La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 5 agosto 2015

Il concetto "populista" e la democrazia in quanto tale

di Pierluigi Fagan
Il concetto di “populismo” è assai confuso. Come minimo, si possono individuare tre matrici:
Forza politica che si appella al, risponde al, vuol rappresentare il “popolo”. La categoria sottesa è quella della divisione sociale e politica in due sole parti: popolo – élite. In questo senso, il populismo è interno alla teoria politica democratica, diversamente nominando la partizione fondamentale Molti – Pochi[1]. In questo senso, l’idea populista, confligge sia con l’individualismo liberale a cui oppone una nozione forte di società, sia con certo marxismo che dettaglia il popolo in classi sociali. Del resto, è l’idea stessa di democrazia che confligge sia con l’ordinatore liberale del mercato mentre nel caso marxista, c’è un intricato gomitolo in cui si intrecciano i fili dell’ordinatore economico (la produzione socialista), con quelli dell’ordinatore politico (soviet? democrazia diretta o rappresentativa? che tipo si Stato? nazionalismo o internazionalismo?).

Forza politica che in apparenza si comporta come sopra descritto ma in realtà lo fa per diventare una nuova élite o per legittimarsi popolarmente. La categoria sottesa è fintamente quella popolo vs élite ma in realtà è un triangolo in cui una nuova élite, si appoggia sul popolo manifestandosi dalla sua parte, per subentrare all’élite dominante. In questo senso, il populismo è di nuovo interno alla teoria politica democratica ma con il senso negativo di demagogia. La demagogia è una forma degenerata di democrazia in cui apparentemente si è nel gioco democratico quando in realtà si è nel gioco elitista. Le élite sfidanti fanno finta di essere popolo per subentrare alle élite dominanti oppure élite dominanti si appellano al popolo per metter fuorigioco le élite sfidanti. La Rivoluzione francese ed in definitiva anche quella russa (prese nel loro esito) rappresentarono casi di élite appoggiate al popolo per subentrare a quelle dominanti (in entrambi i casi l’aristocrazia) mentre il bonapartismo, ed il cesarismo, così come il peronismo, Berlusconi, sono casi del secondo tipo.
Il terzo significato è più sfumato e complesso da analizzare. La partizione fondamentale rimane quella popolo vs élite. Questa partizione è anche una condizione politica spesso oggettiva in cui il popolo subisce completamente le disposizioni delle élite. Detto ciò e dichiarata la volontà di porvi rimedio si notano due possibili atteggiamenti: a) il popolo ha ragione a volersi liberare del giogo della sua élite dominante ma non sa bene come farlo e va aiutato a prender coscienza, a darsi una strutturazione politica, una ideologia, un programma. Il popolo ha ragione nel non volere una cosa (il dominio delle élite) ma non ha sempre ragione quando mette confusamente e velleitariamente in atto le pratiche per perseguire la sua ragione; b) il popolo ha sempre ragione, sia nella volontà di volersi liberare dal giogo delle élite, sia nell’espressione spontanea dei modi con cui intende praticare sia la lotta per il potere, sia l’esercizio del potere in quanto tale. La prima posizione (a) è tipica soprattutto dei movimenti politici di sinistra, la seconda (b) dei movimenti politici che tendono alla demagogia e di destra. La posizione di sinistra, può correre il rischio di diventare, di nuovo, un élitismo come fu nel caso dell’avanguardia leninista.
La confusione sul termine è quindi sia categoriale, che assiologia. Quella assiologia [axios (άξιος, valido, degno) e loghìa (λογία da λόγος -logos- studio] determina l’incertezza sull’attribuzione di valore: il populismo è positivo (legittima teoria base della democrazia reale) o negativo (degenerazione demagogica)? La confusione assiologia deriva da quella categoriale in quanto se non sappiamo di cosa stiamo parlando, se parliamo di più cose nominandole con lo stesso termine, va da sé che si possano intendere valori tanto positivi, che negativi, che misti.
