di Andrea Zhok
Il recente precipitare degli eventi in Grecia ha messo in luce tanto
la fragilità politica delle relazioni interne all’Unione Europea quanto
l’ambiguità dei patti che vincolano gli stati membri. Sui media,
italiani ma non solo, si sono succedute letture degli eventi
marcatamente divergenti, spesso ideologiche, e ancor più spesso
penosamente disinformate.
Scopo di questo breve scritto sarà
perciò, in una prima parte, di fornire un resoconto il più sobrio
possibile, del quadro storico della crisi greca, rinviando ad una
seconda parte un commento politico più comprensivo. Nel prosieguo, per
ragioni di leggibilità non sono state introdotte note o riferimenti
bibliografici, ma tutti i dati riportati sono tratti o da fonti
ufficiali (Eurostat, FMI reports, ecc.) oppure,
occasionalmente, da resoconti della stampa economica specializzata. Su
alcuni dati vi sono piccoli scostamenti a seconda delle fonti, ma esse
non toccano la sostanza.
Pur sapendo che non è mai possibile separare
completamente fatti ed interpretazioni, nella prima parte il mio intento
sarà di limitare al massimo i commenti, lasciando innanzitutto al
lettore la possibilità di acquisire un quadro sinottico della
situazione.
1. Gli esordi della crisi greca
Il 20 ottobre 2009, il ministro delle finanze Gyorgos Papaconstantinou, ministro del partito socialista (Pasok)
appena tornato al governo, rivela pubblicamente che il rapporto
Deficit/Pil per l’anno in corso, non oscillava intorno al 3%, come
atteso, ma intorno al 12,5%.Un’ulteriore rendicontazione porterà il
rapporto reale al 15,5%. Successive indagini riveleranno come le
dichiarazioni precedenti sullo stato delle finanze da parte delle
autorità greche fossero state falsificate, e come gli organismi di
controllo internazionale fossero stati inerti. È peraltro legittimo
supporre che le autorità greche si sentissero incoraggiate ad un po’ di
finanza creativa: già nel 2004 era stato ammesso che lo stesso ingresso
nell’euro era avvenuto sulla base di dati taroccati, poiché il rapporto
Deficit/Pil aveva sempre superato il 3% dal 1999. Nessuna conseguenza
degna di nota ne era seguita, salvo un lieve aumento dei tassi di
interesse greci, che non impedì l’ulteriore massiccio acquisto di titoli
greci da parte delle banche internazionali.
Ma com’era stato
possibile nascondere un dato macroscopico come la crescita fuori misura
dei prestiti contratti sul mercato internazionale dei capitali? Niente
di più semplice: come emerso nel 2010, a partire dal 2001 lo stato greco
aveva pagato tra 200 e 600 milioni di dollari a Goldman Sachs e altre
grandi banche di investimento affinché nascondessero tali operazioni.
Con l’ingresso nell’euro (2001) gli interessi sui prestiti si erano
ridotti e, nonostante il lieve aumento successivo al 2004, il governo
greco di Kostas Karamanlis (Nea Demokratìa) aveva deciso di approfittarne.
L’effetto
immediato dell’annuncio del 20 ottobre 2009 fu l’avvio di una serie
ininterrotta di riduzioni del rating del debito greco da parte delle
agenzie internazionali, con conseguente aumento dei tassi di interessi
richiesti per rifinanziarsi.
Tutto ciò, naturalmente, si
verificava nel contesto del secondo anno della crisi finanziaria
mondiale da cui non siamo ancora usciti. La Grecia si ritrovò così con
un debito pubblico al 129% del Pil e la sfiducia dei mercati
internazionali nel bel mezzo della peggiore crisi dal 1929, crisi che
aveva già cominciato a colpire settori strategici per la Grecia come il
turismo. In questo contesto, numerosi osservatori internazionali
dichiararono da subito che le condizioni di una ristrutturazione del
debito (default, almeno parziale) erano inevitabili.
Inizialmente,
nel dicembre del 2009, la Grecia si impegnò ad un piano di
‘consolidamento fiscale’ con la Commissione Europea, escludendo
l’intervento del Fondo Monetario Internazionale. Il programma di
stabilità sottoscritto aveva come obiettivo una riduzione del rapporto
Deficit/Pil all’8% entro fine 2010, e al 5% nel 2011, per rientrare
sotto il 3% nel 2012. All’inizio del 2010 vi fu un primo intervento, con
un taglio del 10% nei salari e nelle spese del settore pubblico ed un
aumento delle tasse indirette, in particolare sui carburanti. Il 3 marzo
2010 ci fu un secondo intervento, con la riduzione della tredicesima,
un aumento del 2% dell’aliquota alta dell’IVA (al 21%), aumenti di tasse
su tabacchi, beni di lusso, alcolici, il congelamento delle pensioni.
In
quest’occasione, il Primo Ministro Gyorgos Papandreou, incoraggiato dai
sondaggi favorevoli, parlò di una “lotta contro il tempo per tenere in
vita l’economia greca” e della necessità di “prendere decisioni
difficili, anche se talvolta ingiuste.”
Il 23 aprile 2010
Papandreou chiese formalmente un intervento di ‘salvataggio
internazionale’, intervento cui erano chiamati a partecipare l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale
(la cosiddetta Trojka). Il 2 maggio venne concesso un prestito di 110
miliardi di euro su tre anni (il più grande intervento di bailout
rivolto ad un singolo stato mai promosso, e destinato peraltro a
crescere). Tale aiuto era condizionato all’implementazione di severe
misure di austerità economica, con tagli di spesa e crescita delle tasse
per un ammontare di 30 miliardi di euro. La prima rata dei prestiti
doveva servire a ripagare i debiti in scadenza il 19 maggio e senza quei
fondi ci sarebbe stato un default.
È utile ricordare, di passaggio, cosa si intende qui per ‘salvataggio’. Il termine traduce l’inglese bailout,
che deriva dalla pratica marinara di svuotare l’acqua che entra in un
natante in avaria. Nonostante il termine italiano ‘salvataggio’ evochi
qualcosa come il prode soccorso navale che porta in salvo i passeggeri,
il bailout è propriamente un ‘aiuto a svuotare l’acqua’ che si
va accumulando, ovvero, in concreto, è un’attivazione di prestiti con
tassi di interesse e scadenze favorevoli rispetto a quelli di mercato.
Il fine di un bailout è di fornire liquidità ad un paese in momentanea
crisi di illiquidità, mentre non è un sistema per affrontare un problema di insolvibilità.
Mentre
le piazze greche erano in rivolta, con i primi morti, tra maggio e
luglio 2010 venne fatto passare un nuovo pacchetto di ‘riforme’:
l’aliquota massima dell’IVA salì al 23%, vennero semplificate le
procedure per il licenziamento dei lavoratori e si mise mano ad una
radicale riforma del sistema pensionistico. Il 7 luglio il Parlamento
approvò il passaggio del sistema pensionistico da retributivo a
contributivo e l’innalzamento dell’età minima di pensionamento per donne
ed uomini a 65 anni. L’implementazione completa del piano era graduata
su dieci anni. Il ministro delle finanze Papaconstantinou annunciò: “in
un colpo solo stiamo mettendo il sistema su di un percorso sostenibile,
salvaguardando le future pensioni”.
Nel dicembre 2010, su
richiesta della Trojka, il parlamento greco approvò un taglio ulteriore
del 10% per cento dei salari pubblici superiori a 1800 euro e
l’introduzione di un tetto (4000 euro lordi/mese) ai salari pubblici
massimi. Altre misure richieste includevano l’aumento dell’aliquota
minima dell’IVA dall’11% al 13%, la conferma del congelamento delle
pensioni, la riduzione delle imposte sui profitti societari dal 24 al
20%, la riduzione dell’IVA relativa all’industria turistica dall’11% al
6,5%.
Nei primi mesi del 2011 al deteriorarsi dei fondamentali
dell’economia greca (recessione del 9,8%, disoccupazione dall’11,9 al
17%), le agenzie di rating ridussero ulteriormente la valutazione del
debito greco, fino a giungere al minimo livello considerabile. In
risposta, il 29 giugno 2011 il Parlamento Greco approvò un nuovo
pacchetto di misure di austerità, mentre in Plateia Syntagma si
succedevano scontri e manifestazioni. Le misure includevano la
privatizzazione dell’azienda elettrica di stato, aumenti di tasse sul
reddito tra l’1% e il 5%, l’innalzamento delle tasse su bar e
ristoranti, e sui combustibili da riscaldamento, oltre ad un
abbassamento della soglia di esenzione fiscale individuale da 12.000
euro a 8.000. Inoltre l’11 settembre il governo impose una nuova tassa
sulla proprietà della casa, da raccogliere direttamente attraverso la
bolletta elettrica (il mancato pagamento comporta il distacco
dell’elettricità).
