La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

venerdì 7 agosto 2015

L'impero americano e lo spettro del declino

di Simone Pieranni
«Ben prima che lo stato cedesse all’antica ten­ta­zione di tor­nare all’indipendenza sotto l’altero nome di Lone Star, gli alti papa­veri texani si osti­na­vano a negare il peri­colo dei cambi cli­ma­tici». Nel 2012 molti stati ame­ri­cani ave­vano chie­sto la seces­sione dalla con­fe­de­ra­zione attra­verso la pos­si­bi­lità for­nita da una sezione del sito della Casa bianca.
Alcuni, come il Texas, aveva supe­rato le 25mila firme, ren­dendo d’obbligo una rispo­sta, ovvia­mente nega­tiva, da parte della pre­si­denza ame­ri­cana. Obama, recen­te­mente, nel suo piano con­tro le emis­sioni nocive, ha affer­mato che il cam­bia­mento cli­ma­tico «è un fatto e non un’opinione», accom­pa­gnando le sue parole al futuro taglio di un terzo delle fonti fos­sili, favo­rendo così gli stati che saranno «virtuosi».
Ecco due imme­diati motivi di discus­sione, non­ché di rifles­sione, sullo stato dell’arte negli Stati uniti, dopo solo due righe, le prime due per l’esattezza, de La 17a Agen­zia (Mar­si­lio, 27 euro), un libro scritto da Giu­seppe Cas­sini. 
Il sot­to­ti­tolo è «L’America al bivio: recu­pe­rare o reci­dere le glo­riose radici pre-imperiali». Giu­seppe Cas­sini è stato un impor­tante diplo­ma­tico ita­liano, impe­gnato in Bel­gio, Alge­ria, Cuba e natu­ral­mente Stati uniti.
E alla sua cono­scenza dei gan­gli del potere sta­tu­ni­tense — non­ché i suoi rumors e le sue ten­denze — ha dedi­cato un volume diviso in tre parti. Tra fic­tion, fan­ta­po­li­tica e ana­lisi pun­tuale e con una ingente mole di dati della potenza ame­ri­cana, for­ni­sce un ritratto attuale del paese e soprat­tutto è in grado di pre­fi­gu­rare quali saranno le rifles­sioni sul futuro degli Sta­tes, tra dise­gua­glianze sociali e nodi geo­po­li­tici che giun­gono al pettine.
La ten­denza alla disgre­ga­zione della con­fe­de­ra­zione, offerta dalla prima parte del libro, è un genere let­te­ra­rio par­ti­co­lar­mente in voga negli Stati uniti e non solo. Mischiare dati reali, ten­denze vero­si­mili e per­so­naggi real­mente esi­stenti a sce­nari uto­pi­stici o disto­pici, a seconda di come si voglia clas­si­fi­care il futuro, per­mette di muo­versi in modo spi­gliato tra le pro­ble­ma­ti­che di una super­po­tenza. Cas­sini padro­neg­gia il mezzo, la sua scrit­tura è pulita, rapida e pun­tuta. I fatti rac­con­tati si atten­gono alla neces­sità che sot­to­sta a que­sto stile, ovvero alla vero­si­mi­glianza, per­ché potrebbe dav­vero acca­dere, come con­fer­mato dalle ten­denze di tanti stati dell’unione, refrat­tari a Washington.
