di Simone Pieranni
«Ben prima che lo stato cedesse all’antica tentazione di tornare all’indipendenza sotto l’altero nome di Lone Star, gli alti papaveri texani si ostinavano a negare il pericolo dei cambi climatici». Nel 2012 molti stati americani avevano chiesto la secessione dalla confederazione attraverso la possibilità fornita da una sezione del sito della Casa bianca.
Alcuni, come il Texas, aveva superato le 25mila firme, rendendo d’obbligo una risposta, ovviamente negativa, da parte della presidenza americana. Obama, recentemente, nel suo piano contro le emissioni nocive, ha affermato che il cambiamento climatico «è un fatto e non un’opinione», accompagnando le sue parole al futuro taglio di un terzo delle fonti fossili, favorendo così gli stati che saranno «virtuosi».
Ecco due immediati motivi di discussione, nonché di riflessione, sullo stato dell’arte negli Stati uniti, dopo solo due righe, le prime due per l’esattezza, de La 17a Agenzia (Marsilio, 27 euro), un libro scritto da Giuseppe Cassini.
Il sottotitolo è «L’America al bivio: recuperare o recidere le gloriose radici pre-imperiali». Giuseppe Cassini è stato un importante diplomatico italiano, impegnato in Belgio, Algeria, Cuba e naturalmente Stati uniti.
E alla sua conoscenza dei gangli del potere statunitense — nonché i suoi rumors e le sue tendenze — ha dedicato un volume diviso in tre parti. Tra fiction, fantapolitica e analisi puntuale e con una ingente mole di dati della potenza americana, fornisce un ritratto attuale del paese e soprattutto è in grado di prefigurare quali saranno le riflessioni sul futuro degli States, tra diseguaglianze sociali e nodi geopolitici che giungono al pettine.
La tendenza alla disgregazione della confederazione, offerta dalla prima parte del libro, è un genere letterario particolarmente in voga negli Stati uniti e non solo. Mischiare dati reali, tendenze verosimili e personaggi realmente esistenti a scenari utopistici o distopici, a seconda di come si voglia classificare il futuro, permette di muoversi in modo spigliato tra le problematiche di una superpotenza. Cassini padroneggia il mezzo, la sua scrittura è pulita, rapida e puntuta. I fatti raccontati si attengono alla necessità che sottosta a questo stile, ovvero alla verosimiglianza, perché potrebbe davvero accadere, come confermato dalle tendenze di tanti stati dell’unione, refrattari a Washington.
E soprattutto tratteggiano alcune caratteristiche di politici e governatori non sempre conosciuti al pubblico italiano, ma in grado di rappresentare a pieno le tendenze locali. Non solo Texas, dunque, ma anche una fantasmagorica nuova unione caraibica che assume ancora più rilevanza date le ultime evoluzioni della politica estera americana, come dimostra il caso cubano. Ma non solo, perché il centro della riflessione di Cassini sembra essere proprio l’attitudine imperiale americana. Esiste ancora? O meglio, come — con quali strumenti interni e internazionali — gli Stati uniti stanno elaborando il fatto, sostanziale, di non essere più l’unica o la sola super potenza di un mondo sempre più multipolare?
Il declino dell’impero americano, in parole povere, come viene elaborato da Washington, quali traiettorie dipinge per il futuro del mondo e i futuri assetti geopolitici del pianeta. Qualche risposta è pur giunta negli ultimi tempi: abbiamo accennato alla presa di posizione di Obama sui cambiamenti climatici, ma basti ricordare anche il recente accordo nucleare con l’Iran e l’apertura dei rapporti con Cuba.
Segnali di debolezza o di una rinnovata coscienza circa la necessità di cambiare le proprie strategie? Cassini nella seconda parte del libro, quella centrale e di stretta analisi (dalle questioni militari a quelle più propriamente politiche) prova a fornire un ritratto della potenza e il suo destino. «Gli Stati uniti, scrive, sono l’unica potenza della storia ad aver avuto una sfera d’influenza planetaria. Eppure è l’unico impero che ha sempre negato di esserlo». E dopo aver ricordato che in poco più di due secoli gli Stati uniti hanno partecipato a oltre 70 conflitti, dimentichi del motto di James Madison «nessuna nazione può preservare la sua libertà in una guerra continua», Cassini ricorda l’ironia di Gore Vidal. Sapete cosa significa l’acronimo Usa? United States of Amnesia.
L’autore de La 17a Agenzia ricorda poi l’opera di Niall Ferguson, Colossus, Rise and Fall of the American Empire, ma basterebbe ricordare anche quella di Giovanni Arrighi, che basandosi sull’accumulazione del capitale, ricorda l’avvicendarsi degli imperi, anticipando il declino americano in favore di un ritorno al centro della scena mondiale proprio di chi si definisce il Regno di Mezzo (come ricorda Cassini nel suo libro), ovvero la Cina.