2. ll primo default e le sue ragioni
L’evidente
deterioramento della situazione indusse alla fine del 2011 ad avviare
colloqui con la Trojka per giungere ad uno ‘haircut’ (taglio del
debito). Dopo faticose trattative si deliberò un taglio del 50% dei
crediti dovuti agli investitori privati. Pur trattandosi a tutti gli
effetti di un default, il suo carattere venne tecnicamente dissimulato,
adottando la forma della ‘rinuncia volontaria’: i creditori figuravano
rinunciare volontariamente al loro credito. Trattandosi formalmente di
una rinuncia volontaria ciò impedì l’attivazione dei Credit Default Swaps,
gli strumenti finanziari avrebbero dovuto assicurare i creditori contro
un default. Questa procedura, che richiese una considerevole attività
di persuasione politica, venne scelta a causa della generale fragilità
del sistema finanziario internazionale, che avrebbe mal sopportato un
default incontrollato, con pagamenti miliardari agli assicurati. Il
carattere di ‘rinuncia volontaria’ consentì tuttavia a parte dei
creditori di sfilarsi dall’accordo: alla fine vennero coinvolti l’82,5%
dei creditori privati.
È importante comprendere sia l’entità
esatta che le condizioni di questo taglio del debito. Il debito greco
totale ammontava, a fine 2011, a 350 miliardi di euro, dei quali 150
detenuti da istituzioni pubbliche (quelle della Trojka) e 200 detenuti
da investitori privati. Il taglio del 50% incideva su questi ultimi e
avrebbe potuto dunque ammontare a 100 miliardi (= 28% del debito
totale). Non avendo partecipato tutti gli investitori privati il taglio
effettivo fu in ultima istanza di circa il 24%. Un taglio comunque
cospicuo, anche se lontano da haircut passati come il 75% dell’Argentina
del 2002.
Bisogna tuttavia notare che la maggioranza dei 200
milioni di debito in questione erano nelle mani di investitori privati
greci (80 milioni presso le banche greche e 35 milioni presso fondi
pensione). Il taglio produsse dunque due effetti specifici sul sistema
economico greco. Da un lato colpì le capitalizzazioni dei fondi
pensione, toccando duramente le pensioni private dei greci. Dall’altro
colpì le banche greche, già sull’orlo del fallimento, che, per tenersi a
galla, richiesero urgente liquidità (tra gli 11 e i 14 miliardi di euro
nell’immediato). Inoltre, per accettare tale accordo ‘volontario’ i
creditori privati richiesero una una tantum al governo greco di
9,6 miliardi. Tutte queste somme, che lo stato greco non era in grado
di anticipare, vennero fornite come ulteriori prestiti, condizionati a
nuovi interventi di ‘riforma’. Si trattava di 34,4 miliardi di euro, di
cui 23,8 miliardi servirono a sostenere il sistema bancario greco (e con
ciò le banche ad esso creditrici), mentre 9,3 miliardi dovevano essere
spalmati fino al 2013 per sostenere le spese dello stato greco, sotto
specifiche limitazioni.
A fronte delle pesantissime proteste
pubbliche contro le condizioni per la concessione dei prestiti, il 31
ottobre Papandreou annunciò un referendum, per lasciare al popolo la
scelta se accettare o meno l’accordo: “Abbiamo bisogno di un ampio
consenso – disse nell’occasione Papandreou – siamo parte dell’eurozona,
il che comporta molti diritti e molti doveri. Terremo comunque fede ai
nostri obblighi”.
A stretto giro di posta, una dichiarazione
unitaria dei premier tedesco (Angela Merkel) e francese (Nicolas
Sarkozy) chiariva che nel caso di esito negativo del referendum, ogni
programma di aiuti sarebbe stato immediatamente interrotto. Il 3
novembre 2011 il referendum venne disdetto e il 6 novembre Papandreou
rassegnò le dimissioni.
A questo punto (12 Febbraio 2012) al
Parlamento Greco non restava che approvare le condizionalità imposte
dalla Trojka. Esse includevano: un taglio del 22% del salario minimo, la
cancellazione definitiva delle tredicesime, 150.000 licenziamenti nel
settore pubblico entro due anni, tagli alle pensioni per 300 milioni,
ulteriori facilitazioni legali ai licenziamenti, tagli alla sanità e
alla difesa, libertà di negoziazione decentrata dei contratti,
liberalizzazione dei settori sanitario, turistico e immobiliare,
privatizzazioni per un valore atteso di 15 miliardi (incluse le due
aziende pubbliche del gas).
Considerando retrospettivamente gli
eventi tra la fine del 2009 e il default controllato del 2012, numerose
voci si levarono a chiedere perché quello che sembrava un evento
inevitabile sin dall’inizio fosse stato ritardato così a lungo,
provocando due anni di pesantissima recessione e un peggioramento del
quadro finanziario. Per giustificare la propria condotta il FMI ordinò
di svolgere uno studio, pubblicato nel 2013 (Greece: Ex Post Evaluation of Exceptional Access under the 2010 Stand-By Arrangement). Lo studio del FMI, tecnicamente esaustivo ed esplicitamente autogiustificativo, fa emergere alcuni elementi degni di nota.
Il primo riguarda il grado di conformità (compliance)
alle indicazioni di EU, FMI e BCE da parte della Grecia nel biennio che
precede lo haircut. Nonostante la vastità e il dettaglio delle
richieste si nota come la conformità sia stata, nel 2010, completa per
oltre l’80% dei provvedimenti e parziale per il rimanente. Nel 2011
l’obbedienza era stata completa sempre per più del 60% dei
provvedimenti, parziale per il resto, con la sola eccezione del primo
quadrimestre 2011, dove figura un 15% dei provvedimenti non attuati.
Ergo, nel periodo in cui le autorità internazionali avevano preso sotto
la propria guida l’economia greca, in cambio di prestiti a tassi
favorevoli, il governo aveva seguito le indicazioni che gli venivano
dettate con un elevato livello di fedeltà.
Più interessante ancora
è la ricostruzione del FMI delle scelte che condussero alla
ristrutturazione del debito del 2012. Un immediato haircut sarebbe stata
economicamente la miglior soluzione, afferma il report, tuttavia una
tale prospettiva non era politicamente percorribile. E le ragioni erano
semplici. La fragilità della situazione finanziaria internazionale nel
2009 era estrema e l’esposizione dei sistemi bancari europei (francese e
tedesco in particolare) rispetto al sistema bancario greco rendevano un
default con taglio del debito difficilmente sostenibile per il sistema
del credito privato internazionale. Quanto alla Grecia, un default
avrebbe comportato la necessità di un brusco rientro in avanzo primario
(annullamento del deficit nella spesa corrente), giacché i prestiti sul
mercato internazionale le sarebbero stati preclusi. In questa cornice un
‘salvataggio’, di entità molto più modesta di quelli di fatto avvenuti,
sarebbe stato finanziariamente possibile, e ottimale per l’economia
greca.
C’erano però due ragioni che impedivano di prendere questa
strada, una pubblicamente sostenuta, una seconda accuratamente taciuta.
Quella pubblica era di non incoraggiare il “moral hazard”,
cioè la tendenza di altri debitori a prendere alla leggera il proprio
indebitamento, sapendo che poi una via d’uscita si sarebbe trovata. In
sostanza, c’era il rischio che la Grecia in caso di default soffrisse
meno di quanto normalmente un paese isolato in condizioni simili avrebbe
sofferto, e questo lo si riteneva inaccettabile.
La ragione
inizialmente dissimulata, anche se decisiva, era però un’altra. La
ristrutturazione del debito greco in quel momento rischiava di innescare
un contagio sul modello di Lehman Brothers, facendo fallire le
banche private internazionali in credito con la Grecia, che erano in
particolare le banche francesi e tedesche.
Qualcuno si potrebbe
chiedere come mai le banche francesi e tedesche detenessero così tanti
titoli di stato greci (119 miliardi, a fronte, per dire, dei 4 miliardi
delle banche italiane). Le ragioni non sono trasparenti, ma possono solo
essere dedotte. Verso la metà degli anni ’90 l’idea che una valuta
comune europea divenisse realtà in tempi finanziariamente prossimi
cominciò a diffondersi. Alcune banche private, curiosamente proprio
quelle dei paesi politicamente decisivi per l’ammissione all’euro,
Francia e Germania, ritennero di avere elementi sufficienti per
scommettere sulla costituzione dell’euro (e sull’inclusione della
Grecia). Questo li indusse a scommettere massicciamente su questa
opzione, acquistando titoli di stato greci, a buon prezzo ed alta
rendita. La scommessa fu fruttuosa: nonostante i dubbi sullo stato delle
finanze greche, la Grecia in ultima istanza venne ammessa
nell’eurozona, portando a un crollo dei tassi di interesse sulle nuove
emissioni (dal 20% ad inizio anni ‘90 al 3% nel 2002). Le banche che
così avevano scommesso ne trassero ampi profitti. Peraltro, come
ricordato, l’acquisto di titoli proseguì anche dopo aver saputo (2004)
dei camuffamenti contabili che avevano consentito di entrare nell’euro.
