di Giovanni Stinco
Fu il sindaco del 2 agosto 1980, colui che seppe tenere unita
Bologna di fronte alla bomba neofascista che portò morte
e distruzione in stazione. Ma fu anche il sindaco del muro contro
muro col movimento, del ’77, della morte di Francesco Lorusso e dei
carri armati che arrivarono in città. E ancora, fu il sindaco che,
prima volta in Italia, diede a un’associazione lgbt uno spazio
pubblico, e che seppe dare gambe al welfare bolognese, basti pensare
che un anno prima del suo insediamento come primo cittadino sotto
le Due Torri aprì il primo nido italiano. Un’esperienza che poi si
impose in tutto il paese. Fu questo e tanto altro Renato Zangheri,
sindaco di Bologna tra il 1970 e il 1983, anni complicati
e insanguinati dalle bombe e dagli attentati. Renato Zangheri
è morto ieri, all’età di novant’anni.
«A lui, uomo delle Istituzioni — ricorda il sindaco di Bologna
Merola – la città deve moltissimo per essere diventata modello nella
crescita del welfare come motore di giustizia sociale, per aver
valorizzato il decentramento come strumento di relazione costante
coi cittadini e per aver rappresentato il volto migliore delle
istituzioni negli anni del terrorismo, come nel 2 agosto del 1980
quando rappresentò una città ferita e capace immediatamente di
reazione, civile nei soccorsi, ferma nella richiesta di giustizia».
A piangere la sua morte le istituzioni, i sindacati, la politica.
Di lui il Presidente della Repubblica Mattarella ha ricordato
«l’esemplare impegno» l’attività di studioso e intellettuale.
«Era un grande politico, un uomo di visione, lucido, freddo, capace
di stare un gradino più in un alto rispetto ai poteri economici»,
sottolinea Mauro Zani, suo compagno di partito per decenni e, come
lui, protagonista della politica bolognese. «Quella – ricorda
Zani — era l’epoca in cui i poteri istituzionali erano in grado di
realizzare una mediazione tra interessi sociali diversi, sempre
mantenendo il proprio punto di vista. Oggi la chiamano leadership,
all’epoca si chiamava egemonia». Zangheri è stato un
protagonista anche culturale per Bologna. Studioso di
economia, del movimento socialista e della questione agraria,
insegnò all’Alma Mater e già dagli anni 60, molto prima di diventare
sindaco, si occupò di cultura per il partito.
«Zangheri è stato uno dei costruttori della nostra democrazia
repubblicana – ha detto Simonetta Saliera, presidente
dell’assemblea legislativa regionale dell’Emilia-Romagna — Come non
dimenticare il suo discorso in occasione dei funerali delle vittime
delle strage del 2 agosto 1980? Con la mano del presidente Pertini
sulla spalla, nelle sue parole Zangheri seppe tenere ferma la barra di
una città che, pur martoriata dalle bombe, non cedeva di una linea
rispetto alla difesa della democrazia e della legalità
repubblicana».
Poi c’è la questione del rapporto col movimento. «Nel Pci i giovani discutevano e c’era anche un tentativo di dialogo – ricorda Mauro Zani – Zangheri non era certo un uomo che non capiva, ma col movimento ha sempre agito concedendo poco e muovendosi con fermezza». «Nel 1977 venne ucciso Francesco Lorusso e ci fu una rivolta decisa in città. Il sindaco invocò i carri armati e fece presidiare la città dai militari», ricorda Beppe Ramina, all’epoca militante in Lotta continua. «Al funerale di Francesco c’era solo un esponente di rilievo del partito comunista, la distanza tra noi era molto grande».
Poi c’è la questione del rapporto col movimento. «Nel Pci i giovani discutevano e c’era anche un tentativo di dialogo – ricorda Mauro Zani – Zangheri non era certo un uomo che non capiva, ma col movimento ha sempre agito concedendo poco e muovendosi con fermezza». «Nel 1977 venne ucciso Francesco Lorusso e ci fu una rivolta decisa in città. Il sindaco invocò i carri armati e fece presidiare la città dai militari», ricorda Beppe Ramina, all’epoca militante in Lotta continua. «Al funerale di Francesco c’era solo un esponente di rilievo del partito comunista, la distanza tra noi era molto grande».
E non poteva che essere altrimenti vista la posizione di
Berlinguer sull’argomento. Ma quello, il 1977, fu anche l’anno del
convegno contro la repressione, quando per tre giorni 100mila
giovani — «poveri untorelli», li aveva definiti Berlinguer — si
riunirono a Bologna.
Nel 2007, intervistato dal quotidiano La Stampa, Zangheri ammise che «non è che avessimo capito molto di quei ragazzi, e di ciò che stava succedendo. Il Pci era di un altro mondo… È ovvio che da me non è mai arrivato nessun ordine al pugno di ferro in piazza, ma certo non fummo in grado di capire, non fummo all’altezza di quella sfida».
Nel 2007, intervistato dal quotidiano La Stampa, Zangheri ammise che «non è che avessimo capito molto di quei ragazzi, e di ciò che stava succedendo. Il Pci era di un altro mondo… È ovvio che da me non è mai arrivato nessun ordine al pugno di ferro in piazza, ma certo non fummo in grado di capire, non fummo all’altezza di quella sfida».