La stato di confusione in cui versa il concetto, deriva dal fatto che tanto l’ideologia liberale che quella marxista, non hanno coincidenze precise con l’ideologia democratica di cui è nativo il concetto. Quando si usa il concetto di un sistema di pensiero in un altro sistema, è facile che il senso si opacizzi. Si fa, invero, molta fatica a trovare nella nostra storia culturale occidentale qualcosa che sia assimilabile ad un discorso sull’ideologia democratica (il discorso di Pericle riportato da Tucidide, Rousseau, Dewey, Fotopoulos, Castoriadis, Murray Bookchin e poco altro) A sua volta, “democrazia” è un termine confuso e polisemico. La “democrazia” rappresentativa liberale, con -democrazia- in quanto tale[2], ha poco a che fare.
Innanzitutto, la società liberale è ordinata dal mercato, quindi da un fatto economico e non da un fatto politico. Il mercato è un ordine indeterminato (in teoria potrebbe tanto esser compatibile con la democrazia, quanto no) ma in società che non intervengono sulla distribuzione di ricchezza in maniera livellante, il capitale che è una potenza squilibrante, determina il fatto che il mercato funzioni nel favore dei Pochi piuttosto che dei Molti. Comunque, una società ordinata dal principio economico e non da quello politico, non è, né mai potrà essere, -democratica-, in quanto  la sua precisa definizione è  -econocratica-, il kratos, l’ordinatore, il potere di governo è del politico nell’un caso, dell’economico, nell’altro. Il funzionamento dell’impianto “democratico” in base solo alla rappresentanza (ed una rappresentanza molto ridotta, 1:80.000 circa coartati poi in meccanismi maggioritari, e vagliata in tempi medio-lunghi) garantisce la formazione reale di un diverso meccanismo che potremmo chiamare “élite delegate” che, appunto, con la democrazia in quanto tale non ha nulla a che fare.
Come detto, con il marxismo, la questione è più complessaa poiché Marx ha fornito una estesa teoria critica dell’economia politica ma nel postulare che fosse il modo economico a determinare quello politico (che è l’esatta descrizione dell’econocrazia liberale ma non è una legge generale), ha in un certo senso avvallato l’idea che la battaglia decisiva si debba compiere nel definire che tipo di econocrazia si vuole, non che tipo di società politica si vuole. Questa, verrà per inflorescenza naturale, dopo quella (idea del tutto infondata). Altri fattori confondenti, aggravano l’ambiguità  esistente tra marxismo e democrazia. Ai tempi di Marx, “democrazia” era quella rappresentativa, elitaria, liberale e quindi nei suoi scritti si trovano molti pronunciamenti negativi a riguardo di quel termine. Poiché pochi o nessuno ha sottolineato che tale nome non corrisponde affatto alla cosa, difficile è trovare qualcuno che riesca a scindere il concetto di “democrazia” liberale da quello di -democrazia- in quanto tale. A ciò si aggiunge l’analisi “di classe” che informa la teoria marxista. Ora, il concetto di “classe” in Marx è assai confuso. A volte (come spesso accade negli scritti di un autore che tutto fu meno che sistematico) sembra dire che “la classe” è una precisa porzione di società che coincide sostanzialmente con il proletariato industriale. Da ciò, il riflesso automatico dei marxisti a non leggere nella società i contadini, i piccoli artigiani, i dipendenti dei servizi o di imprese pubbliche, i precari, le donne, gli studenti, i commercianti, i pensionati, i piccoli imprenditori indipendenti, i liberi professionisti anche quando sono imprese individuali il cui reddito è pari o inferiore a quello di un operaio specializzato, sebbene siano ancor meno garantiti. Il fatto che ormai, le società avanzate, che poi sono le uniche in cui sopravvive il marxismo eurocentrico e dottrinario, abbiano una contribuzione di Pil intorno o inferiore al 20% da parte dell’industria, determina l’incomunicabilità tra la sinistra marxista ed il suo pubblico potenziale. La pretesa poi di favoleggiare possibile un effetto leva su questa ultraminoranza sociale (che per altro, spesso, sogna solo il consumare di più e diventare ricca e famosa come quelli della televisione o del cinema o dello sport) per compiere una “rivoluzione” ha del patetico. Altre volte, lo stesso Marx, sembra riecheggiare la partizione democratica