Ma
quali che siano le origini di quell’esposizione bancaria, il nocciolo
della questione era chiara: un default con taglio del debito a inizio
2010 non era un’opzione politicamente percorribile perché avrebbe messo a
rischio le banche francesi e tedesche e attraverso di esse, con il
meccanismo del contagio finanziario, forse l’intero sistema finanziario
europeo. Perciò, scrive il report del FMI: “Una ristrutturazione
immediata del debito sarebbe stata meglio per la Grecia, ma non era
accettabile per i partner europei. Una ristrutturazione ritardata
forniva una finestra affinché i creditori privati riducessero la loro
esposizione, spostando il debito in mani pubbliche.”
A questo
quadro può essere utile aggiungere un ultimo dettaglio, tratto dalle
minute dei colloqui del FMI. Il governo greco stesso aveva rigettato ad
inizio 2010 l’opportunità di un taglio del debito e, soprattutto, nei
colloqui bilaterali intrattenuti dallo staff del FMI con le controparti
greche (partiti, ONG, sindacati e rappresentanti del settore privato)
era emerso, non senza sorpresa, che il settore privato greco appoggiava integralmente
il programma di salvataggio e le riforme draconiane che venivano
prospettate, vedendovi uno “strumento per farla finita con numerosi
privilegi del settore pubblico”.
3. Nel gorgo del debito
Il
17 giugno 2012 si tennero le elezioni anticipate, innescate dalle
dimissioni di Papandreou. Gli esiti condussero ad un governo di
coalizione con primo ministro Antonis Samaras (Nea Demokratìa).
Si passò così ad un’ulteriore fase di implementazione delle condizioni
imposte per l’accesso al credito. Venne approvata una nuova riforma del
sistema di tassazione, priva di carattere progressivo, con
l’introduzione di una flat tax al 28% per tutte le attività di
impresa. Vennero inoltre ridotte le esenzioni relative alla tassa sulla
casa, abolito il bonus per le famiglie con bambini ed introdotto un
tetto alla spesa massima per le cure sanitarie. Vi furono anche
interventi di riforma in senso proprio, come la liberalizzazione delle
professioni regolamentate dallo stato (come i notai) e la
deregolamentazione dei mercati dei beni, dei servizi e dell’energia.
Nel
novembre 2012 una nuova serie di interventi venne richiesta per
ricevere la successiva rata dei prestiti internazionali: i salari dei
dipendenti pubblici vennero tagliati di nuovo fino al 20% (e per i
salari più alti fino al 30%); le pensioni vennero tagliate in media tra
il 5 e il 15%; l’età pensionistica venne innalzata da 65 a 67 anni per
gli uomini e venne introdotto un sistema di decurtazioni progressive per
i pensionamenti anticipati.
L’obbedienza alle imposizioni della
Trojka non fu però completa. Nonostante fossero stati richiesti, vennero
respinti un ulteriore abbassamento del salario minimo, una riduzione
del 30% delle compensazioni economiche per i licenziamenti, e il
licenziamento immediato di 20.000 dipendenti pubblici (che invece
vennero messi in ‘mobilità’ per alcuni mesi a salario ridotto).
Nel
frattempo, alla luce dello scarso successo di mercato delle dismissioni
finora avvenute, gli introiti attesi dalle privatizzazioni vennero
corretti al ribasso, dagli attesi 19 miliardi a soli 11 miliardi.
Nel corso dei primi mesi del 2013 furono approvati ulteriori tagli di 15.000 posti pubblici, e in giugno vennero chiuse prima l’Orchestra Sinfonica Nazionale e poi la Radiotelevisione Greca (ERT, riaperta, a ranghi ridotti, da Tsipras quest’anno).
Nell’aprile
del 2014 il governo annunciava con orgoglio il ritorno della Grecia sul
mercato dei capitali, con la vendita di 3 miliardi di titoli di stato a
5 anni ad un tasso sorprendente basso del 4,95%. Secondo il Primo
Ministro Samaras questo rappresentava “più che un trionfo”.
A ben vedere, tuttavia, le parole del ministro erano alquanto avventate, perché tale accesso al credito avveniva non
sulla base di una ritrovata credibilità finanziaria del paese, ma sulla
base di un ragionamento diffuso tra gli investitori: nonostante il
debito greco continuasse ad essere ritenuto insostenibile, il fatto che
la gran parte di esso fosse oramai nelle mani delle istituzioni
internazionali e dei partner europei, creava una sorta di assicurazione.
Ogni sforzo sarebbe stato fatto per tenere a galla il paese negli anni a
venire, consentendo ai titoli di venire a scadenza prima di
un’ulteriore ristrutturazione del debito.
Alla luce della
minacciosa crescita della coalizione di sinistra Syryza nelle recenti
elezioni locali ed europee, Samaras cercò di capitalizzare la ‘buona
novella’ del ritorno della Grecia sui mercati anticipando di due mesi
(come permesso dalla Costituzione greca) l’elezione del nuovo presidente
della Repubblica. La stessa Costituzione, tuttavia, impone che, in caso
di mancata maggioranza per l’elezione entro il terzo tentativo, si
debba andare ad elezioni anticipate. E questo fu precisamente ciò che
avvenne.
Il 25 gennaio 2015 si tennero dunque le elezioni anticipate che diedero la vittoria a Syryza (al secondo posto Nea Demokrateia, al terzo il partito neonazista Chrysi Avgi
(Alba Dorata)). Il leader di Syryza Alexis Tsipras diveniva così primo
ministro in una coalizione dove a fornire i due voti mancanti per la
maggioranza era il piccolo partito di centro-destra Anel, il
cui leader Kammenos diviene ministro della Difesa. È importante notare
che tale strana coalizione poteva formarsi solo grazie ad un unico,
decisivo, punto di convergenza: il rifiuto della prosecuzione delle
politiche di austerity dettate dalla Trojka.
4. Vae victis, ovvero i primi mesi del governo Tsipras
Facciamo ora il punto circa cosa è accaduto all’economia greca tra la fine del 2009 e la vittoria di Syryza.
In
questi cinque anni la disoccupazione è salita dal 11,9% al 26,2%. Il
prodotto interno lordo è decresciuto del 28,4%. Il debito è passato
dall’essere il 129,7% del Pil nel 2009 al 184%. E va notato che quando
lo haircut di fine 2011 venne deciso, il debito era ‘solo’ al 170%, e il
taglio lo aveva ridotto temporaneamente al 156%. Di contro, le spese
statali si sono ridotte da 125 miliardi all’anno nel 2009 a 82
miliardi/anno a fine 2014. L’avanzo primario nel 2014 (al netto del
pagamento degli interessi) è il più alto dell’Eurozona (+5%).
Simultaneamente, nonostante i pesanti aumenti di imposizione fiscale, le
entrate statali si sono ridotte da 89 miliardi a 80.
E tutto ciò in presenza del più grande intervento di ‘salvataggio’ mai promosso per un singolo paese.
È
però cruciale visualizzare il destino del fiume di denaro riversato dai
creditori internazionali sulla Grecia. Tra inizio 2010 e fine 2014 gli
aiuti internazionali sono ammontati a 226,7 miliardi di euro (194,8
miliardi dall’Eurozona, 31,9 miliardi dal FMI). Di questa somma soltanto
27 miliardi (pari a poco meno del 12%) è stato impiegato per le spese
dello stato greco. Per un raffronto, il 53% (122 miliardi) sono serviti
solo a pagare interessi sul debito e un altro 19% (48 miliardi) sono
serviti a ricapitalizzare le banche greche.
È su questo sfondo che bisogna leggere la vittoria di Syryza alle elezioni. Syryza, erede del precedente Synapsismòs, è un partito che, diversamente dal Partito Comunista Greco (KKE)
è fortemente europeista (cosa che la stampa internazionale, italiana in
testa, fece fatica a capire per diversi mesi, continuando a parlare di
Syryza come ‘movimento euroscettico’).
