di Andrea Colombo
Vincono Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Perde il servizio pubblico, perde la Rai, perdono gli spettatori ma anche i professionisti che sognano un televisione moderna, ben fatta, competitiva nel mondo.
Esce a testa alta l’M5S, che con la nomina di Freccero ha dato la miglior prova da quando frequenta il Parlamento, e non se l’è cavata male, compatibilmente con le esigue forze, Sel. Esce umiliato e disilluso chiunque avesse concesso un minimo di credito allo «statista» fiorentino, tanto da sperare che allentasse almeno la presa ferrea dei partiti su quella che da sempre considerano una vigna di famiglia. Cosa loro.
Da ieri pomeriggio la Rai vanta un nuovo direttore generale. Lo ha nominato senza intoppi di sorta il Cda, trovando di sfuggita anche il tempo per sostituire la presidente Maggioni alla guida di Rainews 24 con la sua vice, Mirella Marzoli. Il direttore, che si trasformerà presto in amministratore delegato, si chiama Antonio Capo Dall’Orto, ha molta esperienza di televisione, nessuna di Rai e servizio pubblico: c’è una qualche differenza.
Dicono che se la cavi benissimo nel maneggiare i bilanci, e c’è da sperare che sia vero dato che dopo il varo della riforma avrà mano più libera di chiunque prima di lui nel manovrare fondi e capitali. Quando quella che pomposamente Renzi definisce una riforma, mentre è solo una modifica autoritaria della governance, sarà approvata, l’ex direttore di Mtv avrà poteri paragonabili a quelli di cui disponeva l’onnipotente Ettore Bernabei nella mamma Rai scudocrociata.
Con qualche differenza: Bernabei doveva rispondere a un partito plurale, ricco di anime diverse, e non solo a quell’Amintore Fanfani che lo aveva incoronato. Anche per questo, pur essendo conclamato e orgoglioso uomo di partito, riuscì a fare una televisione che oggi ce la sognamo. Dall’Orto dovrà rendere conto soltanto a un singolo leader, che ha già trasformato il partito di cui è segretario in massa di manovra a uso personale, e per fortuna c’è una minoranza che conta un po’ meno di zero, come ha dimostrato di nuovo in questa occasione, ma dà almeno l’impressione che il capo guidi un partito e non una privata compagnia di ventura.
A controbilanciare i poteri del proconsole sarà una quotata giornalista che deve la nomina alla convergenza di interessi tra il signore di Firenze e quello d’Arcore, Monica Maggioni.
E’ possibile che dia prova migliore del previsto, ma è legittimo temere che dimostrerà la stessa autonomia e indipendenza di giudizio di cui menava vanto quando raccontava la guerra al seguito della truppa e su indicazione degli stati maggiori. Quella dell’ «embedded» è una vocazione. Neppure i precedenti ai piani alti di viale Mazzini autorizzano troppe speranze: come direttrice di Rainews24 è stata un disastro, in termini di qualità e anche di ascolto bruto.
Lo dice sul blog di Beppe Grillo Massimo Lafranconi, e poco male, si sa che quelli gufano. Lo dicono anche i dati a precipizio dello share, ed è un po’ peggio.
A fianco della presidente targata Nazareno ci sarà un drappello di consiglieri d’amministrazione calibrati con un bilancino tanto millimetrico da far risaltare l’antico Cencelli come modello di autonomia dalla politica. Tra i magnifici nove qualche professionista capace c’è, ma è una coincidenza e comunque non è a quelle doti che deve la nomina.
Però c’è lo spin doctor di Renzi, Guelfo Guelfi, per non parlare di Rita Borioni, sino a poche ore fa assistente del presidente della comissione Cultura del Senato, una vita sinora spesa e guadagnata lavorando con i gruppi parlamentari del Pd, più qualche esperienza peregrina nella televisioncina del Pd, Red-Tv. Non sa cosa sia Sky, persino disquisire di digitale terrestre la mette in difficoltà, però è «una professionista, mica un’astrofisica o una girotondina».
Parola di Matteo Renzi e viene quasi voglia di applaudire perché una faccia di bronzo tanto spudorata nemmeno Silvio il Gran Maestro.
Il medesimo Maestro viene giustamente dato ovunque per risorto. Dalla partita Rai è uscito con le tasche piene, e non solo metaforicamente. La «riforma» di Renzi conferma il duopolio, e poco male se quell’assetto è ormai una gabbia che costringe la televisione italiana a restare sugli spalti, senza nemmeno poter partecipare alla competizione internazionale.
L’ex Cavaliere ha mietuto successi anche sul fronte, certo di minore importanza ma non per questo trascurabile, della politica propriamente detta, e non solo perché incamera a sorpresa due consiglieri d’amministrazione, in virtù dell’imperizia di una minoranza Pd che avrebbe potuto facilmente eleggere un consigliere lavorando di conserva con le opposizioni. Il piatto forte è l’aver usato la ghiotta occasione per tornare in campo come interlocutore privilegiato del governo, anzi del governante unico, che gli altri non contano.
Non si tratta della resurrezione del Nazareno, come da vulgata giornalistica. Fi non rientrerà in maggioranza dietro la maschera di un’opposizione inconsistente, come nei mesi precedenti al fattaccio Mattarella. Non voterà per la riforma costituzionale, a meno che Renzi non conceda in cambio una modifica dell’Italicum con lo spostamento del premio di maggioranza dalla lista alla coalizione, ed è un’ipotesi fra le più improbabili.
Però da ieri gli ex soci non si guardano più in cagnesco, su qualcosa il dialogo potrà riprendere, l’opposizione azzurra sarà, se non sempre morbida, almeno modulata. Il che potrebbe tornare prezioso quando don Matteo giocherà in autunno la vera carta su cui punta per invertire la tendenza in picchiata negli indici di popolarità: un bel taglio delle tasse, per finta. Anche qui, Berlusconi docet.
Fonte: il manifesto
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