fondamentale Molti-Pochi, quando divide la società in proprietari e non proprietari dei mezzi di produzione. Se i Molti, la Classe, sono i salariati, molto più ampia è la porzione di riferimento. Ma a questo punto interviene un secondo problema perché per quanto sia un “salariato”, un amministratore delegato di azienda ricca non è certo parte dei Molti mentre lo è l’artigiano o il negoziante o l’idraulico che a fine mese, tolti costi e tasse dai ricavi dall’incasso di ciò che ha prodotto coi suoi mezzi di produzione, ottiene un salario o profitto netto più o meno pari alla propria, semplice, “riproduzione”. In verità, il concetto stesso di proprietario dei mezzi di produzione è oggi superato in una società in cui le più grandi proprietà sono azionarie ed alcuni di quei azionisti sono direttamente o tramite i fondi pensione, gli operai stessi.  Il disallineamento tra i codici di una teoria (o meglio una “analisi critica”) del 1850 e la grande varietà e complessità delle società contemporanee è il motivo per il quale, gran parte della sinistra che si fonda sul marxismo, parli di cose che non esistono e non parli di cose che esistono. Una apparentemente inspiegabile forma di fede irrazionale nel Libro (il Capitale) ha poi frenato, assieme a varie vicende ed attriti storico-sociali, la reinterpretazione delle intuizioni marxiane originarie. Da cui la minorità oggettiva di questa interpretazione politica, che a questo punto va considerata “irrecuperabile”.
Tale è comunque la lontananza dalla democrazia in quanto tale, nei nostri sistemi socio-politici, che l’appello al popolo, il dichiararsi contro le élite, il voler redistribuire la decisionalità politica, è considerata se non una stravaganza, un “demagogia”, un non voler rispettare la tacita regola aurea della politica occidentale: sono i Pochi a dover decidere il da farsi perché solo in pochi si sa cosa è bene ed opportuno fare.  Dai massoni alle avanguardie leniniste, l’intelligenza politica condivide, unanime, questo triste ma a volte realistico assunto.
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La tacita regola aurea della politica occidentale moderna (che viene ereditata, più o meno intatta dalle precedenti fasi non moderne) appena citata, deriva dal problema fondamentale del sistema democratico. Ogni sistema ha i suoi vantaggi potenziali o reali ed ha il suo problema fondamentale. Quello della democrazia, sin dalle contestazioni platoniche, dell’anonimo oligarca, aristoteliche[3], è che il principio che siano i Molti se non i Tutti a dover decidere il da farsi è appunto un “principio”. Di fatto, i “Molti” non sanno sufficientemente di ciò di cui dovrebbero decidere. I principi sono applicabili o meno, efficaci ed efficienti o meno, a seconda delle condizioni concrete dell’ambiente in cui vengono applicati. La democrazia ha il suo principio ma va in difficoltà concreta quando questo deve essser applicato al contesto reale.
Una tendenza “strutturalista” o meglio “istituzionalista” che risale già alle discussioni su i sistemi politici ne la Repubblica platonica (Politico, Leggi) e che poi continua nella Politica aristotelica e sale su lungo il corso storico con Polibio così come Machiavelli e poi la prima modernità, Hobbes, Locke, i liberali ed infine Marx, parla sempre e solo dei sistemi politici (o economici) ma non delle società in cui questi sistemi dovrebbero esser calati. Sarebbe un po’ come disquisire su tutte le tecniche che favoriscono o meno una performance atletica prescindendo del tutto dal consigliare al candidato atleta una certa alimentazione, un certo regime di vita ed il fondamentale allenamento quotidiano. La democrazia è implicitamente ritenuta il regime naturale, quello che s’instaurerebbe se non esistesse una precisa volontà dei Pochi (aristocrazia, patriarchi, anziani del villaggio, oligarchia, capi militari, grandi sacerdoti, leader, capitalisti, baronie del sapere, una particolare etnia, unti da qualche Signore, Big man ed altri, il bestiario elitista è molto vasto) che coarta la situazione ed i modi in cui si prendono le decisioni nelle collettività. Ma questa idea di una natura buona snaturata dai cattivi è una falsa narrazione. Il sistema democratico è al contempo, il più giusto secondo logica ma il più difficile secondo pratica.
