La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

sabato 8 agosto 2015

Il morso inedito della nuova crisi europea

di Roberto Romano
La crisi eco­no­mica che attra­versa l’Europa potrebbe essere inter­pre­tata nel più ampio e com­plesso qua­dro inter­na­zio­nale. Se nel 2009 quasi tutti i paesi del mondo hanno regi­strato una vio­lenta con­tra­zione del red­dito, il Pil mon­diale si riduce del 2% (Banca Mon­diale, 2015), l’intensità della crisi non è omo­ge­nea, così come le policy adot­tate per affron­tare gli effetti della caduta del red­dito. Solo per fare un esem­pio, gli Stati uniti hanno raf­for­zato la domanda interna e il peso dell’economia pub­blica, men­tre l’Europa con­ti­nua l’austerità. Gli Usa ridu­cono il tasso di disoc­cu­pa­zione al 5,3%, ai minimi dal 2008, l’Europa anna­spa nell’austerità espan­siva. Sono ormai 3 mesi che l’economia nor­da­me­ri­cana crea più di 200 mila posti di lavoro al mese.
L’unico effetto posi­tivo, forse tem­po­ra­neo, è un pro­fondo cam­bia­mento negli orien­ta­menti della ricerca nel campo dell’economia, che con dif­fi­coltà comin­cia ad affer­marsi. Infatti, nel corso di que­sti ultimi 30 anni si è con­so­li­data una “scienza nor­male” che ha minato lo svi­luppo di idee e ricer­che che oggi sareb­bero utili per affron­tare il tema della crisi (A. Ron­ca­glia, 2011). La crisi ini­ziata nel 2007, esplosa tra il 2008 e il 2009, è un evento che poten­zial­mente potrebbe con­cor­rere a tro­vare nuovi equi­li­bri (supe­riori).
Un altro e fon­da­men­tale effetto delle crisi è quello di rico­struire le isti­tu­zioni del capi­tale. Que­ste sono cam­biate o ridi­se­gnate ogni volta che si è mani­fe­stata una crisi strut­tu­rale o di strut­tura. Leon ricorda che c’è qual­cosa di più pro­fondo e ine­dito in que­sta crisi: è l’inizio della fine di un para­digma, più pre­ci­sa­mente del para­digma Reaganiano-Thatcheriano che ha costruito un par­ti­co­lare equi­li­brio tra Stato e capi­tale. Le impli­ca­zioni di ordine eco­no­mico e sociale sono enormi: cosa si cela die­tro l’eventuale esau­ri­mento di que­sto par­ti­co­lare para­digma? Quali sono i feno­meni sociali, eco­no­mici e ripro­dut­tivi del capi­tale che lo pos­sono deter­mi­nare? Il para­digma (Reaganiano-Thatcheriano) ha la forza endo­gena per rige­ne­rarsi e quindi per­pe­tuarsi? (Leon, 2014).
Il ruolo delle isti­tu­zioni per l’andamento della vita eco­no­mica è fon­da­men­tale, e all’interno delle eco­no­mie di mer­cato esi­ste una ampia varietà di assetti isti­tu­zio­nali. Inol­tre, le isti­tu­zioni del capi­tale cam­biano ogni volta che si mani­fe­sta una crisi di un certo rilievo. Nella recente sto­ria eco­no­mica pos­siamo indi­vi­duare cin­que crisi strut­tu­rali (1972–1975; 1979–1982; 1988–1992; 1999–2002; 2007–2009). Sono crisi pro­fonde che hanno get­tato le basi per una diversa rego­la­zione delle isti­tu­zioni del capi­tale, ma l’ultima crisi (2007–2009) si pre­senta come una crisi strut­tu­rale, nel senso isti­tu­zio­nale del ter­mine, e di strut­tura, e l’impatto non è uguale per tutti i paesi. Per alcuni paesi è oppor­tuno uti­liz­zare il ter­mine reces­sione, per altri ral­len­ta­mento della cre­scita, e per altri ancora depres­sione. Non è la crisi in quanto tale che può spie­gare la forza-debolezza delle aree eco­no­mi­che inter­na­zio­nali, piut­to­sto è la velo­cità delle sin­gole aree nel recu­pe­rare le posi­zioni red­di­tuali e occu­pa­zio­nali di ini­zio crisi a