Sin dall’insediamento, il
senso politico della vittoria di Syryza è stato chiaro, in Grecia così
come nel resto d’Europa dove le politiche restrittive hanno colpito
duramente (Spagna, Portogallo, Italia, ecc.). Sul piano tanto simbolico
che strategico la vittoria di Syryza è stata vista come un possibile
momento di svolta, capace di incoraggiare quelle tendenze politiche
europee che, senza negare l’europeismo, erano avverse alla strategia
dell’austerity.
Le parole di Tsipras all’insediamento non
potrebbero essere più chiare: le politiche di austerity sono
procicliche, approfondiscono il problema, non lo risolvono, e l’economia
greca può riprendersi solo se le condizioni per i prestiti vengono
riscritte consentendo investimenti e se il debito totale (risalito dopo
lo haircut del 2011-2012 a 318 miliardi) viene ristrutturato.
Ancora
più chiara la posizione del neoministro dell’economia Yanis Varoufakis
(PhD ad Essex, docente in Texas). Infatti, oltre alle posizioni
menzionate da Tsipras di cui sopra, Varoufakis aveva preso di mira il
‘fronte interno’ degli oligarchi greci, che avrebbero costruito un
sistema che “toglie energia e potenziale economico ad ogni altro
all’interno della società greca.”
Non meno chiara, tuttavia, è
stata l’immediata risposta dei creditori dell’Eurozona: tutti, dal
Commissario Europeo Pierre Moscovici, al Segretario del FMI Lagarde, al
ministro delle Finanze tedesco Schäuble si sono affrettati a dire che
dalla Grecia ci si aspettava né più né meno che il “pieno rispetto dei
patti sottoscritti ed il pagamento del debito”, e che la Grecia “non
doveva rappresentare un’eccezione nel panorama internazionale”.
Lo
scontro tra le due linee divenne esplicito molto presto. Nel febbraio
scorso, appena entrato in carica, il governo Tsipras dovette negoziare
un nuovo prestito a sostegno del proprio sistema bancario, che perdeva
depositi con un ritmo di due miliardi alla settimana. Alla fine di
febbraio si giunse ad un compromesso politicamente molto costoso per il
neoinsediato governo. In cambio della liquidità necessaria, estesa per
quattro mesi (fino a giugno 2015), il governo greco accettò di rimanere
vincolato agli obiettivi di budget precedentemente fissati. Venne però
apparentemente concesso al governo di trovare strade diverse
per giungere al medesimo esito, a patto cioè che i saldi rimanessero
invariati. In quest’occasione Varoufakis ribadì che nuove strade
sarebbero state trovate, impegnandosi contro ulteriori interventi di
compressione del mercato interno, come tagli alle pensioni ed
innalzamenti dell’IVA.
Indicativo dello spirito della negoziazione
il commento compiaciuto di Wolfgang Schäuble all’uscita dalla
trattativa: “Il governo greco avrà certamente grosse difficoltà a
spiegare l’accordo ai propri elettori”.
Nonostante la fronda
interna, Tsipras riuscì comunque a far passare le condizioni del
prestito, anche in vista del nuovo appuntamento negoziale a breve
termine (giugno). Tra febbraio e giugno Varoufakis girava in lungo e in
largo per l’Europa, cercando di spiegare sia da un punto di vista
tecnico che di visione politica le linee di una controproposta greca. I
tratti di fondo di questa proposta erano (e sono):
1) Spostare
l’onere della preservazione del vincolo di budget dalle tasse che
colpiscono i consumi al recupero dell’evasione fiscale (da sempre
drammatica in Grecia, ed aumentata dall’inizio della crisi), e togliere i
privilegi fiscali di cui ancora godono gli oligarchi greci.
2)
Limitare ulteriori interventi sulle pensioni alla chiusura delle ultime
finestre rimaste per i pensionamenti anticipati, ricordando che le
pensioni greche sono state tagliate in media dall’inizio della crisi del
44,2% nel settore privato e del 48% nel settore pubblico.
3) Semplificare la burocrazia per l’apertura delle imprese.
4)
Regolarizzare un mercato del lavoro oramai totalmente frammentato,
sommerso e incontrollabile, che anche perciò sfugge all’esazione
fiscale.
5) Modernizzare radicalmente la pubblica amministrazione, ripulendola da diffuse pratiche corruttive e clientelari.
6)
Giungere ad un taglio del debito significativo, che consentisse di
riprendere gli investimenti, senza riservare ogni surplus ad un perenne
rifinanziamento del debito.
7) Infine, l’auspicio che l’intero
processo avvenisse sullo sfondo di una trasformazione delle istituzioni
europee, con un’estensione del controllo politico e democratico su
settori finora lasciati alle sovranità nazionali; dunque ‘europeizzando’
il settore bancario, parte del debito pubblico, gli investimenti
aggregati e i programmi di sostegno al reddito.
Si giunse così
alle trattative di giugno, in vista delle ulteriori scadenze di
pagamento del debito. La negoziazione apparve sin dall’inizio ardua, con
una prima proposta greca liquidata dagli interlocutori come ‘non
seria’. Nei colloqui del 24-25 giugno una nuova proposta del governo
greco venne rimandata al mittente con innumerevoli richieste di
modifiche. Quest’ultima proposta greca accettava la richiesta di
ulteriori tagli per un ammontare di 7,9 miliardi sugli 8,6 richiesti. La
maggior parte di questa somma sarebbe stata ricavata da nuovi introiti
(imposte su profitti delle imprese, su giochi online e beni di lusso,
riforma del codice fiscale e delle esenzioni, gara pubblica per le
frequenze televisive, aumento dello 0,74% dell’IVA), e con una riduzione
di spesa limitata a una ricontrattazione delle spese per medicinali e
test diagnostici, alla chiusura delle rimanenti possibilità di
pensionamento anticipato, ad un aumento dell’1% delle contribuzioni
sanitarie sulle pensioni, e ad un abbassamento del tetto di spesa per le
spese militari.
La posizione di BCE, UE e FMI era però
simmetricamente opposta: veniva chiesto che l’80% del budget provenisse
da risparmi di spesa, e solo il 20% da nuovi introiti. La proposta del
governo greco venne perciò restituita con correzioni che escludevano, o
limitavano, forme di tassazione sui profitti delle imprese, respingevano
la tassazione dei giochi online, aumentavano del 2% i contributi
sanitari sulle pensioni, aumentavano l’IVA dell’1%, e chiedevano altri
interventi sul sistema pensionistico. Olivier Blanchard, consigliere
economico del FMI, affermò come fosse necessario portare la spesa
pensionistica dal 16% del Pil al 15%, in linea con altri sistemi
pensionistici europei. A niente è valsa la replica che, con un PIL
caduto del 26%, attaccare le pensioni per inseguire un rapporto
‘virtuoso’ del 15% significava nell’immediato alimentare una spirale
recessiva.
In ultima istanza, nonostante le posizioni in termini
di budget si fossero avvicinate di molto, con la concessione da parte
del governo greco di nuove riduzioni di spesa, e con la riduzione da
parte della Trojka delle pretese di avanzo primario, la divergenza circa
la strategia con cui ottenere il risultato apparve insanabile. I
creditori respingevano la strategia politica sottesa alle
proposte economiche greche, e ciò veniva fatto sostenendone l’incapacità
di raggiungere gli obiettivi prefissati. Con la rata di pagamento al
FMI di 1,6 miliardi in scadenza, e nell’impossibilità politica di
stravolgere l’agenda su cui era stato eletto, il 27 giugno Tsipras
annunciava di voler sottoporre a una consultazione popolare
l’accettazione o meno delle condizioni imposte per accedere a nuovi
prestiti.
Alla richiesta del governo greco di una proroga degli
aiuti di sei (6) giorni, per consentire di svolgere il referendum senza
pressioni, la BCE mobilitata dalla Germania negava ogni dilazione. Di
conseguenza il 29 giugno le banche erano costrette a tenere chiusi gli
sportelli, ed il 30 giugno la Grecia mancava il pagamento della rata
dovuta al FMI, prodromo di un default.
Il 5 luglio il referendum dava il seguente esito: NO al 61,31%, SI al 38, 69%.
II. Vizi privati, pubblici debiti
5. Salvataggio di chi?
Negli
ultimi sei anni l’espressione ‘salvataggio della Grecia’ è stata una
formula reiterata sui media italiani, e, con espressioni omologhe, su
quelli internazionali. Anche se nelle lingue di altri paesi le
connotazioni salvifiche delle omologhe espressioni sono meno esplicite,
il messaggio politico che è stato inizialmente diffuso è stato comunque
simile: di fronte ad un paese europeo in grave difficoltà, le
istituzioni internazionali, europee in primo luogo, si mobilitavano per
aiutarlo. In questo schema interpretativo era essenziale il fatto che
una nazione, la Grecia, venisse ‘salvata’ da altre nazioni, la Germania, la Francia, l’Italia, la Spagna, ecc., unite dagli oneri e onori dei trattati europei.