Se prendiamo dieci persone che non si conoscono e le mettiamo su un’isola deserta[4], è in effetti facile che il sistema naturale che s’instaurerà per prendere le decisioni sarà la democrazia in quanto tale, totale partecipazione alla decisione presa in base ad una testa un voto. Successivamente, il sistema potrebbe evolversi pur rimanendo una democrazia in quanto tale. Qualcuno avrà più competenze nella caccia e pesca, qualcun altro nella raccolta, nella cucina, nelle costruzioni dei ripari, nel raccontare storie davanti al fuoco etc. Che le funzioni tendano a specializzarsi non è un problema, le decisioni importanti, quelle che riguardano la comunità come un Uno, saranno democratiche anche quando, volontariamente, qualcuno attribuirà ad una opinione qualificata non sua, il valore di essere come se fosse sua. In generale comunque, tutti decideranno perché tutti hanno le stesse informazioni sul problema comune: come sopravvivere al meglio ed il più a lungo possibile. I problemi compariranno quando da dieci si passerà a cento, mille, diecimila, quando la comunità non sarà l’unica ma ci saranno altri “vicini”, quando i rapporti tra popolazione e risorse non saranno più facili ed immediati (ho fame – vado lì – prendo la cosa – la mangio) ed interverrà la scarsità tra bisogni e risorse. A quel punto, la storia umana ci dice, che il dominio dei Pochi è il sistema sin qui avente una sua forza naturale (pur essendo una costruzione sociale). Questo perché c’è un incremento di complessità e storicamente, noi umani, rispondiamo a gli incrementi di complessità con la sclerosi gerarchica. Le élite intermediano tra complessità e popolo, questa è la loro altrimenti inspiegabile “legittimità”.
Se allora, si decide normativamente o funzionalmente che la democrazia in quanto tale deve essere il sistema con cui si prendono le decisioni, occorre porsi il problema di come fanno, i Molti, a sapere sufficienti cose sull’argomento su cui dovranno decidere il da farsi. Più aumenta la complessità sociale, quelle demografica, quella economica, quella culturale e quella geo-politica, più è difficile rispettare questa condizione. In assenza di consapevolezza adeguata su gli argomenti, le alternative decisionali, gli effetti complessi delle proprie decisioni, s’instaurerà una qualche forma di elitismo o di demagogia o di populismo o di avanguardia leninista o di consiglio notturno dei sapienti che mai e per nessun motivo potrà garantire che le decisioni saranno prese veramente come se fossero state prese dai Molti. Oltretutto, più aumenta la complessità dei problemi e delle conseguenti decisioni, più queste vengono prese da un ristretto numero di individui, più alta è la possibilità si manifesti una permanente instabilità politica e sociale poiché il “popolo” non è a conoscenza dei prezzi necessari da pagare per le decisioni prese. Quando si presenteranno questi prezzi non previsti, arriverà allora qualcuno che spacciando la facile moneta del paradiso in terra subito e per tutti e la redenzione da ogni difficoltà materiale avversativa, porterà i Molti a sfracellarsi verso qualche scoglio duro del mondo reale, con conseguenti migliaia o milioni di morti ed iscrizione al registro nero della Storia (vedi fascismo o nazismo che questo furono, fallimenti dell’adattamento alla condizione moderna da parte delle due nazioni più giovani, Italia e Germania, che recalcitravano ad adattarsi al nuovo standard occidentale).