E proprio la nuova sfida del Pacifico, sembra essere quella che Obama lascerà in eredità ai suoi successori, comprese alcune questioni interne, che Cassini dettaglia in uno spassoso dialogo immaginario, ma presumibilmente corretto nelle posizioni di massima, tra Obama e Carter.
Dialoghi da Nobel, su vicende losche, come ad esempio le guerre dei Bush. Ma come ogni opera che ha a che fare con un Impero e la sua 17a agenzia, bisogna pur lasciare la suspance del finale al lettore del volume.
APPROFONDIMENTO: Le colpe di Obama e quelle dei detenuti
di Giuseppe Cassini
A metà luglio i media internazionali erano talmente focalizzati sulla doppietta di vittorie diplomatiche conseguite da Obama (Iran e Cuba), da non accorgersi del gesto che gli farebbe meritare per davvero il Nobel “preventivo” conferitogli nel 2009. Una foto emozionante lo mostra intento a percorrere da solo il corridoio che immette nelle celle del carcere federale di El Reno in Oklahoma. Mai prima un presidente americano si era spinto a visitare un istituto di pena.
Eppure le prigioni degli Stati Uniti vantano un primato mondiale: ospitano un quinto dei carcerati del pianeta, ossia 2.200.000 detenuti, vale a dire quasi 750 ogni 100.000 abitanti (in Cina la media è di 120 detenuti ogni 100.000 abitanti, in Germania e in Svezia 70, in Giappone 63). Se in Italia si registrasse la stessa percentuale rispetto alla popolazione, i reclusi sarebbero dieci volte tanto i 53.000 attualmente ospitati nelle nostre prigioni.
Fino agli anni Ottanta i reclusi in America erano un sesto di quelli odierni. Poi le celle si sono riempite di condannati (60% dei quali neri o ispanici) per reati meno gravi, sopratutto per droga, e anche di minorenni e di malati mentali. Già, perché i penitenziari suppliscono alla carenza di istituti psichiatrici, di riformatori e di centri di recupero per tossico-dipendenti. I minorenni vengono giudicati alla stregua di adulti: la Florida ha condannato all’ergastolo Joe Sullivan per uno stupro commesso all’età di 13 anni.
Come nel Medio Evo. Non stupisce che ogni anno si verifichino in cella 80.000 casi d’abusi sessuali. Infine – pochi ne parlano – 75.000 condannati giacciono in solitary confinement, ossia in totale isolamento per 23 ore al giorno: una forma di tortura, l’ha definita l’ONU.
Ogni anno le forze dell’ordine arrestano 15 milioni di persone, aggravando costi e sovraffollamento carcerario: senza la scorciatoia dei patteggiamenti la macchina processuale si gripperebbe. E senza costosi appalti privati l’Amministrazione non ce la farebbe a sostenere la domanda di nuovi istituti di pena (qualcuno ironizza che sia questo l’unico piano nazionale di edilizia popolare), mentre nel nord Europa si stanno chiudendo carceri per mancanza di “inquilini”.
In Germania e in Olanda, infatti, il tempo medio di reclusione è di un anno rispetto ai tre anni negli USA. Per capire meglio il fenomeno, una delegazione americana ha visitato nel 2013 l’Europa e ha scoperto – guarda caso – che da noi si mira a reintegrare i detenuti nella società più che a punirli. E che alla fine si spende meno.
Se un giorno la popolazione carceraria diminuirà anche in America, sarà per motivi di risparmio. Perché comporta un salasso insostenibile: costava 10 miliardi quaranta anni fa, costa 80 miliardi oggi. Per ogni recluso l’erario spende all’incirca come studiare in una buona università. Certo, i costi calerebbero se si creassero servizi rieducativi di stampo svedese (o brasiliano: il governo di Brasilia concede ora sconti di pena a chi legge libri e dimostra di trarne giovamento).
Negli USA non si è ancora a questo punto. Ma a luglio Obama è riuscito nel miracolo di convincere democratici e repubblicani a rivedere la barbarie del solitary confinement e a cambiare le norme che prevedono pene eccessive, visto che prolungate detenzioni non scoraggiano affatto la delinquenza. Ci è riuscito andando a visitare i carcerati dell’Oklahoma, il 16 luglio, e a confessare uscendo: “Nel raccontarmi la loro infanzia e la loro gioventù mi è parso capire che questi reclusi hanno commesso errori non tanto diversi da quelli commessi da me”.
Fonte: il manifesto
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