Quest’interpretazione
è stata una distorsione consapevole, che ha aperto una pericolosa
deriva nelle letture date da ciascuno paese agli eventi sul palcoscenico
europeo.
Come abbiamo visto nella prima parte dell’analisi, i
creditori internazionali (essenzialmente europei) hanno adottato, di
fronte alla crisi finanziaria greca, una strategia con tre obiettivi
primari.
In primo luogo è stata adottata per due anni la strategia del prestito internazionale (bailout), e non del taglio del debito (haircut),
per dare il tempo alle banche private coinvolte (principalmente
francesi e tedesche) di alleggerire la propria esposizione,
trasferendone gli oneri sui bilanci pubblici dei paesi prestatori.
In secondo luogo, si è agito così per dare tempo alla BCE di mettere in piedi lo European Stability Mechanism
(ESM), meglio noto come ‘Fondo salva-stati’, in modo da porre una toppa
alla follia di aver creato un’Europa unita sul piano finanziario e
disunita su quello politico: l’ESM appare come un tardivo e parziale
passo verso l’assoggettamento delle finanze UE a decisioni politiche
(secondo il vago modello della Federal Reserve americana).
In
terzo luogo, si è messa in campo una strategia politica, in linea con
il pensiero economico dominante in Europa da una quindicina d’anni a
questa parte, secondo cui è necessario promuovere il dimagrimento delle
strutture statali e l’ampliamento del ruolo del settore privato
nell’industria e nei servizi.
I modi del processo di ‘salvataggio’
avviato a inizio 2010 sono perfettamente intelligibili se li si legge
attraverso il convergere di queste tre istanze, mentre l’intero processo
è del tutto incomprensibile se davvero la ‘salvezza’ della Grecia come
nazione e come popolo fosse stata al centro dell’iniziativa.
Tale
processo, tuttavia, ha richiesto un abbellimento narrativo, fornito
appunto dall’immagine dell’aiuto fraterno tra popoli, che si sacrificano
per i loro confratelli in difficoltà, mentre la sostanza
dell’operazione è stato un colossale trasferimento di oneri dal settore
privato a quello pubblico, pagato con i soldi dei contribuenti europei e
con gli stenti della popolazione greca. Naturalmente, come sempre,
l’unico modo per non smentire una menzogna è continuare a fornire
interpretazioni coerenti con essa. Così, al peggiorare della situazione
greca e a fronte di sempre più ingenti esborsi della ‘comunità
internazionale’, si è accentuata la lettura ‘nazionale’ della vicenda,
scrollando il capo di fronte all’insufficienza delle riforme greche ed inorridendo di fronte alla ‘ingratitudine’ del popolo greco
che, dopo aver tanto ricevuto, osava votare un partito e un referendum
che rigettavano in toto la generosa strategia europea. L’opinione
pubblica europea (e tedesca in particolare) è imbevuta di questa
lettura.
6. Chi sono i ‘cattivi’ in questa storia?
Un
resoconto narrativo di vicende umane esige, per essere intelligibile,
di poter indicare le responsabilità di atti ed esiti. E così è avvenuto
anche per la narrazione della crisi ellenica. Qui i Greci (così come i
loro cugini meridionali, Italiani, Spagnoli, Portoghesi) sono stati
presentati come le proverbiali cicale della fiaba, in difficoltà per
aver vissuto al di sopra dei propri mezzi, a confronto con le virtuose
formiche del Nord Europa. Ciononostante, i cugini più fortunati erano
disposti ad aiutare le cicale, nella fattispecie greche, purché esse
promettessero di ravvedersi e mostrassero con comportamenti di austerità
economica di aver capito la lezione. Questa fiaba è percolata con
variazioni nei media, offrendo una chiave interpretativa all’altezza
degli stereotipi culturali e delle esigenze di semplificazione dei meno
accorti.
Così, troviamo il ministro delle finanze spagnolo de
Guindos lamentare come la Grecia abbia ricevuto centinaia di miliardi
dall’eurozona, inclusi 26 miliardi dalla generosa Spagna, in modo da
“pagare i propri dottori, la propria polizia, i propri pensionati.”
Oppure troviamo l’ineffabile primo ministro italiano Renzi, che
bacchetta l’omologo Tsipras per “pensare di essere il più furbo, non
rispettando le regole” e lamenta che “noi abbiamo fatto la riforma delle
pensioni, ma non è che abbiamo tolto le baby pensioni per lasciarle ai
greci.” Inutile, naturalmente, ricordare a de Guindos che solo poco più
di un decimo dei soldi prestati dall’eurozona sono serviti a pagare le
attività dello stato greco. O a Renzi che di riforme delle pensioni in
Grecia ne hanno fatte due draconiane in tre anni, tagliando gli importi
delle pensioni tra il 42 e il 48%, e consentendo la pensione anticipata
solo per lavori usuranti o con penalizzazioni (il mitico baby-pensionato
greco può andare sì in pensione, ad esempio, a 60 anni, ma con il 53%
della pensione finale).
Il problema, qui, va al di là della scarsa
lucidità di questo o quel figurante politico. Il vero tema consiste
nella propensione a cadere in quella patetica versione degli eventi,
all’altezza del teledipendente medio, dove ci si mette a gareggiare su
chi sia stato più bravo a imporre mutilazioni alla propria cittadinanza.
Questa visione, coerente con l’esegesi fornita inizialmente dai
creditori internazionali, è al contempo una copertura ideologica e una
bomba ad orologeria nelle relazioni europee. Infatti, questa lettura
delle relazioni economiche internazionali, in termini di virtù o vizi
nazionali, è proprio ciò che sta portando a tappe forzate l’Europa a
schiantarsi ancora una volta sugli scogli delle ostilità nazionaliste. È
dallo scoppio della crisi che questa lettura, non solo per il caso
greco, è divenuta dominante. Ciò porta i cittadini greci e guardare ai
tedeschi come aguzzini. Ma poi anche i cittadini tedeschi (che hanno
salari calmierati da quindici anni) a guardare ai greci (o agli
italiani) come fannulloni e palle al piede. E poi di seguito i
finlandesi a guardare con disprezzo gli spagnoli, gli spagnoli con
sufficienza i portoghesi, i portoghesi con rabbia agli irlandesi, ecc.
ecc.
Questo quadro interpretativo, plastico, suggestivo, di facile
comprensione e totalmente stupido può disinteressarsi facilmente dei
dati di realtà. Che, come registrato da uno studio della London School of Economics
di qualche anno fa, il lavoratore greco medio lavori circa seicento ore
l’anno più di un lavoratore tedesco medio non si adatta alla cornice
epistemica fornita, e dunque viene rimosso. L’idea da Bar Sport che la produttività
del lavoro in una nazione moderna sia correlata essenzialmente allo
sforzo individuale è, di nuovo, una semplificazione troppo ghiotta per
metterla a repentaglio con banali dati di realtà. (Naturalmente la
produttività nei sistemi industriali moderni dipende principalmente dai
fattori di organizzazione della produzione e dallo sviluppo tecnologico e infrastrutturale: è per questo che i Bill Gates nascono in USA e non in Gabon).
Da
tutto ciò, ovviamente, non si tratta di concludere né che i Greci siano
cicale e i Tedeschi formiche, e neppure, che i Greci siano vittime e i
Tedeschi carnefici. Quello che stiamo cercando di dire è che in tutta
questa vicenda, come più in generale in tutti i recenti sviluppi della
crisi economica, la lettura dei fatti lungo il crinale divisorio di confini, identità e caratteri nazionali
è una sciocchezza, una sciocchezza molto pericolosa. Come vedremo
meglio a breve, i ‘colpevoli’ non hanno una nazione preferenziale di
appartenenza, ma appartengono trasversalmente alle élite
economiche, strutturalmente transnazionali, di tutti i paesi, e ai loro
bracci politici nazionali. Certo, esaminare le cose in quest’ultima
ottica è tecnicamente più faticoso e molto meno intuitivo. Ma indugiare
ancora nella linea di opposizione ‘tra nazioni’, perché più
comprensibile, sarebbe fare come quell’ubriaco che, perduta la chiave
lungo la via, la cerca sul marciapiede davanti casa: ‘perché almeno là
c’è un po’ di luce’.