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Possiamo, alla fine, condensare il discorso fatto in alcuni punti da mettere in agenda per lo sviluppo di una cultura della democrazia in quanto tale:
  1. La democrazia in quanto tale è un sistema rarissimo nella Storia e del quale non abbiamo praticamente, né conoscenza, né esperienza.
  2. La democrazia in quanto tale è un sistema difficile da instaurare ed ancor più da far funzionare, non solo perché avversato dai Pochi nelle loro varie forme ma soprattutto perché i Molti non sono in grado di farlo funzionare con efficienza ed efficacia.
  3. La democrazia in quanto tale, quanto a facilità d’instaurazione è inversamente proporzionale alla complessità della società e delle condizioni geo-storiche in cui questa si trova.
  4. La democrazia in quanto tale, quanto ad opportunità e necessità dell’esser instaurata è proporzionale alla  complessità della società e delle condizioni geo-storiche in cui questa si trova[5]. Più una società è complessa, più si trova in ambiente e dinamiche complesse, più dovrebbe essere democratica per adattarsi ai continui e difficili cambiamenti cui sarà soggetta.
  5. La democrazia in quanto tale, necessita di individui conoscenti, informati, pubblicamente dialoganti, dotati del necessario tempo per formarsi, informarsi e discutere (e gestire) i rapporti tra problemi e soluzioni del bene comune.
Corollario finale: se una forza politica decide di votarsi a promuovere la democrazia in quanto tale, la democrazia reale, deve primariamente dedicarsi ad allenare il suo popolo di riferimento alla conoscenza, all’informazione, al pubblico dibattito. Prima di fare la democrazia bisogna preparare i democratici.
I problemi di organizzazione interna, le leadership, le strategie del conflitto, l’agonismo contro questo o quello, la visibilità pubblica, la strategia di partecipazione all’agone politico del tempo, vengono dopo e per certi versi, dovranno essere conseguenti la diffusa condivisione di una vasta conoscenza omogenea, ben informata, pubblicamente dibattuta.
In alternativa, la forza politica, potrà scegliere nel catalogo delle possibilità se rimanere populista, demagogica, elitista ma non sarà, né potrà dirsi -democratica-. O potrà dirlo ma non esserlo e se non lo sarà, fallirà l’adattamento alla complessità.
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[1] Ernesto Laclau è il filosofo che (assieme a Chantal Mouffe) si è più battuto per una interpretazione positiva del termine “populista”. Naturalmente, tale valutazione positiva, sceglie un significato del vago termine, quello appunto in cui è contenuto questa nota. Non saprei dire se nella sproporzione dei mezzi di comunicazione che vede il mainstream liberal-marxista dominante, sia più efficace rivendicare la ragione populista rischiando di portarsi appresso anche gli altri, indesiderati, significati o se insistere per una nominazione più appropriata e meno ambigua come “democrazia reale”. Anche democrazia radicale è sovrapponibile al concetto che voleva esprimere Laclau ma anche qui, bisognerebbe riflettere se accettare l’usurpazione del termine -democrazia- da parte di teorie che dovrebbero usare il termine solo tra virgolette, a mo’ di “una specie di….” cosa che obbliga ad aggettivare la democrazia in quanto tale come –radicale- o più semplicemente rivendicare il  significato originario (reale) de-posizionando quanti si affannano ad usare un immaginario positivo (la giustezza e legittimità indiscussa di -democrazia-, per nominare cose che con il termine hanno poco a che fare). La questione è tutta interna alla logica dell’egemonia culturale (che parte dall’ontologia, da come nominiamo cosa), non a caso uno dei punti gramsciani più cari allo stesso Laclau.
[2] Useremo “x“ per intendere “una specie di…” ed useremo -x- per definire il -concetto- come preciso.
