La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 5 agosto 2015

Elinor Ostrom e l'economia dei beni comuni


di Roberta Carlini
Non è solo il fatto che per la prima volta il Nobel per l’economia l’ha preso una donna: c’è anche il fatto che quella donna lavora del tutto fuori dalla corrente più grossa, dal mainstream. Così Larry Elliott ha commentato sul Guardian[1], nell’ottobre del 2009, l’incoronazione di Elinor Ostrom da parte dell’accademia di Stoccolma “per le sue analisi del governo dell’economia, in particolare sui beni comuni”. E in effetti no, non era l’unico segnale di svolta, che quella volta il premio fosse andato a una donna. Però è andato a una donna, pioniera di nuovi studi economici, che nella sua breve biografia consegnata all’accademia si racconta come mai aveva fatto nessuno dei suoi sessantadue predecessori e dei suoi dodici successori maschi (eh sì, è stata la prima e l’ultima volta, finora).
"Sono nata a Los Angeles, in California, il 7 agosto del 1933, e sono cresciuta durante la grande depressione", esordisce Elinor[2]. Continuando così: "Fortunatamente, la nostra casa aveva un grande cortile che abbiamo riempito con un orto e alberi da frutto". Sotto il solleone Elinor impara a coltivare verdure e preparare marmellate, poi "durante la seconda guerra mondiale sferruzza sciarpe per i nostri ragazzi laggiù”. Dopo un po’, Elinor si trova a essere “ragazza povera in una scuola di ragazzi ricchi”, poiché la sua casa è al confine inferiore di Beverly Hills: esperienza che racconta come una “sfida” ma anche come incubatrice di una “diversa prospettiva”. Mentre in casa sua nessuno ha fatto l’università, il fatto di stare fianco a fianco con rampolli che al 90 per cento passavano dalla scuola al college la porta a decidere: “ci sarei andata anche io”.