7. La Grecia e le lezioni sull’azzardo morale
I
‘Greci’ non sono innocenti. Così come non lo sono gli ‘Italiani’, o gli
‘Spagnoli’, ecc. Quando all’inizio della crisi greca venne sollevato il
problema dell’azzardo morale, questo argomento, brandeggiato
soprattutto dalla classe politica tedesca, sembrava poter avere un
senso. È infatti sensato non lasciare impunito un abuso (come
l’indebitamento fraudolento dello stato greco), altrimenti altri
potrebbero essere incoraggiati a giocare di nuovo d’azzardo con le
finanze del proprio paese, sapendo che poi non ne pagheranno lo scotto.
C’è
qui, tuttavia, un problema non trascurabile. Una volta che cominciamo a
parlare di colpe e di lezioni da impartire, se non vogliamo limitarci
alla retorica, è indispensabile individuare quali colpe e quali
colpevoli. Se la lezione contro l’azzardo morale è impartita ai
soggetti sbagliati non può avere alcuna efficacia. Questo significa che
non basta ammettere che ci sono colpe in Grecia (o in Italia, Spagna,
ecc.), ma è necessario anche capire chi è colpevole in Grecia (e Italia, Spagna, ecc.).
Quando
illustri commentatori ripetono ai cittadini greci (e italiani,
spagnoli, ecc.) che essi avrebbero “vissuto al di sopra delle proprie
possibilità” e che sarebbe dunque “venuto il momento di stringere la
cinghia” o magari “di fare i compiti a casa”, credo che un congruo
numero di questi cittadini, di norma pacifici, reprima a fatica impulsi
violenti. Esattamente, chi sta dicendo questo a chi? Per dire, avevano vissuto al di sopra delle proprie possibilità quei greci, quasi un terzo
della popolazione, che, nel 2004, l’anno di maggiore crescita e
maggiore spesa statale, vivevano sulla o sotto la soglia di povertà?
Ma
forse, allora, la Grecia sarebbe semplicemente un ‘paese povero’? Beh,
qui la cosa si fa interessante, giacché non è facilissimo pensare ad un
paese senz’altro come povero quando, per dirne una, con 11 milioni di
abitanti ha la più grande flotta commerciale del mondo (più del Giappone e della Cina, rispettivamente seconda e terza).
Chi
conosce la realtà greca sa che si tratta, e non da oggi, di un paese
con una forte forbice sociale e con un ruolo preponderante giocato da
un’oligarchia di grande potere, economico, mediatico e politico,
oligarchia che si è adoperata nel tempo per bloccare sul nascere ogni
tentativo di riforma che potesse toccare i propri interessi. Capita così
che in Grecia, a tutt’oggi, ogni tentativo di giungere ad un’asta delle
frequenze televisive tra le numerose emittenti private sia stato
impedito; o che dal 1967 sia parte della Costituzione greca il principio
per cui i guadagni internazionali degli armatori non pagano tasse in
patria, ecc.
Naturalmente nel gioco del clientelismo e del nepotismo, funzionale a chi può giocare il ruolo del patronus, c’è sempre una controparte che si colloca nel ruolo del cliens,
così come nella corruzione a fronte di un corruttore ci dev’essere
qualcuno che si lascia corrompere. Dunque, in una società in cui
un’oligarchia economica esercita un elevato potere in forme lontane da
ogni trasparenza democratica, scarsi sono gli incentivi a liberarsi da
clientelismo, corruzione e, di conseguenza, dall’inefficienza
amministrativa e fiscale. In un simile paese ci devono essere molti
colpevoli. Molti, ma non tutti, e soprattutto non egualmente colpevoli.
Inutile sottolineare come il medesimo discorso potrebbe essere fatto per
l’Italia.
Al di fuori della Grecia nomi come Yiannis Alafouzos,
Vardis Vardinoyannis, George Bobolas, Stavros Psycharis, Michalis
Sallas, Spiros Latsis, Dimitris Copelouzos, ecc. dicono poco, salvo che
agli addetti ai lavori. Qui basti notare come questi personaggi
possiedano, oltre alle rispettive ubertose attività economiche
(petrolio, oro, navi, turismo) la quasi totalità dell’apparato mediatico
greco. Niente si è mosso in Grecia sul piano politico fino a tempi
recenti che non fosse supportato da questi oligarchi. E peraltro la
natura chiusa e ‘dinastica’ del tradizionale bipartitismo greco è nota:
il debito 2004-2009 è stato accumulato dal governo di Kostas Karamanlis,
figlio di Kostantinos Karamanlis, già primo ministro greco per 15 anni e
presidente della Repubblica per 10; al lato opposto dell’emiciclo il
cerino del debito è stato rilevato nel 2009 dal governo di George
Papandreou, figlio di Andreas Papandreou, già primo ministro greco per
13 anni e figlio a sua volta di Gyorgos Papandreou, capo del governo
greco in esilio nel 1944.
Ma, ora, senza voler entrare nei
dettagli della gestione del potere in Grecia, c’è una domanda cruciale
che deve essere sollevata. A fronte di queste responsabilità e
colpe, diffuse, ma certamente in proporzioni ampiamente difformi, come
opera e come ha operato la ‘lezione riformatrice’ della Trojka? La
risposta è drammaticamente semplice: il tipo di interventi richiesti
dalle istituzioni europee non sfiorano né gli oligarchi greci, né il
loro ceto politico di riferimento, esattamente come gli interventi di
austerity imposti a Italia, Spagna, ecc. sono caduti sulle spalle dei
ceti medi e popolari, mentre al contempo le élite hanno
continuato ad accrescere la propria ricchezza, anche negli anni di
peggior crisi internazionale. (Per dire, in Italia sei anni fa il 10%
più ricco della popolazione aveva il 44,3% della ricchezza nazionale,
oggi è il 45,9%; e limitandosi ai capitali ufficialmente registrati.)
Come si ricorderà, peraltro, nei colloqui col FMI era emerso
precisamente come i rappresentanti della ‘confindustria’ greca
sostenessero pienamente il programma di interventi della Trojka, che
venivano, giustamente, visti come un problema del settore pubblico.
Così,
se cambiamo un po’ la prospettiva, e non ci lasciamo ipnotizzare dalle
linee di distinzione nazionali, vediamo come le varie lezioni
sull’immoralità del debito, la salubrità del rigore, e la necessità di
evitare l’azzardo morale siano sfacciate distorsioni della realtà.
Nessuna lezione morale o economica viene mai impartita da questo tipo di
interventi, per il semplice motivo che essi non colpiscono chi
ha prodotto il danno, che può serenamente riprovarci la prossima volta.
Anzi, imporre politiche restrittive ai popoli (la specialità della casa
del FMI) è un modo raffinato per garantire l’immunità da spiacevoli
conseguenze alle oligarchie, che grazie alle caratteristiche peculiari
della ricchezza finanziaria moderna non sono vincolati alle sorti di un territorio e della sua gente.
Per dirla in modo semplice: in tutto il mondo, durante la crisi
(innescata dalla frenetica ricerca di profitto finanziario), chi vive
del proprio lavoro ha pagato il conto lasciato sulla tavola da chi vive
prestando il proprio denaro. E il tutto all’insegna dell’imperativo
morale che ‘bisogna pagare i propri debiti’.
8. Riforme, quali riforme?
Cominciamo
così ad avvicinarci alle questioni cruciali, quelle questioni che fanno
della vicenda greca un paradigma delle relazioni odierne tra stati,
popoli e potere economico (finanziario). Come abbiamo detto, gli
interventi richiesti dai creditori internazionali, nonostante le
pretese, non colpivano i responsabili della crisi greca, scaricandosi su
lavoratori e pensionati. In questi anni, in Grecia ma non solo, si è
fatto un gran parlare della necessità per i paesi colpiti dalla crisi
2007-2008 di ‘fare le riforme’. E la parola ‘riforma’ è invero
un’espressione che ispira un senso di rinnovamento e palingenesi.
‘Riforma’ nomina qualcosa come un ‘cambiamento nel modo di fare le
cose’, dunque dovrebbe indicare modifiche prodotte seguendo le migliori
pratiche internazionali, mutamenti delle tecniche organizzative,
aggiornamenti infrastrutturali, tecnologici, formativi, ecc.
Già. E
ora guardiamo per un momento a quale sia stato il contenuto delle
‘riforme’ condizionalmente richieste dalla Trojka alla Grecia. Si
tratta, nella quasi totalità, di richieste che vanno testardamente in
sole tre direzioni: 1) compressione della spesa pubblica, 2) riduzione
del potere contrattuale della forza lavoro e 3) riduzione del perimetro
dello stato (privatizzazioni). E tutto questo da implementare avendo
come stella polare sempre soltanto certi obiettivi di budget.
