politicamente infantile ed elettoralmente suicida. O peggio, torcendo contro Trotzky la sua celebre metafora: finita da tempo nel cestino della spazzatura della storia.
È quello che, in buona sostanza, hanno ripetuto tutti: da Blair a Brown, fino al redivivo David Miliband, fratello maggiore di Ed, passando per Neil Kinnock e Jack Straw. Ovvio, la totemica clausola IV dello statuto sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione, che Corbyn avrebbe intenzione di reintrodurre dopo lo storico strappo blairiano — ma su questo è prevedibilmente evasivo -, gli viene usata contro come un manganello. Ma la vecchia guardia dei dorati successi d’antan, (salvo, naturalmente, Kinnock) di fronte all’opacità della generazione successiva sembra involontariamente dire: «Se non ancora noi, per battere i Tories servono le nostre idee», intrappolando il dibattito nel loop di autoreferenzialità.
Intanto però, nel campo dei candidati centristi volano gli stracci. In particolare tra Andy Burnham, prescelto dall’unico tabloid di aperte simpatie laburiste, il Daily Mirror, e Yvette Cooper, che gode dell’appoggio del Guardian (l’altro candidato centrista, Liz Kendall, langue nelle retrovie). Burnham, in testa agli inseguitori di Corbyn, ha accusato Cooper – attuale ministro ombra agli interni e ancora più centrista di lui — di restare a tutti i costi aggrappata all’idea di continuare la corsa anziché sostenere Andy, l’unica speranza credibile. Piccata la replica dello staff di Cooper, in cui si nega appassionatamente lo svantaggio, ritorcendo l’accusa di calo di consensi e tirando in ballo accuse di maschilismo. Sempre secondo il Guardian, Cooper avrebbe resistito a forti pressioni interne perché lei e Kendall lasciassero la sfida tutta nelle mani di Burnham.
E il giornale ha perfino fatto riferimento a una trama dell’astuto Peter Mandelson, ex ministro del commercio e architetto del New Labour, per far ritirare i candidati e annullare le primarie. Resta il fatto che sia Burnham sia Cooper sono convinti di poter rappresentare una credibile alternativa a Corbyn in caso si passi al secondo turno.
Dal canto suo, Corbyn reagisce alle critiche sfoderando un benigno ecumenismo. Con Tony Blair, Gordon Brown, e quel David «che se avesse vinto lui contro Ed non ci troveremmo in questa situazione» Miliband a disputarsi il primato di «attacco più controproducente dell’anno» (il povero Brown in particolare è stato oggetto d’una feroce gragnuola di critiche digitali), ha insistito sulla positività del proprio successo come importante per il partito, un chiaro segnale a chi ha parlato di rischio scissione. Ha respinto le accuse di antisemitismo rivoltegli da più parti. E ha sottolineato come con lui il partito abbia la possibilità di riavvicinare un elettorato disilluso allontanatosi alla deriva, come le energie fresche di nuovi sostenitori.
Intanto, s’ignora l’entità attuale del distacco fra Corbyn e i rivali Burnham, Cooper, e Kendall. S’è affrettato a puntualizzarlo il sondaggista di YouGov Peter Kellner, che ha prudentemente ritrattato il proprio commento allo schiacciante vantaggio di Corbyn al 53% con vittoria al primo turno la settimana scorsa. Lo spoglio sarà il 10 settembre.
Nell’estate che potrebbe riportare il Labour Party britannico nell’alveo della propria storia dopo tanto galleggiare in un dopostoria indeterminato quanto certo della propria irrevocabilità, Jeremy Corbyn continua a parlare davanti a traboccanti platee la cui età anagrafica è, nient’affatto sorprendentemente, bassa. Un confortante segnale da parte di una categoria che si temeva ormai quasi strutturalmente aliena da una politica non soltanto limitata ad amministrare cinicamente l’esistente.
Nel frattempo, dentro e fuori il partito, il dibattito prosegue ancora all’interno dei canoni della decenza, anche se la tensione è palpabile. Una poderosa macchina è alacremente al lavoro per sigillare nello spettro di una possibile vittoria del compagno Jeremy l’ineleggibilità atemporale del partito stesso, il suo irrevocabile ritrarsi in una dimensione barricadera politicamente infantile ed elettoralmente suicida. O peggio, torcendo contro Trotzky la sua celebre metafora: finita da tempo nel cestino della spazzatura della storia.
È quello che, in buona sostanza, hanno ripetuto tutti: da Blair a Brown, fino al redivivo David Miliband, fratello maggiore di Ed, passando per Neil Kinnock e Jack Straw. Ovvio, la totemica clausola IV dello statuto sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione, che Corbyn avrebbe intenzione di reintrodurre dopo lo storico strappo blairiano — ma su questo è prevedibilmente evasivo -, gli viene usata contro come un manganello. Ma la vecchia guardia dei dorati successi d’antan, (salvo, naturalmente, Kinnock) di fronte all’opacità della generazione successiva sembra involontariamente dire: «Se non ancora noi, per battere i Tories servono le nostre idee», intrappolando il dibattito nel loop di autoreferenzialità.
Intanto però, nel campo dei candidati centristi volano gli stracci. In particolare tra Andy Burnham, prescelto dall’unico tabloid di aperte simpatie laburiste, il Daily Mirror, e Yvette Cooper, che gode dell’appoggio del Guardian (l’altro candidato centrista, Liz Kendall, langue nelle retrovie). Burnham, in testa agli inseguitori di Corbyn, ha accusato Cooper – attuale ministro ombra agli interni e ancora più centrista di lui — di restare a tutti i costi aggrappata all’idea di continuare la corsa anziché sostenere Andy, l’unica speranza credibile. Piccata la replica dello staff di Cooper, in cui si nega appassionatamente lo svantaggio, ritorcendo l’accusa di calo di consensi e tirando in ballo accuse di maschilismo. Sempre secondo il Guardian, Cooper avrebbe resistito a forti pressioni interne perché lei e Kendall lasciassero la sfida tutta nelle mani di Burnham.
E il giornale ha perfino fatto riferimento a una trama dell’astuto Peter Mandelson, ex ministro del commercio e architetto del New Labour, per far ritirare i candidati e annullare le primarie. Resta il fatto che sia Burnham sia Cooper sono convinti di poter rappresentare una credibile alternativa a Corbyn in caso si passi al secondo turno.
Dal canto suo, Corbyn reagisce alle critiche sfoderando un benigno ecumenismo. Con Tony Blair, Gordon Brown, e quel David «che se avesse vinto lui contro Ed non ci troveremmo in questa situazione» Miliband a disputarsi il primato di «attacco più controproducente dell’anno» (il povero Brown in particolare è stato oggetto d’una feroce gragnuola di critiche digitali), ha insistito sulla positività del proprio successo come importante per il partito, un chiaro segnale a chi ha parlato di rischio scissione. Ha respinto le accuse di antisemitismo rivoltegli da più parti. E ha sottolineato come con lui il partito abbia la possibilità di riavvicinare un elettorato disilluso allontanatosi alla deriva, come le energie fresche di nuovi sostenitori.
Intanto, s’ignora l’entità attuale del distacco fra Corbyn e i rivali Burnham, Cooper, e Kendall. S’è affrettato a puntualizzarlo il sondaggista di YouGov Peter Kellner, che ha prudentemente ritrattato il proprio commento allo schiacciante vantaggio di Corbyn al 53% con vittoria al primo turno la settimana scorsa. Lo spoglio sarà il 10 settembre.
Fonte: il manifesto
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