La sfida numero due arriva dopo la laurea, quando va a cercare lavoro e tutti le chiedono se sa battere a macchina e stenografare, essendo quelle le tipiche abilità richieste a una donna. Elinor paziente si prende un diploma da stenografa per corrispondenza: "Non l’ho mai usato per prendere dettature, ma mi è stato poi utilissimo per prendere appunti durante le interviste faccia-a-faccia per i progetti di ricerca", racconta. Infatti in quella prima fase del lavoro sale in alto, con un incarico manageriale, “in una ditta che prima non aveva mai assunto una donna se non in ruoli da segretaria”. Rafforzata da questi successi, si decide a tornare agli studi e chiede l’ammissione a un PhD di Economia, e qui si trova davanti ad altri baratri di genere: prima di tutto deve mettersi a studiare bene matematica (e prima le avevano sconsigliato d farlo, perché era considerata materia poco adatta alle ragazze), poi comunque la dirottano verso un PhD in Scienze politiche dove siedono tre donne su 40 studenti e dove la loro stessa ammissione causa “accesissime discussioni” al vertice del Dipartimento.
Nel 2009, a settantasei anni, Elinor Ostrom racconta i suoi inizi senza commentare, un po’ col metodo che caratterizza i suoi studi accademici: inanellando un fatto dopo l’altro. Altro evento decisivo è l’incontro con Vincent Ostrom, con il quale comincia le ricerche che poi ha proseguito per tutta la vita e che l’hanno portata al Nobel, e che diventerà anche suo marito (lo segue quando lui viene chiamato all’università dell’Indiana: “lo accompagnai, poiché era molto difficile all’epoca che qualsiasi dipartimento assumesse una donna”). Ma passo dopo passo la posizione di Elinor sale nell’accademia, mentre – con Vincent e con una comunità di ricercatori che via via si allarga - getta le basi di quella che sarà la ricerca della sua vita: il problema della gestione dei beni comuni.
Perché un’economista si mette a studiare i beni comuni? All’inizio, si era trovata a studiare un caso riguardante i bacini acquiferi del Sud della California, dunque un tipico problema di gestione di risorse comuni, senza avere una teoria. Dopo molti anni, la teoria la costruisce, ma – racconterà nel libro-pilota di questi studi, Governing the Commons[3]– si convince sempre più che “la conoscenza maturi attraverso il continuo alternarsi tra osservazione empirica e seri tentativi di formulazione teorica”. Un metodo controcorrente che la porta a risultati fuori mainstream: primo tra i quali, la constatazione (empiricamente documentata, in ogni parte del mondo) del fatto che non necessariamente la gestione dei beni comuni è destinata alla “tragedia”. Ostrom confuta le tesi di Garrett Hardin, che nel 1968 aveva pubblicato su Science il famoso scritto sulla “tragedia dei beni collettivi”: beni che, non essendo appropriabili da nessuno, ciascuno consuma senza limite, per soddisfare il proprio tornaconto individuale, condannandoli così alla spoliazione e all’esaurimento. Tipici esempi sono quelli dei pascoli e dei bacini di pesca, ma con il passare del tempo quella dei beni comuni, come ha scritto Carlo Donolo nel suo ricordo di Elinor Ostrom pubblicato su Lo Straniero subito dopo la morte della grande economista[4], diventa la sfida principale del “global change”, con i temi centrali dell’ambiente e dell’economia della conoscenza. A livello locale, nelle piccole comunità alle prese con un bacino di pesca scarso, come a livello planetario, con la rivoluzione dell’internet, Ostrom svela perché non siamo condannati alla tragedia: “nei contesti concreti”, l’esperienza mostra che non sempre e non ovunque gli individui agiscono ciascuno per sé, e che l’alternativa tra mercato (inefficiente) e Stato (centralizzato e autoritario) non esaurisce lo spettro delle possibilità.
Passo dopo passo, caso dopo caso, il laboratorio di ricerca messo su a partire dagli studi pionieristici di Ostrom tenta la costruzione di una teoria empiricamente fondata: a quali condizioni – economiche, giuridiche, sociali, storiche, istituzionali – la cooperazione vince sulla competizione, l’autorganizzazione sul governo centrale, le strutture policentriche sul Leviatano.
Quando va a ritirare il suo Nobel, con un sontuoso vestito etnico che spicca tra gli smoking dei colleghi, Elinor tiene una lezione proprio sul governo policentrico: siamo nel 2009, la crisi finanziaria è appena esplosa facendo brandelli di tante teorie non empiricamente verificate di economistimainstream, e in varie parti del mondo intorno ai 'beni comuni' sono nati movimenti, nuovi attivismi, qualche partito e anche un’ideologia un po’ semplificatoria. E invece, in questo campo proprio i lavori di Ostrom ci insegnano a diffidare delle imitazioni e delle scorciatoie; scrive Donolo, in un altro articolo: “Come hanno mostrato le ricerche comparative di E. Ostrom il governo dei beni comuni richiede tutte le risorse della democrazia costituzionale: forme di democrazia partecipata, divisioni dei poteri, agenzie terze, tribunali, monitoraggi tecnici e – non da ultimo – la condivisione collettiva di una cultura delle regole e di cooperazione sia sociale che interistituzionale”.
Insomma, Ostrom non rassicura e non promette miracoli: “se si possono identificare alcuni princìpi guida, non esistono formule magiche per risolvere i problemi dell’agire collettivo, che si presentano in forme e dimensioni molto diverse”, scrive in un altro volume collettivo, in un testo tradotto in italiano da Lettera internazionale[5].
Non esistono formule magiche. Ma una ostinata, sapiente e documentata ricerca di quelle che funzionano.

NOTE

[1] L. Elliott, “Elinor Ostrom Nobel prize marks a departure for economics”, The Guardian, 12-10-2009

[2] Dalle note biografiche consegnate al sito web ufficiale del Nobel Prize

[3] E. Ostrom, Governing the commons, Cambridge University Press, 1990, in it. Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006

[4] C. Donolo, Elinor Ostrom, in memoria, Lo straniero, 2012 (n. 146/147)

[5] E. Ostrom, “Beni comuni, economia e ambiente, Lettera Internazionale”, 2010 (n. 106)

Fonte: ingenere.it

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