Ora,
anche se tutto avesse funzionato per il meglio e la Grecia avesse
ripreso a crescere, ricette del genere tutto possono dirsi tranne
‘riforme’. Tali ricette (che sono più o meno le medesime ovunque nel
mondo, come si vede seguendo le ‘condizionalità’ imposte dal FMI) si
disinteressano nel modo più smaccato dell’unico aspetto che le
renderebbe degne di chiamarsi riforme, cioè un miglioramento della funzionalità degli stati.
Se prendiamo il caso greco, vediamo come le questioni, universalmente
note, che avevano condotto agli attuali problemi dell’economia greca
erano: una pubblica amministrazione inefficiente, un’evasione fiscale
fuori controllo, un sistema oligarchico-clientelare pervasivo, e, di
fondo, un sistema formativo scadente e in gran parte appaltato a
privati. Questi problemi strutturali poi sfociavano in sprechi,
inefficienze, prebende, bustarelle, sovrapprezzi, ecc.
Di fronte a questo quadro, certamente non ignoto ai competentissimi tecnici di BCE e FMI, gli interventi non hanno mai
neppure preso in considerazione la possibilità di imporre, per dire,
diversi sistemi di selezione ed organizzazione della pubblica
amministrazione (che in Grecia consente ancora l’ingresso senza neppure
un concorso pubblico), tecniche di tracciabilità e controllo di evasione
ed elusione fiscale, riduzione delle posizioni dominanti e dei
privilegi degli oligarchi, ecc.
Qualcuno, di primo acchito,
potrebbe essere tentato di rispondere che richieste del genere non
sarebbero ammissibili perché violano la sovranità di un paese. Ma
naturalmente una tale obiezione sarebbe ridicola, visto che le
‘condizionalità’ imposte dalla Trojka sono giunte sino a livelli estremi
di invasività nel dettaglio, imponendo peraltro anche violazioni di
‘diritti acquisiti’. No, la ragione di questo orientamento è al tempo
stesso più semplice e più profonda: si tratta di uno specifico
orientamento politico, camuffato da intervento tecnico.
Nell’orientamento politico che guida queste scelte vige un’idea di
fondo, di matrice liberista, per cui, molto semplicemente, una riduzione
dei poteri dello stato ed un ampliamento dello spazio per relazioni di
mercato deregolamentate sono sempre desiderabili e conducono alla
crescita. Avendone il tempo, sarebbe interessante spiegare come buoni
risultati in termini di crescita economica (PIL) non equivalgono affatto
di per sé a un miglioramento complessivo delle condizioni di vita in un
paese. Ma il caso greco ci consente di disinteressarci di questo
argomento, giacché qui siamo di fronte ad un clamoroso fallimento anche
in meri termini di PIL. Il caso greco è paradigmatico perché mostra come
anche di fronte alla prova provata di un fallimento, persino secondo
gli obiettivi miopi che guidano le condizionalità della Trojka, nessuna
spinta ad adottare strategie diverse riesce a trovare ascolto.
Sarebbe
stato bello, per dire, se nello stesso modo in cui la Trojka ha fatto
ripetutamente la faccia feroce per ottenere tagli a pensioni o
privatizzazioni, una volta, una volta soltanto, si
fosse detto: “Dovete mettere assolutamente ordine nel vostro sistema di
esazione fiscale! Avrete tutto il nostro supporto tecnico e politico, ma
senza il raggiungimento di questo obiettivo non potrete giovarvi della
prossima rata di prestiti!” Curiosamente niente del genere è mai
accaduto.
E d’altro canto, senza voler eccedere in malizia,
verrebbe da chiedersi: personaggi come Jean-Claude Juncker, che ha
coperto 548 accordi segreti con aziende multinazionali in Lussemburgo in
regime di agevolazione fiscale estrema (tassazione a meno dell’1%)
potrebbero mai fare la voce grossa per ottenere trasparenza fiscale
in Grecia? Il problema, naturalmente, è che mentre si possono colpire i
lavoratori greci senza necessariamente toccare quelli lussemburghesi o
italiani, è impossibile affrontare l’evasione ed elusione fiscale greca
(o italiana) senza mettere sul piatto la sorveglianza internazionale sui
movimenti di capitale (inclusa la gaia movimentazione finanziaria delle
lobby vicine a Juncker in Lussemburgo, a Lagarde in Francia, ecc.),
sorveglianza che nessuno degli oligarchi europei vuole.
Di
passaggio: qualcuno forse ricorderà ancora le parole dell’allora primo
ministro Mario Monti, nel novembre del 2012, quando menzionò
l’opportunità di una tassa patrimoniale per affrontare la grave crisi
italiana. Dopo un breve soprassalto di entusiasmo nelle fila della
sinistra, il tema venne però rinviato ad un futuro indefinito, in
quanto, si disse, “purtroppo, in Italia non abbiamo ancora una vera
anagrafe patrimoniale”, cui però, si garantiva, “il governo sta
lavorando” (??). Traduzione per i non addetti ai lavori:
E
se qualcuno pensasse ingenuamente che questi sono maccanismi
idiosincratici della realtà italiana, basterebbe qui ricordare la
reazione degli armatori greci di fronte alla possibilità che i loro
privilegi fiscali fossero tolti: la risposta di Theodore Veniamis,
presidente dell’Unione Greca degli Armatori, ai primi cenni di
tale proposta fu semplice, ricordando come esistano altri paesi che
offrono condizioni fiscali competitive e che sarà sufficiente registrare
le proprie navi altrove.
Il problema della competizione fiscale al ribasso, sotto il ricatto di delocalizzazioni, spostamenti di sede legale o deflusso di capitali,
è uno dei problemi cruciali per l’esistenza di tutti gli stati europei.
È del tutto ovvio che la tendenza costante di queste pratiche è
l’erosione inesorabile della base fiscale che può consentire la
sopravvivenza degli stati. Ora, una delle principali ragioni a sostegno
dell’esistenza di un’Unione Europea doveva essere proprio la possibilità
di disporre di un organismo politico-economico con una massa critica
abbastanza grande da poter imporre limiti e condizioni a queste
pratiche. In assenza di tali vincoli, la trasferibilità di capitali e
aziende, ovunque le condizioni regolative e fiscali siano vantaggiose,
di fatto riduce drasticamente il carico fiscale su grandi patrimoni
liquidi e aziende transnazionali, scaricandolo su lavoratori e patrimoni
(casa) vincolati a sedi territoriali.
Così, nel corso della crisi
finanziaria, in Grecia e altrove, il ‘grande capitale’ transnazionale
ha manifestato i suoi rapporti nei confronti degli stati democratici in
tre forme: 1) trasferendo i propri debiti sugli erari pubblici in
occasione di crisi degli istituti di credito (ricapitalizzazioni e
salvataggi bancari); 2) sottraendosi ad un’equa tassazione, col ricatto
agli stati per ottenere condizioni fiscali di favore; 3) esercitando il
proprio potere contrattuale (la minaccia di trasferirsi) per comprimere i
diritti del lavoro. In questo quadro, a fronte delle richieste
moraleggianti alla popolazione greca, o italiana, spagnola, ecc. di ‘far
fronte ai propri debiti’, credo esista un’unica risposta moralmente giusta.
Fino a quando l’Unione Europea non porrà termine alla capacità di
capitali e aziende transnazionali di sottrarsi ad un’equa tassazione e
di ricattare gli stati, chiedere ai cittadini europei di onorare i propri debiti pubblici è semplicemente una richiesta indecente.
Il
caso greco è paradigmatico. In questo caso (non unico, ma il più
radicale in EU), il ‘free riding’ privato ha pervaso la sfera pubblica,
trasformando anche parte significativa di ciò che nominalmente è
un’attività pubblica in affare privato (corruzione e clientelismo sono
precisamente questo: forme di privatizzazione, non ufficiale e non
trasparente, del servizio pubblico). Rispetto ad un problema del genere
la risposta fornita dalle condizionalità della Trojka è manifestamente
insensata, chiedendo un semplice assottigliamento del settore pubblico,
non una sua riforma. Se infatti è vero che l’aumento di spesa pubblica in un settore non
garantisce che esso migliori i servizi che eroga, è non meno vero che,
in assenza di autentiche riforme (di organizzazione, infrastrutture,
selezione del personale, ecc.) una semplice riduzione della spesa peggiora
la capacità di fornire i relativi servizi. In presenza di una
progressiva compressione della spesa, riforme migliorative sono
impossibili, perché una riforma autentica richiede la partecipazione del
personale coinvolto, con collaborazione e impegno di rinnovamento,
mentre la semplice prospettiva di tagli e restrizioni induce un
meccanismo mors tua vita mea in cui il ricorso alle vecchie leve clientelari torna più utile che mai.