APPROFONDIMENTO - Quando si poteva litigare
di Franco Berardi Bifo
La morte di Renato Zangheri, intellettuale, storico ed
economista che fu anche sindaco della città di Bologna, mi
rattrista per ovvie ragioni umane, ma anche perché sono costretto
a paragonare l’epoca presente con quella in cui io e tanti altri
litigammo con Zangheri.
Litigammo per tutti gli anni Settanta, a Bologna come altrove, ma forse a Bologna più spesso, dato che la città in quegli anni sembrava un teatro nel quale confrontare idee. Con Zangheri, e con altri dirigenti del Partito comunista italiano, era possibile litigare, discutere, accapigliarsi, perché erano portatori di un pensiero. Nell’epoca presente il confronto con i politici di governo è reso impossibile dal fatto che essi non sono portatori di alcun pensiero. La politica è oggi mera applicazione di regole matematiche scritte dal sistema finanziario.
Se penso a colui che fu sindaco di Bologna nella seconda parte degli anni Settanta e si trovò quindi a fronteggiare la rivolta degli studenti e dei giovani proletari, il primo ricordo che mi viene in mente non è un bel ricordo.
Litigammo per tutti gli anni Settanta, a Bologna come altrove, ma forse a Bologna più spesso, dato che la città in quegli anni sembrava un teatro nel quale confrontare idee. Con Zangheri, e con altri dirigenti del Partito comunista italiano, era possibile litigare, discutere, accapigliarsi, perché erano portatori di un pensiero. Nell’epoca presente il confronto con i politici di governo è reso impossibile dal fatto che essi non sono portatori di alcun pensiero. La politica è oggi mera applicazione di regole matematiche scritte dal sistema finanziario.
Se penso a colui che fu sindaco di Bologna nella seconda parte degli anni Settanta e si trovò quindi a fronteggiare la rivolta degli studenti e dei giovani proletari, il primo ricordo che mi viene in mente non è un bel ricordo.
Nel marzo del 1977, rivolgendosi alle forze di polizia mandate
dal ministro degli interni Francesco Cossiga, Zangheri disse:
«Siete in guerra e non si critica chi è in guerra».
Nei giorni precedenti le forze dell’ordine avevano ucciso uno studente di medicina di nome Francesco Lorusso sparandogli alle spalle, avevano occupato la zona universitaria con i mezzi corazzati, avevano arrestato trecento persone e avevano chiuso una radio libera distruggendone i locali.
Non c’era niente da criticare? Forse sì, ma quella era la politica del compromesso storico cui Zangheri si piegò.
Lo scontro tra il movimento autonomo e il Pci raggiunse il suo culmine nel 1977, e vide Zangheri assumere un ruolo centrale nella polemica, forse suo malgrado. In quello scontro si scontravano due visioni del futuro, anche se ne eravamo solo confusamente consapevoli.
Nei giorni precedenti le forze dell’ordine avevano ucciso uno studente di medicina di nome Francesco Lorusso sparandogli alle spalle, avevano occupato la zona universitaria con i mezzi corazzati, avevano arrestato trecento persone e avevano chiuso una radio libera distruggendone i locali.
Non c’era niente da criticare? Forse sì, ma quella era la politica del compromesso storico cui Zangheri si piegò.
Lo scontro tra il movimento autonomo e il Pci raggiunse il suo culmine nel 1977, e vide Zangheri assumere un ruolo centrale nella polemica, forse suo malgrado. In quello scontro si scontravano due visioni del futuro, anche se ne eravamo solo confusamente consapevoli.
Non credo che abbia senso chiedersi: chi aveva ragione nel 1977? Il
partito comunista o il movimento autonomo? Non ha senso perché la
storia non funziona in quella maniera. Mentre cerchi una soluzione
per il problema, il problema è cambiato, e gli attori sono scomparsi
e quelli nuovi hanno altro cui pensare.
Eppure il senso generale della polemica di quegli anni oggi si potrebbe riassumere cosi: il movimento autonomo pensava che lo scatenamento delle forze sociali è un fatto positivo, perché innesca una dinamica liberatoria della cultura, della tecnologia, della sperimentazione. Il partito comunista pensava che lo scatenamento è pericoloso e va represso perché la società va governata dalla razionalità della politica.
Credo che il devastante trionfo del neoliberismo, negli anni immediatamente successivi, nasca proprio dal fatto che lo scatenamento era inevitabile e pieno di potenzialità positive, ma fummo incapaci di fare del movimento operaio l’interprete politico consapevole dello scatenamento delle forze sociali desideranti.
Eppure il senso generale della polemica di quegli anni oggi si potrebbe riassumere cosi: il movimento autonomo pensava che lo scatenamento delle forze sociali è un fatto positivo, perché innesca una dinamica liberatoria della cultura, della tecnologia, della sperimentazione. Il partito comunista pensava che lo scatenamento è pericoloso e va represso perché la società va governata dalla razionalità della politica.
Credo che il devastante trionfo del neoliberismo, negli anni immediatamente successivi, nasca proprio dal fatto che lo scatenamento era inevitabile e pieno di potenzialità positive, ma fummo incapaci di fare del movimento operaio l’interprete politico consapevole dello scatenamento delle forze sociali desideranti.
Fonte: il manifesto
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