E soprat­tutto trat­teg­giano alcune carat­te­ri­sti­che di poli­tici e gover­na­tori non sem­pre cono­sciuti al pub­blico ita­liano, ma in grado di rap­pre­sen­tare a pieno le ten­denze locali. Non solo Texas, dun­que, ma anche una fan­ta­sma­go­rica nuova unione carai­bica che assume ancora più rile­vanza date le ultime evo­lu­zioni della poli­tica estera ame­ri­cana, come dimo­stra il caso cubano. Ma non solo, per­ché il cen­tro della rifles­sione di Cas­sini sem­bra essere pro­prio l’attitudine impe­riale ame­ri­cana. Esi­ste ancora? O meglio, come — con quali stru­menti interni e inter­na­zio­nali — gli Stati uniti stanno ela­bo­rando il fatto, sostan­ziale, di non essere più l’unica o la sola super potenza di un mondo sem­pre più multipolare?
Il declino dell’impero ame­ri­cano, in parole povere, come viene ela­bo­rato da Washing­ton, quali tra­iet­to­rie dipinge per il futuro del mondo e i futuri assetti geo­po­li­tici del pia­neta. Qual­che rispo­sta è pur giunta negli ultimi tempi: abbiamo accen­nato alla presa di posi­zione di Obama sui cam­bia­menti cli­ma­tici, ma basti ricor­dare anche il recente accordo nucleare con l’Iran e l’apertura dei rap­porti con Cuba.
Segnali di debo­lezza o di una rin­no­vata coscienza circa la neces­sità di cam­biare le pro­prie stra­te­gie? Cas­sini nella seconda parte del libro, quella cen­trale e di stretta ana­lisi (dalle que­stioni mili­tari a quelle più pro­pria­mente poli­ti­che) prova a for­nire un ritratto della potenza e il suo destino. «Gli Stati uniti, scrive, sono l’unica potenza della sto­ria ad aver avuto una sfera d’influenza pla­ne­ta­ria. Eppure è l’unico impero che ha sem­pre negato di esserlo». E dopo aver ricor­dato che in poco più di due secoli gli Stati uniti hanno par­te­ci­pato a oltre 70 con­flitti, dimen­ti­chi del motto di James Madi­son «nes­suna nazione può pre­ser­vare la sua libertà in una guerra con­ti­nua», Cas­sini ricorda l’ironia di Gore Vidal. Sapete cosa signi­fica l’acronimo Usa? Uni­ted Sta­tes of Amnesia.
L’autore de La 17a Agen­zia ricorda poi l’opera di Niall Fer­gu­son, Colos­sus, Rise and Fall of the Ame­ri­can Empire, ma baste­rebbe ricor­dare anche quella di Gio­vanni Arri­ghi, che basan­dosi sull’accumulazione del capi­tale, ricorda l’avvicendarsi degli imperi, anti­ci­pando il declino ame­ri­cano in favore di un ritorno al cen­tro della scena mon­diale pro­prio di chi si defi­ni­sce il Regno di Mezzo (come ricorda Cas­sini nel suo libro), ovvero la Cina.
E pro­prio la nuova sfida del Paci­fico, sem­bra essere quella che Obama lascerà in ere­dità ai suoi suc­ces­sori, com­prese alcune que­stioni interne, che Cas­sini det­ta­glia in uno spas­soso dia­logo imma­gi­na­rio, ma pre­su­mi­bil­mente cor­retto nelle posi­zioni di mas­sima, tra Obama e Carter.
Dia­lo­ghi da Nobel, su vicende losche, come ad esem­pio le guerre dei Bush. Ma come ogni opera che ha a che fare con un Impero e la sua 17a agen­zia, biso­gna pur lasciare la suspance del finale al let­tore del volume.