Gli
interventi imposti (in altri paesi sono solamente ‘suggeriti’) dalla
Trojka si disinteressano di un’autentica riforma dello stato, ma mirano
solo ad una progressiva riduzione di competenze pubbliche. Tale processo
è peraltro gestito fissando obiettivi di budget e non dunque
adattandolo alla realtà produttiva dello specifico paese. Esemplari in
questo senso alcuni processi, evidenti in Grecia, ma diffusi anche in
molti altri paesi (inclusa l’Italia). Ad esempio, le privatizzazioni
vengono imposte con urgenza, con l’intento di ‘fare cassa’. Ciò conduce
regolarmente ad una svendita degli asset statali che sempre,
senza eccezioni, rendono meno di quanto preventivato, per l’ovvia
ragione che in una vendita forzata, i compratori ottengono una posizione
migliore per esercitare il proprio potere contrattuale. O ancora, i
processi di indebolimento del potere contrattuale della forza lavoro
hanno come effetto collaterale di frammentare il mercato del lavoro,
rendendolo meno controllabile anche per il fisco. In Grecia la
cancellazione della contrattazione collettiva e la drastica riduzione
del salario minimo hanno allargato a dismisura il bacino del lavoro
sommerso, abbattendo così ancora i contributi previdenziali e rendendo
il sistema pensionistico insostenibile, nonostante i tagli.
9. La questione greca come battaglia politica europea
Nei
recenti sviluppi della crisi greca un punto è emerso con chiarezza: la
natura profondamente politica dei giudizi ‘tecnici’ formulati dalla
Trojka. È difficile non restare perplessi pensando a come la proposta
del governo Tsipras del 24-25 giugno sia stata giudicata inaccettabile,
con la motivazione di “non garantire gli obiettivi di budget”,
dopo che, senza eccezioni, tutti gli obiettivi di budget fissati dalla
Trojka nei sei anni precedenti erano falliti. Ed è ironico che la
Trojka, dopo aver trattato senza nessuna remora con i partiti che
avevano portato il paese al default, truccando ripetutamente i resoconti
finanziari, abbia trovato così arduo dare fiducia alla prima
forza politica della recente storia greca che non fosse strutturalmente
collusa con l’establishment oligarchico-clientelare.
Solo pochi
ingenui possono non vedere come l’intransigenza europea degli ultimi sei
mesi sia direttamente proporzionale alla portata politica (e simbolica)
della piattaforma su cui Syryza aveva vinto le elezioni. Senza una
genuflessione del governo greco la disponibilità politica dei paesi
dell’eurozona è prossima a zero. Solo la storia ci dirà se lo scandaloso
‘accordo’ del 12 luglio sarà un punto di svolta (o in che senso lo
sarà), ma la lezione che è importante trarne ha una portata più generale
e duratura.
Il muro politico creatosi nei confronti del governo
Tsipras non è soltanto un muro contro le ‘politiche anti-austerity’. Il
vero insulto all’establishment europeo è venuto da Syryza proprio per la
sua estraneità a quel mondo dei ‘gentlemen’s agreement’ alle spalle dei lavoratori europei che ha caratterizzato la politica europea degli ultimi 10-15 anni (Partito Socialista Europeo
incluso). Syryza, nel nome di una tradizione socialista, neppure
particolarmente radicale, ha formulato proposte che mettevano in campo
la necessità di rinforzare il ruolo di una politica pubblica e
democratica, in Grecia ed in Europa, a fronte di élite
politico-finanziarie tanto influenti, quanto mai imputabili e sempre
inafferrabili. Dunque Syryza, non senza ingenuità, ha fatto notare che
‘il re è nudo’ e che il ‘sogno europeo’ si è smarrito introiettando un
modello per cui la semplice tutela dei creditori (cioè dei detentori di
capitale) coinciderebbe con la buona gestione degli stati. E a ciò
l’establishment europeo ha reagito con stizza, quando non con rabbia e
persino con l’insulto (il linciaggio morale cui è stato sottoposto l’ex
ministro Varoufakis è esemplare.) Le istituzioni internazionali, come
l’FMI, non hanno mai avuto nessuna difficoltà a trattare con governi
autoritari, con violatori dei diritti umani, dittatori, ecc., ma dover
trattare con qualcuno che metteva in dubbio il sistema di mitologemi
politico-economici su cui si è costruita la recente Europa monetarista,
questo era davvero chiedere troppo. Così, sin troppo ovvio è stato il
tentativo di disarcionare il governo Tsipras rifiutando una dilazione di
sei giorni dei prestiti in occasione del referendum, e per quanto il
tentativo sia scoppiato in faccia a chi lo aveva promosso, dovremo
ricordarlo a lungo quando sentiremo le perorazioni circa i ‘valori
democratici’ promossi dall’Unione Europea.
L’europeismo, di cui
Syryza si è voluta fare promotrice e simbolo, nonostante la debolezza
della propria posizione contrattuale, non è nulla di inedito o bizzarro.
Essa corrisponde al modello originario del ruolo dell’Europa unita.
L’idea di un’unione europea nasce infatti con l’idea che fosse
necessario creare un aggregato politico che bilanciasse il potere
contrattuale incontrastato degli USA (oggi anche della Cina).
Raggiungendo una certa massa critica in termini economici e politici,
un’unione di paesi europei avrebbe potuto contrattare sul piano
internazionale condizioni (diritti del lavoro, difesa ambientale, ecc.)
che tutelassero le condizioni di vita dei propri cittadini, condizioni
che i singoli stati isolati non sarebbero stati in grado di imporre in
un mercato globalizzato. Ma nel mutato panorama della politica odierna
quel progetto politico non appare più alle dirigenze europee come un
progetto di buon senso democratico, ma come un progetto segnato con lo
stigma dello ‘statalismo’ e del ‘socialismo’, dunque qualcosa che per le
nuove élite europee suona obsoleto e pericoloso allo stesso tempo.
Sperare che un singolo partito, di un paese piccolo e sotto scacco,
possa imporre da solo questa agenda politica all’Unione Europea è
sciocco e velleitario. Ma questa potrebbe forse essere l’occasione per
richiamare i cittadini europei a svegliarsi dal sonno della ragione in
cui paiono caduti e a chiedere non tanto e non solo di ‘aiutare i
fratelli greci’, ma di sottrarre tutti i cittadini europei al ricatto di
debitori con cui ben pochi hanno mai avuto il dubbio onore di contrarre
un debito.
Conclusione
Riassumendo,
la vicenda greca rappresenta il test di collaudo, finito
disastrosamente, dell’Unione Europea come unione monetaria. Si è
costruito un modello europeo incentrato sulla sola stabilità della
moneta e sulla saldezza degli ordinamenti finanziari, lasciando in tutti
gli altri ambiti i paesi europei a competere su base nazionale. La
responsabilità per l’adozione di questo modello ricade, a pari ‘merito’,
sulle classi dirigenti tedesche, che hanno imposto una BCE come alter
ego della Bundesbank, non meno che sulle classi dirigenti
francesi, che hanno ostacolato in tutti i modi ogni progetto di
devoluzione dei poteri nazionali al Parlamento Europeo. Il risultato è
stato un’organizzazione sovranazionale forte con i deboli e debole con i
forti, dove l’Europa ha presentato ai propri cittadini il solo volto di
tutore del rigore finanziario, senza uno straccio di politica
industriale o sociale comune, e senza mostrarsi in grado di difendere né
lo stato sociale europeo, né la cultura europea.
Nella
fattispecie greca, il fallimento politico europeo può essere
sintetizzato in cinque passi: le istituzioni europee 1) dapprima hanno
mancato di esercitare i dovuti controlli per l’ammissione della Grecia
nell’unione monetaria; 2) poi hanno consentito la speculazione delle
banche private internazionali senza un’adeguata regolamentazione
finanziaria; 3) in seguito sono intervenute per salvare quelle stesse
banche a scapito dei debiti pubblici; 4) indi hanno esercitato sotto il
nome di ‘riforme’ una sorta di attività di strozzinaggio internazionale,
senza mettere in campo nessun intervento anticiclico; 5) e infine alla
prima seria difficoltà hanno rivelato la priorità di uno spirito competitivo tra opportunisti economici
(e non collaborativo tra soggetti politici) giungendo ad una
sconcertante esibizione finale di egoismi nazionali (il caso della
distribuzione dei migranti ne è un sintomo palese).
Dall’Europa
del Manifesto di Ventotene e degli ‘Stati Uniti d’Europa’ all’Europa
rancorosa, provinciale e ottusa di Wolfgang Schäuble e Marine Le Pen, la
disillusione avrebbe difficilmente potuto essere maggiore.
Fonte Mimemis Scenari
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