[3] Rispettivamente in Repubblica, La Costituzione degli ateniesi e Politica. L’Anonimo oligarca è spesso riportato come Pseudo Senofonte, in pratica non abbiamo la più pallida idea di chi fosse. Sta di fatto che il libricino, sapido ed appuntito, è la madre di tutte le possibili critiche al sistema democratico.  (Wiki, qui)
[4] L’esperimento mentale proposto è una sorta di Isola dei famosi, senza famosi e soprattutto senza telecamere. Non è un caso che D. Defoe, nel suo Robinson Crusoe, abbia previsto lo stesso set di natura naturante ma con un solo individuo (ed uno schiavo). Se ne avesse messi due, tre o più, avrebbe scritto non il libro sacro dell’individualismo liberale (le robinsonate giustamente derise da Marx) ma quello della democrazia di natura.
[5] La differenza tra il 3° ed il 4° principio è questa. Quanto più una società è complessa, ha problemi complessi, esiste in un ambiente complesso, tanto è più difficile che i Molti sappiano di tutta questa complessità e siano in grado di ordinarsi secondo decisioni giudiziose sul da farsi. Si somma il caso per il quale il bene individuale non collima sempre e comunque con quello generale e comune, col caso specifico dell’era complessa per cui, soprattutto in Occidente, andrebbero prese decisioni difficili, decisioni che non portano al meglio ma al meno peggio, che pospongono il vantaggio immediato con quello a venire, magari ad un’altra generazione, che evitano problemi maggiori assumendosi comunque problemi anche se minori alla luce di una previsionalità complessa.
Facciamo un esempio: in un democrazia reale, il discorso pubblico su gli immigrati sarebbe questo: o rifiutiamo (ammesso sia logisticamente possibile e moralmente accettato) gli immigrati ed allora prepariamoci a spostare l’età pensionabile ai 67, poi 70, poi 73 e forse più anni -oppure- , troviamo una economia politica che ci dia facoltà di vivacità economica, assorbiamo la nostra disoccupazione giovanile  e non, e ci prepariamo ad ospitare al meglio quei migranti che con il loro lavoro pagheranno i contributi che diverranno la nostra pensione evitandoci di andare in pensione una settimana prima di morire. La scelta tra una pensione ritardata ed un migrante immediato (fatta slava la possibilità di farlo lavorare che è poi quello che vuole anche lui) eviterebbe il noioso ed inconcludente dibattito tra buonisti e razzisti. Poiché le élite non sono in grado né di fermare i migranti, né di migliorare la nostra ricettività di lavoro, ci teniamo migranti disoccupati ed andremo comunque a lavorare (i “fortunati”) fino ad una settimana prima di schiattare. Quindi, più le cose sono complesse più è difficile mettere in piedi una democrazia reale di tanti cittadini per lo più ignari del groviglio del mondo. Le élite lasciano spolpare l’osso ai cani della razza razzista e della razza internazionalista in reciproca competizione “emotivo-ideale” trasferendo un problema di realismo democratico in una demagogica contesa dei valori.
Di contro però, e veniamo la 4° principio, è proprio la crescita di complessità a creare un problema alle élite occidentali. Poiché le scelte che verranno prese, giuste o sbagliate, saranno sempre meno capaci di apparire immediatamente positive e nel tempo, come sta succedendo ad esempio in Italia ma anche in Europa, oltre alle decisioni sbagliate del contingente, si andranno a cumulare e scontare tutte le decisioni sbagliate o non prese nel passato. La legittimità delle élite sarà sempre più erosa lasciando spazio ad élite che hanno ancora meno idee ma molto chiare ed in definitiva, idonee solo a collassare la troppa complessità in estrema semplicità, con risultati catastrofici. Quindi al crescere di complessità la democrazia reale è tanto più difficile quanto più necessaria. Insisto sul “necessario” perché tanto meno il popolo saprà del mondo e delle sue difficili condizioni tanto più creerà spazio per avventure politiche disastrose. Disastri che, in tempi complessi, si trasformeranno in catastrofi.

Fonte: Pierluigi Fagan wordpress

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