APPROFONDIMENTO: Le colpe di Obama e quelle dei detenuti
di Giuseppe Cassini

A metà luglio i media inter­na­zio­nali erano tal­mente foca­liz­zati sulla dop­pietta di vit­to­rie diplo­ma­ti­che con­se­guite da Obama (Iran e Cuba), da non accor­gersi del gesto che gli farebbe meri­tare per dav­vero il Nobel “pre­ven­tivo” con­fe­ri­to­gli nel 2009. Una foto emo­zio­nante lo mostra intento a per­cor­rere da solo il cor­ri­doio che immette nelle celle del car­cere fede­rale di El Reno in Okla­homa. Mai prima un pre­si­dente ame­ri­cano si era spinto a visi­tare un isti­tuto di pena.
Eppure le pri­gioni degli Stati Uniti van­tano un pri­mato mon­diale: ospi­tano un quinto dei car­ce­rati del pia­neta, ossia 2.200.000 dete­nuti, vale a dire quasi 750 ogni 100.000 abi­tanti (in Cina la media è di 120 dete­nuti ogni 100.000 abi­tanti, in Ger­ma­nia e in Sve­zia 70, in Giap­pone 63). Se in Ita­lia si regi­strasse la stessa per­cen­tuale rispetto alla popo­la­zione, i reclusi sareb­bero dieci volte tanto i 53.000 attual­mente ospi­tati nelle nostre prigioni.
Fino agli anni Ottanta i reclusi in Ame­rica erano un sesto di quelli odierni. Poi le celle si sono riem­pite di con­dan­nati (60% dei quali neri o ispa­nici) per reati meno gravi, sopra­tutto per droga, e anche di mino­renni e di malati men­tali. Già, per­ché i peni­ten­ziari sup­pli­scono alla carenza di isti­tuti psi­chia­trici, di rifor­ma­tori e di cen­tri di recu­pero per tossico-dipendenti. I mino­renni ven­gono giu­di­cati alla stre­gua di adulti: la Flo­rida ha con­dan­nato all’ergastolo Joe Sul­li­van per uno stu­pro com­messo all’età di 13 anni.
Come nel Medio Evo. Non stu­pi­sce che ogni anno si veri­fi­chino in cella 80.000 casi d’abusi ses­suali. Infine – pochi ne par­lano – 75.000 con­dan­nati giac­ciono in soli­tary con­fi­ne­ment, ossia in totale iso­la­mento per 23 ore al giorno: una forma di tor­tura, l’ha defi­nita l’ONU.
Ogni anno le forze dell’ordine arre­stano 15 milioni di per­sone, aggra­vando costi e sovraf­fol­la­mento car­ce­ra­rio: senza la scor­cia­toia dei pat­teg­gia­menti la mac­china pro­ces­suale si grip­pe­rebbe. E senza costosi appalti pri­vati l’Amministrazione non ce la farebbe a soste­nere la domanda di nuovi isti­tuti di pena (qual­cuno iro­nizza che sia que­sto l’unico piano nazio­nale di edi­li­zia popo­lare), men­tre nel nord Europa si stanno chiu­dendo car­ceri per man­canza di “inquilini”.
In Ger­ma­nia e in Olanda, infatti, il tempo medio di reclu­sione è di un anno rispetto ai tre anni negli USA. Per capire meglio il feno­meno, una dele­ga­zione ame­ri­cana ha visi­tato nel 2013 l’Europa e ha sco­perto – guarda caso – che da noi si mira a rein­te­grare i dete­nuti nella società più che a punirli. E che alla fine si spende meno.
Se un giorno la popo­la­zione car­ce­ra­ria dimi­nuirà anche in Ame­rica, sarà per motivi di rispar­mio. Per­ché com­porta un salasso inso­ste­ni­bile: costava 10 miliardi qua­ranta anni fa, costa 80 miliardi oggi. Per ogni recluso l’erario spende all’incirca come stu­diare in una buona uni­ver­sità. Certo, i costi cale­reb­bero se si creas­sero ser­vizi rie­du­ca­tivi di stampo sve­dese (o bra­si­liano: il governo di Bra­si­lia con­cede ora sconti di pena a chi legge libri e dimo­stra di trarne giovamento).
Negli USA non si è ancora a que­sto punto. Ma a luglio Obama è riu­scito nel mira­colo di con­vin­cere demo­cra­tici e repub­bli­cani a rive­dere la bar­ba­rie del soli­tary con­fi­ne­ment e a cam­biare le norme che pre­ve­dono pene ecces­sive, visto che pro­lun­gate deten­zioni non sco­rag­giano affatto la delin­quenza. Ci è riu­scito andando a visi­tare i car­ce­rati dell’Oklahoma, il 16 luglio, e a con­fes­sare uscendo: “Nel rac­con­tarmi la loro infan­zia e la loro gio­ventù mi è parso capire che que­sti reclusi hanno com­messo errori non tanto diversi da quelli com­messi da me”.

Fonte: il manifesto

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