distin­guere il posi­zio­na­mento inter­na­zio­nale delle stesse. Se con­si­de­riamo la cre­scita tra il 2007 e il 2014, la Cina cre­sce del 76,0%, il Bra­sile del 26,9%, la Gran Bre­ta­gna del 6,3%, il Giap­pone del 3,1%, gli Stati uniti del 9,8%, men­tre l’economia mon­diale cre­sce del 17,3%. Diverso è il posi­zio­na­mento dell’area euro; nello stesso periodo cre­sce solo del 2,3%, cumu­lando un peri­co­loso ritardo rispetto all’economia inter­na­zio­nale. Inol­tre, all’interno dell’area euro con­vi­vono paesi che sono in depres­sione (Ita­lia e Gre­cia), in reces­sione (Fran­cia), ed altri ancora che mani­fe­stano una con­tra­zione della cre­scita (Ger­ma­nia). Quindi la crisi non è omo­ge­nea in tutte le aree eco­no­mi­che, e all’interno delle stesse pos­siamo tro­vare situa­zioni molto diverse.
C’è, però, un aspetto di poli­tica eco­no­mica abba­stanza impor­tante nel recu­pero delle posi­zioni pre-crisi di molte delle aree con­si­de­rate: il raf­for­za­mento della domanda interna come policy per raf­for­zare la cre­scita del Pil. Dif­fi­cile dire se sia l’effetto della minore cre­scita inter­na­zio­nale o l’inizio di una nuova poli­tica eco­no­mica che pre­lude a nuove isti­tu­zioni del capi­tale, ma è oltre­modo indi­scu­ti­bile che in tutte le aree eco­no­mi­che, Cina inclusa, il peso delle espor­ta­zioni come stru­mento per con­so­li­dare e/o raf­for­zare la cre­scita eco­no­mica si sia ridotto. Solo l’area euro con­ti­nua a imma­gi­nare la cre­scita eco­no­mica attra­verso la capacità-possibilità di aumen­tare le espor­ta­zioni inter­na­zio­nali. I dati rac­colti sono abba­stanza chiari a que­sto pro­po­sito. Le par­tite cor­renti, in per­cen­tuale del Pil, regi­strano degli avanzi-disavanzi con­te­nuti con il pas­sare della crisi: la Cina passa dal 15% del PIL del 2008 al 2% del 2014; la Fede­ra­zione Russa dal 6% al 3%; il Giap­pone dal 3% all’1%. Solo i paesi euro­pei, ten­den­zial­mente, aumen­tano il peso degli avanzi com­mer­ciali per con­so­li­dare il Pil, con una ano­ma­lia (mon­diale) che potrebbe spie­gare una parte dell’atteggiamento cinese, giap­po­nese e ame­ri­cano circa l’esito della crisi greca: la Ger­ma­nia aumenta l’avanzo com­mer­ciale dal 5,6% del Pil del 2008 al 7,5% del 2014.
Il ral­len­ta­mento della cre­scita eco­no­mica degli ultimi 20 anni e la crisi ini­ziata nel 2007, con­se­gnano alla comu­nità una crisi che è allo stesso tempo d’accumulazione, di domanda e rego­la­zione. Le misure intra­prese sono diverse per paese e per area eco­no­mica, ma all’orizzonte sem­bra pre­fi­gu­rarsi un qua­dro di poli­ti­che che pun­tano al soste­gno della domanda, dell’accumulazione (attra­verso l’industrializzazione della ricerca per anti­ci­pare la domanda di beni e ser­vizi), uni­ta­mente ad una rego­la­zione del sistema finan­zia­rio (almeno) suf­fi­ciente per ral­len­tare la finanza spe­cu­la­tiva. Que­ste poli­ti­che, così come le moda­lità e la tem­pi­stica di attua­zione, pre­fi­gu­rano delle isti­tu­zioni e delle eco­no­mie incoe­renti con il pre­cetto main­stream, almeno nei postu­lati teo­rici, da cui, però, l’Europa non sem­bra capace di uscire. In que­sto con­te­sto l’Europa potrebbe diven­tare un vin­colo inter­na­zio­nale se con­ti­nuasse a per­pe­tuare poli­ti­che di auste­rità, nella misura in cui non con­corre a tro­vare una solu­zione con­di­visa alla crisi internazionale.

Fonte: il manifesto

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